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Il carro della comunità. Un racconto breve

  • Immagine del redattore: Giovanni Cusenza
    Giovanni Cusenza
  • 4 dic 2019
  • Tempo di lettura: 24 min

C’era una volta – e pare vi sia qualche scellerato che sostiene che ancora esista – un gruppo di individui che non amavano così tanto condividere il tempo in comunità, ma che tuttavia avevano riconosciuto fin da subito che, insieme, erano un gruppo così bello e funzionale che separarsi sarebbe stato assurdo. Inoltre, essi avevano delle solide ragioni storiche per cui farlo sarebbe stato oltre che sconveniente, pure di cattivo gusto. In questo gruppo, gli individui convivevano, sapendo solamente che la realtà della loro pacifica convivenza gli era stata ereditata con sacrifici, per questo essa, a suo tempo, era stata ritenuta bella e funzionale. 

In un tempo remoto infatti, in cui il gruppo era appena nato, si erano detti che la bellezza stava nella stessa funzionalità, poiché quest’ultima ne restituiva un’armonia senza pari. Allo stesso modo, si erano detti che la funzionalità era tale giacché rispondeva a una necessità, quella di non poter vivere altrimenti. Infatti, benché taluni membri – non tutti, eh! – fossero così intelligenti da sembrare che potessero vivere pure isolatamente, ciò non sarebbe stato tuttavia possibile, perché quanto esisteva attorno a loro era troppo pericoloso per vivere da soli e, allo stesso tempo, organizzare la vita, ciascuno per se stessi, richiedeva un tempo segnatamente maggiore rispetto a quello che, collaborando, sarebbe potuto avvenire.

Ma perché ci si pone questo problema? A ben vedere, un motivo c’è. Infatti, i singoli membri non è che portassero così tanta stima reciproca ciascuno verso ogni altro. Al contrario, ognuno riteneva fin dal principio di essere il migliore di tutti e che, se si fosse formato un gruppo, allora sarebbe dovuto esser lui il comandante. Né gli si potrebbe fare una colpa di ciò. Si trattava, in effetti, di una semplice disposizione della loro natura. Così, fra la necessità del riunirsi e, al contempo, la lotta per chi dovesse stare a capo del gruppo, l’accordo fu trovato nella creazione di una piccola comunità in cui ognuno era pari a ogni altro.

La singolarità di questa comunità stava nel fatto che, fin da principio, i partecipanti avevano ereditato un carro. Avevano deciso di condividere questo carro e di far sì, addirittura, che esso venisse considerato il vessillo della piccola comunità. Anzi, il carro, per l’esattezza, era ritenuto da ognuno la comunità stessa, in quanto esso rappresentava la corretta partizione dello sforzo ed era divenuto il simbolo del gruppo intero.

Era infatti la comunità stessa poiché di fatto era il luogo in cui il gruppo viveva man mano che andava spostandosi. Rappresentava, poi, la corretta partizione dello sforzo poiché, non disponendo ancora di animali da traino, i membri avevano diviso fra di loro lo sforzo del trainare il carro, sicché a gruppi più piccoli ci si alternava e alla fine tutti quanti erano partecipi del lavoro. La comunità sapeva che, se avessero avuto pazienza e avessero collaborato per bene, un giorno avrebbero ottenuto dei buoi, o magari degli asini, o dei cani, o delle renne, o persino dei cavalli agili e forti per trainare il carro.

La comunità funzionava benissimo in principio e andava gradualmente ingrandendosi. Ognuno collaborava con ogni altro, svolgendo al meglio la propria mansione. Chi si occupava del cibo, insieme ad altri, riuniva i viveri di ogni tipologia e li divideva ai restanti che, a loro volta, facevano lo stesso con altri beni, e così via. Ogni cosa rispondeva alla qualità massima, ognuna rispetto alla sua essenza e alla sua pratica utilità.

Ma le cose non andarono sempre per il meglio. 

Un giorno, parte della comunità maturò l’idea che comportarsi in una certa maniera fosse legittimo, purché ciò non causasse una privazione nello spazio di azione di ogni altro membro. Un’altra parte della comunità, tuttavia, pensava che le cose non dovessero stare così e che il semplice essere infastiditi da un comportamento, benché non direttamente interessati a esso, e nonostante esso, di fatto, non fosse per nulla motivo di fastidio, sarebbe stata una causa sufficiente per opporvisi.

La prima parte, quella che legittimava il comportamento fintanto che non causasse un danno agli altri, non era d’accordo; ma per non peccare di ignoranza domandò all’altra parte della comunità quale fosse la ragione per cui credessero quel che sostenevano. L’altra parte non rispose. In verità, vi dirò, essi non sapevano cosa rispondere, perché da se stessi capivano che non vi fosse ragione alcuna per opporsi in questa maniera. Quando tuttavia la prima parte insistette, la seconda parte iniziò a insultarla, accusandola di troppe sofisticherie. Essi non vollero analizzare le proprie e le altrui idee, metterle a confronto, cercare di cogliere i discrimini fra le une e le altre e, infine, sottrarre alla summa quelle cose che vi si trovassero di lesive. Essi, semplicemente, avevano il piacere di opporsi: e chi mai avrebbe avuto il diritto di privarli di questo piacere?

La sola voglia di lamentarsi, quindi, era un motivo sufficiente perché la seconda metà della comunità, che tuttavia da metà che pian piano inglobava sempre più individui, si fosse opposta a una richiesta legittima. Di lì, tante sarebbero state le questioni e le richieste provenienti dalla prima parte della comunità, che in fin dei conti pare volesse mondare e abbellire sempre più la vita collettiva, quante le risposte negative, seppur mai motivate, della restante.

La stessa produzione e condivisione iniziò a mostrare delle difficoltà e dei problemi. Le cose venivano fatte alla bene e meglio, sicché ciascuno teneva le migliori per se stesso e agli altri restituiva il peggio. La comunità si era trasformata in una discarica, in cui ognuno, per sé, rispondeva della proprietà verso le cose più belle che ci fossero, mentre ciò che era da considerarsi bene comune assumeva sempre più le sembianze di un rifiuto, di uno scarto. Pian piano i rapporti si inasprirono così tanto che, nonostante negli spazi condivisi tutti fossero soliti sorridersi vicendevolmente, le divisioni interne diventavano sempre più evidenti. E non solo. Anche all’interno delle prime divisioni, dopo un po’, iniziarono a mostrarsi segni di cedimento, cosicché in maniera ufficiosa ulteriori divisioni si sovrapponevano alle prime.

Nel primo gruppo, quello che tendeva a perdere sempre più di compattezza, infatti, erano sorte diverse opinioni. C’era chi iniziò a pensare che la vita comunitaria non fosse poi così bella come ci si poteva aspettare e subito, dall’altra parte, qualcuno pronto a ricordargli che, pur volendo opporsi alla vita comunitaria, non sarebbero esistite alternative. C’era chi, con la voglia di superare lo stallo di quest’ultimo, opponeva l’idea che allora sarebbe stato il caso di vivere in comunità ma con un singolo capo. Così, c’era chi pensava che questa sarebbe stata un’idea folle, perché pur trovando un capo illuminato, quasi perfetto, egli avrebbe dovuto lasciare il potere, per diritto di successione, al proprio erede, che sarebbe potuto essere, contrariamente a suo padre, buon capo, un pessimo capo. C’era chi pensava che questo problema si sarebbe potuto risolvere eleggendo un nuovo capo alla morte di ogni altro. C’era chi, tuttavia, vi si opponeva dicendo che una volta stabilito un capo tutto il resto della comunità sarebbe dovuta sottostare alle sue idee e che se questi avesse voluto, avrebbe potuto scegliere di non lasciare a nessuno il margine decisionale necessario a eleggere, di volta in volta, un nuovo capo. C’era chi pensava che la vita comunitaria non dovesse essere modificata, ma piuttosto accettata per quella che era, con tutti i suoi difetti. C’era chi, al contrario, pensava che quei difetti fossero insostenibili e che correre il rischio di metterla in dubbio sarebbe valso più di ogni altra cosa. C’era chi pensava che si sarebbe potuto riunire un consiglio della prima parte della comunità, poiché essa incarnava il progresso e la voglia di sostenere le idee motivandole, contrariamente all’altra, e ciò sarebbe stato sufficiente a definirli migliori. C’era chi, al contrario, pensava che così si sarebbe smarrito il senso stesso della comunità e che non sarebbe stato tanto diverso, mettendo in atto una tale idea, incorrere negli stessi problemi di quella di avere un singolo capo. C’era chi, similmente a chi riteneva di lasciare tutte le cose per come stavano, con tutti i loro difetti, pensava che un tale atteggiamento sarebbe stato espressione di superiorità dal canto della prima parte, e che la negligenza della seconda parte della comunità fosse un motivo per cui doverla aiutare, piuttosto.

Alla fine, fra le varie opinioni, quest’ultima fu la più accreditata, a ben vedere. Fra chi vi aderì, ossia i più fra i membri della prima parte della comunità, iniziò a svilupparsi anche una forma di scherzo, anche un po’ denigratoria, nei confronti dell’altra parte. Questa specie di scherno aveva luogo, in altri termini, con un atteggiamento che poneva la prima parte della comunità nell’accettazione della condizione così per com’era, ma al contempo riservandosi il diritto, talvolta, di affermarsi migliori e di prendere in giro i comportamenti dell’altra parte.

Fatto sta che, in questa maniera, la seconda parte della comunità iniziò a pensare, visto che in un modo o nell’altro l’avrebbero avuta vinta, che tanto valeva iniziare a rilassarsi sempre di più, a riposare sempre più sulla negligenza, lasciando che a trainare il carro, alla fine, fossero solo i membri della prima parte. La cosa avvenne con un tale silenzio, un tale adattamento e, benché qualcuno possa ritenere che fosse coscienziosa o meno, con una tale furbizia, da parte della seconda parte, che alla fine ciò ebbe luogo come se si trattasse di una cosa assolutamente normale.

Il carro, quindi, avanzava come sempre aveva fatto, ma adesso i membri della seconda parte non facevano che star seduti sopra di esso a dilettarsi di futili discorsi e, di tanto in tanto, a gridare ai trainanti di far meglio. I trainanti, dal canto loro, trainavano. E lo facevano, nonostante le grida contro di loro e la totale assenza dallo sforzo dell’altra parte, poiché si ritenevano superiori, in fin dei conti.

Un giorno, mentre il carro si muoveva per la sua via, apparve sul ciglio della strada una Donna, degna di molta reverenza nell’aspetto. Aveva occhi ardenti, che parevano scorgere molto più lontano di quanto non sia dato scorgere comunemente agli umani. I suoi vestiti erano fatti, con gran maestria, di fili sottilissimi e – così pareva – di una materia indissolubile. Non è escluso, solo a guardarla, che quei vestiti, dall’aspetto antico, fossero frutto delle sue splendide mani, fra le quali, inoltre, teneva alcuni libri.

Questa donna non si era mai vista prima, non faceva parte del gruppo. Incuriositasi, pose una domanda alla piccola comunità, ma avendo dinanzi i trainanti, istintivamente la pose a questi: «In quale estenuante e pericoloso cammino vi conduce la vostra umana mente, oggidì?».

I trainanti, che erano rimasti abbagliati tanto dall’aspetto, quanto dal portamento di quella Donna in candide vesti, risposero timidamente: «A dir la verità ne sappiamo tanto quanto lei, signora». Così la Donna, vedendo gli interlocutori quasi pietrificati, non tardò a espletare tutta la sua curiosità: «Non vorrei esser poco delicata, ma perché voi altri qui dinanzi siete così magri e muscolosi, mentre i tizi sul carro sono così panciuti e pasciuti?». Al che, il trainante rispose: «Perché noi trainiamo il carro, mentre loro stanno seduti». «E perché non vi alternate?», domandò la Donna. «Usavamo alternarci, fino a poco tempo fa. Poi abbiamo iniziato a trainare soltanto noi». «Come mai?», aggiunse la Donna. «Perché abbiamo ritenuto, dopo un po’ di tempo, di non esser tutti uguali, e che noi in realtà siamo superiori a loro». La Donna, così, domandò: «Quindi voi siete i capi?». «No», rispose l’altro, «Noi siamo tutti uguali, in questa piccola comunità».

La Donna, credendo di aver capito male, si scusò e aggiunse: «Mi perdoni, avevo capito, da quanto mi aveva detto poc’anzi, che voi foste superiori a loro». Un altro dei trainanti, ritenendo di esser più adatto a rispondere e celando dietro questa scusa l’incontenibile voglia di esser l’interlocutore di quella creatura leggiadra, antepose se stesso e la sua volontà a esprimersi al compagno, e disse: «Il mio compagno intendeva dire che la comunità si è costituita avendo riconosciuto che ognuno fosse uguale a ogni altro. Tuttavia, nel tempo, abbiamo iniziato a pensare, in forza di alcune discussioni interne alla piccola comunità, che la nostra parte della piccola comunità, in qualche modo, sia fatta di individui più coscienti, più consapevoli». «Avete, perciò, la consapevolezza di essere gli unici a compiere degli sforzi per tutta la piccola comunità?», replicò la Donna. «Sì, ma che vuol farci?». «Potreste alternarvi!». «Eravamo soliti farlo. Ora, invece, ci alterniamo soltanto fra i membri di questa prima parte». «E vi ritenete superiori?». «Sì, quelli sono degli inetti, poverini». «Poverini?». «Sì, poverini. Non sono in grado neppure di condurre un ragionamento elementare. Pensi che ogni volta che noi proponiamo qualcosa, loro non sanno fare altro che opporsi senza addurre alcuna ragione». «Mi perdoni, ma in questo gruppo chi prende le decisioni?», domandò la Donna rilevando un’incongruenza. «Tutti quanti! Se, messa ai voti, una cosa risulta idonea secondo la maggioranza, allora passa, altrimenti no. È la democrazia, siamo tutti uguali». «E vi sembra corretto?». «Sì, ne abbiamo discusso. Non c’è alternativa, pena la fine dell’uguaglianza e, quindi, della democrazia». «Ma se vi ritenete così superiori, perché parlate di uguaglianza?». «Perché se non ne parlassimo rischieremmo che sparisca del tutto e, alla fine, la comunità si distruggerebbe».

La Donna, allora, osservò: «Non potreste, piuttosto, ritenervi tutti uguali e adempiere ugualmente al traino del carro?». «Qualcuno fra noi della prima parte ancora lo pensa. Si finisce sempre a litigare su questioni del genere». «Se lo riconosceste tutti, invece, non potreste parlarne con l’altra parte?». «Non capirebbero», rispose il trainante.

«Perdonatemi, o sto facendo confusione io, oppure le cose che mi dice sono in contraddizione fra loro. Lei ha sostenuto che siete tutti uguali e che questa uguaglianza dev’essere salvaguardata, pena la fine della democrazia della piccola comunità, cosa che volete scongiurare. Avete pure sostenuto, tuttavia, che voi siete superiori a loro e che loro non sono così consapevoli e intelligenti da poter capire le vostre ragioni. Resta il fatto che voi siete qui a trainare il carro dell’intera comunità, mentre quelli stanno lì seduti a insultarvi e a blaterare fra loro di sciocchezze». «Cosa proporrebbe lei, signora?». «Un’idea sarebbe quella di smettere di scindervi internamente per diverse opinioni e cercare di unirvi per dialogare con loro». «Ma loro non capirebbero!». «E cosa aspettate, che qualche forza sovrannaturale venga a risolvere i vostri problemi?», ironizzò la Donna, dimostrando grande perizia.

«Suvvia, arriverà il giorno in cui riusciremo a ottenere degli animali da traino belli e robusti». «Di questo passo mi pare molto difficile! In che modo pensate che ciò possa avvenire se la comunità, al posto che progredire, degenera?». «Vi pare stia degenerando? Io credo piuttosto che dia solo l’impressione di degenerare, ma che il rischio che ciò avvenga è oltremodo lontano».

A quel punto la Donna tentò di pungolare l’interlocutore: «Voi sapete che siete degli sfruttati, giusto?». Il trainante, per un attimo, perdette di vista ogni sensazione di eccitamento che la Donna, col suo arrivo, aveva ravvivato in lui: «Senta, io non so chi lei sia e perché si sia venuta a fare i fatti nostri. Quel che so è che noi non siamo degli sfruttati, perché siamo coscienti, a differenza loro. Questa si chiama democrazia, e se magari loro, in questo periodo, non vogliono darci una mano, stia certa che arriverà il periodo in cui ci chiederanno di far cambio e ci lasceranno riposare». «Lei crede? Buon per voi, signori. Non ha per caso sostenuto che in questa democrazia voi mettete ai voti qualcosa e la maggioranza vince?». «Esatto». «Ma ha anche detto che tutte le vostre proposte periscono sul nascere». «Sì, perché loro non le condividono». «Quindi significa che loro sono la maggioranza?». «Beh, da un po’ di tempo a questa parte, molti di noi hanno deciso di andare con loro e, così, loro sono diventati la maggioranza. Per la precisione, ciò è accaduto per lo più quanto abbiamo iniziato a non alternarci più come facevamo un tempo», osservò il trainante. «E tutto ciò vi sembra logico? Siete sicuri che non siano loro, insomma, quelli superiori?», obiettò la Donna. «Ma li ha visti? Il loro stesso aspetto esteriore dimostra la loro essenza. Sono dei gretti, degli ignoranti, non hanno interessi che non siano futili e che non gli siano arrivati dalla loro parte del gruppo stessa. Mai un solo individuo, lì in mezzo, che scopra qualcosa per sé e se ne innamori. Si imitano a vicenda e, per lo più, si occupano di sciocchezze dalla mattina alla sera. Sono tutti uguali, tutti inetti, tutti allo stesso modo». 

Dopo che il trainante ebbe finito, la Donna rispose in modo diretto e coinciso: «Voi siete diversi?». «Sì, in qualche modo. Noi siamo più consapevoli, anche se qualcuno lo è più di qualcun altro». «E l’uguaglianza?». «Quella la si ammette per non distruggere l’intera comunità, ma di fatto non è che sia proprio reale. Qualcuno propone di fare una specie di questionario comune e chi risponde correttamente sarebbe assurto alla dignità di partecipare della comunità, entrando a far parte di coloro che possono prendere decisioni, mentre gli altri no». «Questo, però, non sarebbe proprio democratico. Certo, sarebbe una soluzione, ma solo in apparenza». «Solo in apparenza?». «Sì, alla fine il potere sarà sempre della maggioranza, che avrebbe diritto a creare un tale questionario. Se, poi, la maggioranza crea il questionario, lo fa a suo piacimento, lo esamina a suo piacimento e si giunge piuttosto alla dittatura dell’ignoranza, non crede?».

Il trainante, spiazzato dalle argomentazioni della Donna e perso in quello sguardo che trasudava un’arguzia mai vista prima, rispose alla meglio: «Ma va, funzionerebbe, glielo dico io». La Donna, che se la razionalità avesse assunto una forma avrebbe scelto certamente la sua, osservò: «Non potreste smettere di trainare e iniziare a discutere la possibilità di tornare ad alternarvi?». «Questo carro deve muoversi: non si muoverà da solo, nel frattempo. E poi, siamo di meno». «Ma avete detto di disporre di armi migliori, maggior consapevolezza, più intelligenza». «Sì, ma loro non capirebbero e finirebbe a insulti». «Mi perdoni, ma se sostiene ciò significa che avete provato a parlarvi qualche volta». «Sì», ammise il trainante. «Vuol dire che non vi siete parlati come avreste dovuto. Dialogare significa confrontarsi, non esprimere il proprio pensiero in maniera unidirezionale e “se compreso bene, altrimenti lasciamo perdere”. Magari loro, se vi sono davvero inferiori, non sanno parlare in altro modo. Ma voi, che vi ritenete superiori, allora saprete certamente trovare alternative. In altri termini, benché sia bello condividere opinioni, se veramente vi ritenete migliori e credete che essi al contrario non dispongano di vere e proprie opinioni, allora dovreste essere in grado, quantomeno, di convincerli e, così, di salvare la situazione». «Sì, ma chi ha pazienza di discutere con loro?». A quel punto la candida Donna percepì ella stessa un fastidio: «Ah, quindi il problema è la pazienza? Ma mi scusi, vi rendete conto che per un problema di pazienza state trainando il carro da soli e vi state spartendo i meriti del carro tutti insieme?». «Se lei dispone di una tale pazienza, sono contento per lei». «Io, invece, sono molto dispiaciuta per voi, perché non mi sembrate così intelligenti come affermate di essere. Se infatti lo foste, allora vi rendereste conto che, come siete passati dal fare tutto insieme, siete passati a trainare e, come buona parte di voi abbandona il traino per unirsi a chi siede sul carro, così arriverete a non aver più nessuno che traini il carro. E, alla fine, il carro si fermerà rischiando di collassare e non poter più ripartire». «Ma si figuri, non collasserà mai!».

«Non è mai accaduto prima?». «Sì, prima che questa comunità si ricostituisse e tornasse a splendere c’era un vecchio carro, che fu dato alle fiamme, dopo che tutti i vecchi membri iniziarono una guerra. Infatti, in quel tempo, era accaduto che alcuni si fossero imposti a dominio del carro e, con delle fruste, costrinsero altri al traino. Erano intolleranti e pericolosi, e quando qualcuno vi si opponeva lo buttavano giù o lo mandavano via dal carro, fossero parte della seduta o del traino, non permettendogli di tornare più nella comunità. Per fortuna, alcuni individui saggi fra i trainanti e fra quelli che erano stati espulsi compresero che bisognava far qualcosa e allora imbracciarono delle armi e si ribellarono ai sedenti autoritari. Riuscirono a vincere e ci restituirono la libertà. Ricostruirono il carro e ce lo lasciarono, più bello di prima, dicendoci di averne cura, perché alcuni di loro lo avevano liberato e restituito all’intera comunità dando finanche la vita». «E allora non credete che tutto ciò possa accadere di nuovo, continuando così?». «Cos’è, pensa che la storia sia ciclica?».

La Donna, che non avrebbe escluso d’analizzare qualunque opinione, così pure quella contenuta in questa domanda, che il trainante aveva posto con fallace ironia, rispose: «No, a prescindere da questo. Nel senso, le prerogative ci sono tutte e che la storia sia ciclica o meno, che si ripeta o no, tenere conto di situazioni simili già avvenute non penso possa portare altro che benefici». «Ma le pare che siamo ancora nell’antichità?». «Mi scusi, quando è avvenuto questo fatto?». «Sarà passato un secolo, circa». «E le pare lontano?». «Che c’entra! Ormai abbiamo costituito delle condizioni solidissime perché possa succedere di nuovo qualcosa del genere. Siamo abbastanza evoluti. E poi sì, un secolo è tanto tempo».

Fu lì che la Donna controbatté canzonando un po’ il trainante: «Lo chieda a un albero di ulivo se un secolo è tanto tempo. O magari a un gatto, che, al contrario, giudicherebbe una settimana esser lunghissima. Una farfalla direbbe che un giorno le pare una vita intera!». «Mi prende in giro?». «Non ce n’è bisogno, mio caro, lo sta facendo già abbastanza autonomamente. Vi auguro di risolvere ogni vostro problema».

La Donna si congedò in questa maniera che ai più risulterà un po’ scortese. A giudicar dal suo bell’aspetto, infatti, parve un atteggiamento inadeguato, ma che tuttavia non si poteva definire incoerente, né del tutto sbagliato. 

Dopo qualche giorno, alcune persone giunsero attorno al carro. Sembravano provenire da luoghi lontani e l’aspetto debole pareva confermare l’ipotesi. Parlavano lingue sì diverse da ricordare quei disgraziati della Torre di Babele, a cui, secondo il mito, Iddio confuse le favelle. Il loro aspetto, poi, li differenziava in gruppi: taluni avevano una carnagione molto scura, altri mulatta, altri giallognola, e via dicendo. I nuovi arrivati iniziarono, ciascuno alla propria maniera, a chiedere di entrare a far parte della piccola comunità. I sedenti sul carro si opposero subito, mentre i trainanti chiesero quali fossero le loro ragioni per volersi unire alla piccola comunità. I richiedenti asilo, tali erano i nuovi forestieri, risposero che venivano da altri carri, in gruppi diversi, e che i loro carri erano sull’orlo dell’essere incendiati. Altri sostenevano, nulladimeno, che i carri a cui appartenevano erano già stati incendiati. Erano venuti proprio in questo carro, tuttavia, perché era quello più vicino, dopo aver percorso una lunga strada, senza viveri e nel mezzo di tante insidie. Non lo avevano scelto, insomma, ma ne avevano in qualche modo necessità.

I trainanti allora, rivolgendosi ai sedenti, dissero che era giusto farli entrare. Qualcuno fra i trainanti aggiunse pure che, se i nuovi forestieri fossero entrati a far parte della piccola comunità, avrebbero potuto partecipare nell’alternarsi sullo sforzo del traino. Fra i sedenti, tuttavia, l’opinione era del tutto contraria. Qualcuno fra loro, avendo sentito da qualche parte queste parole, rispose che i forestieri dovevano essere aiutati nei loro carri, mandando qualcuno in soccorso delle loro comunità, piuttosto che accettandoli sul carro della piccola comunità. Così, i sedenti iniziarono a proclamare in coro che i forestieri dovessero essere aiutati sui loro carri. Tuttavia, qualcuno dei trainanti, non ritenendo corretta quest’affermazione, poiché in effetti peccava di eccessiva semplificazione, chiese di provare a far entrare qualcuno, sicché qualcuno alla fine entrò, mentre tutti gli altri stavano attorno al carro, che nel frattempo andava spostandosi, in attesa che pure loro potessero entrare. Senza delle ragioni, come al solito, la voce dei sedenti si spostò verso un’affermazione ancora più radicale: adesso, questi ultimi volevano che i forestieri se ne stessero fuori dal carro e chi se ne fregava di quanto stesse accadendo ai loro carri. La questione aprì una polemica che, da quel giorno, si sarebbe protratta a oltranza, chissà per quanto tempo.

Nel frattempo, soltanto con qualche forestiero in più che aveva avuto modo di entrare in un primo e più fortunato momento, il carro continuava a muoversi. I nuovi forestieri aiutavano, per lo più, e si alternavano di tanto in tanto ai trainanti che, dal canto loro, non volevano lasciare che la fatica gravasse tutta sui nuovi arrivati. Né tantomeno questi ultimi avrebbero avuto modo di trainare il carro da soli: anzitutto, i loro carri di appartenenza erano ben diversi, quindi se avessero fatto tutto soli avrebbero trainato diversamente, in maniera magari inadatta rispetto al carro che trainavano adesso; poi, inoltre, erano troppo pochi per trainare il carro da soli e, per di più, molti erano ancora straziati dal lungo cammino; infine, sarebbe stato niente di diverso da un sopruso lasciare che i nuovi arrivati facessero tutto da sé e, sulla base dei motivi di uguaglianza che avevano fondato, in principio, la piccola comunità, ciò non sarebbe stato ammissibile. Così, i trainanti continuarono in questa guisa.

Nel frattempo, però, le voci dei sedenti iniziarono a inasprirsi sempre più. Il risultato fu che, fra questi ultimi, qualcuno iniziò a far circolare l’idea che i nuovi arrivati stessero rubando il traino ai membri della comunità. È chiaro che una tale affermazione appaia incongruente con lo stile di vita dei sedenti, che da troppo tempo, ormai, non partecipavano più del traino. E tuttavia si sa quanto queste invettive appaghino coloro i quali non dispongono di solidi moventi a supporto delle proprie obiezioni.

Ci si domanda tutt’oggi quale fosse la ragione dei sedenti e, a ben vedere, non si riesce a trovare risposta alcuna. C’è chi ritiene che a loro quei disgraziati non piacessero proprio istintivamente, "a pelle", e che quindi gli facessero un po’ schifo, insomma. Qualunque fosse la ragione, se in una cosa i trainanti non si erano mai sbagliati, era che i sedenti di ragioni non ne avevano mai addotte, perché non ne avevano mai avute. Per avere un motivo a supporto delle proprie idee, infatti, bisogna sviscerarle e ragionarci. Ma un tale procedere è in contrasto con i termini della negligenza e della strafottenza, tanto amate dai sedenti.

In altre parole, questi ultimi avrebbero dovuto fare uno sforzo, ma ormai erano così tanto abituati a non sforzarsi, da così tanto tempo, che pur volendo non ne sarebbero stati in grado. Ma chi manca di qualcosa, tendenzialmente, non è in grado di accorgersi di una tale mancanza. Chi è in difetto, in altre parole, non coglie la propria deficienza. Così, questi è propenso a ritenere che sia nel giusto e che stia facendo tutto quel che deve esser fatto. In questo senso, quando nella precedente conversazione fra il trainante e la misteriosa Donna il primo disse che i sedenti erano dei “poverini” non aveva del tutto torto. Il problema, lì, stava nel fatto che, alla fine dei conti, il trainante vedeva solo un lato della medaglia, senza accorgersi della sua personale condizione, dovuta proprio all’atteggiamento dei sedenti.

Un dì, dopo che la questione si fu protratta senza sosta e che il carro iniziava a perder colpi, l’affascinante Donna attraversò nuovamente la strada, in modo del tutto casuale. Qualcuno fra i trainanti la riconobbe e, benché non ritenesse che ella fosse stata molto rispettosa quando si era congedata la volta precedente, la salutò con contentezza. Infatti, questa accettazione del comportamento della Donna da parte del trainante non scaturiva da un meccanismo mentale differente da quello per cui, allo stesso modo, chi trainava il carro era così propenso a giustificare i sedenti rispetto alle loro opinioni e, sopra ogni cosa, rispetto alle loro azioni. In entrambi i casi, egli stava guardando, nuovamente, una sola faccia della medaglia.

«Signora, si ricorda di noi?», disse il trainante. «Buongiorno. Certo che mi ricordo! Come va con il vostro carro? Avete superato qualche difficoltà?», domandò la Donna. «Per la verità i rapporti fra di noi si sono ulteriormente inaspriti. Vede tutte queste persone attorno al carro? Ecco, questa gente è venuta a chiederci di far parte della nostra piccola comunità». «E cosa ci sarebbe di male in questo? Certo, non siete bravi a gestirla in pochi, quindi sarà più difficile gestirla in tanti. Ma, allo stesso tempo, potreste spartirvi ulteriormente il lavoro e alleggerire lo sforzo di ognuno. A maggior ragione se, come avete detto l’altra volta, solo una parte di voi traina il carro». «È per questo che siamo di più a trainare, infatti», osservò soddisfatto il trainante. «A me pare che siate più o meno lo stesso numero dell’altra volta. Anzi, direi perfino di meno».

Il trainante blaterò qualcosa di incomprensibile e poi disse: «Beh, quello è successo perché quando alcuni dei forestieri si sono uniti a noi, i numeri di coloro che hanno abbandonato il traino sono aumentati. Ma la cosa non è insostenibile, perché, per fortuna, ci sono i nuovi aiutanti a trainare!». «Come l’altra volta dimostrate di non comprendere la realtà del vostro carro», osservò la Donna, che aveva perso le speranze, benché di fatto non fosse solita sperare. «E come l’altra volta lei vorrà insultarci, immagino?». «L’altra volta non vi ho insultati, se avete capito quanto vi ho detto», rispose la Donna in maniera apologetica, «Altrimenti dimostrate di esservi curati troppo della forma del mio parlare, che certamente non è stata delle migliori, e quasi per niente dei contenuti».

Proprio come quella volta in cui il filosofo indicava la luna e lo sciocco guardava il dito, la Donna sottolineò: «Insomma, non vi siete comportati in maniera tanto diversa da come non facciano i sedenti quando provate a parlare con loro alla vostra maniera». «Spero non ci stia paragonando a quegli individui lì. O forse dovrei dire a quelle bestie», rispose il trainante rivolgendo lo sguardo con disgusto verso il carro. «Bestie, dice? Pare che i vostri rapporti si siano inaspriti ulteriormente dall’ultima volta se da ignoranti che li definivate oggi li chiamate addirittura “bestie”», aggiunse sorridendo la Donna. «Non c’è niente da fare in questa situazione e lei lo sa meglio di me». «Questo è vero. O meglio, è vero che le possibilità di migliorare le cose si allontanano sempre di più, proprio come l’universo si espande. Bisogna sbrigarsi a osservare i fenomeni del cielo, infatti, perché, se si perdesse troppo tempo in altro, si scoprirebbe sempre meno del cielo, poiché diverrebbe sempre più buio e i gli altri sistemi sarebbero sempre più lontani dal nostro». «Che intende dire?», domandò il trainante. «Intendo dire che se non vi sbrigate a risolvere i vostri problemi, farete la fine dei vostri avi», replicò la Donna, svelando il senso della similitudine.

«Non permetteremo che ciò accada, vogliamo preservare la loro memoria e vogliamo che le loro gesta non finiscano nel nulla». A quel punto la Donna volle sollecitare il suo interlocutore: «Voi sapete che se i vostri antenati fossero stati qui, oggi, vi avrebbero disprezzato?». Il trainante s’infuriò: «Ma cosa dice, signora?! Come si permette?». «Dico sul serio», rispose convinta la Donna, «Lei crede che a loro piacque l’idea di dover finire a darsele di santa ragione per sistemare tutto?». «Certo che no!», replicò il trainante. «Ma lo fecero comunque, perché era necessario. Se non volete dover ricorrere ai medesimi mezzi, vivere la stessa miseria, patire uguali sofferenze, dovete sbrigarvi». «Cosa dovremmo fare?». «Quante volte ancora me lo chiederà? Dovete dialogare: di-a-lo-ga-re!», rispose la Donna, scandendo le parole come se avesse davanti qualcuno che non comprendesse la sua lingua.

«Ma non capirebbero!», urlò alla medesima maniera il trainante. «Si rende conto di come sta degenerando questo carro? Si rende conto che le premesse con cui fu fondato sono già state annientate?». Il trainante esitò un momento, così la Donna proseguì: «E lo sa di chi è la colpa? Sa chi sta distruggendo il carro che i vostri eroici antenati vi hanno donato?». «Chi?», domandò il trainante. «Voi», rispose la Donna con misurato sdegno. «Noi?», domandò stizzito il trainante. «Sì, voi. Non si può chiedere a un cieco di guardare qualcosa, ma lo si può chiedere a un vedente. Se davvero i sedenti sono ciechi e non siete voi, invece, i ciechi (cosa che non escluderei!), allora la colpa di non aver guardato quando era il caso di farlo è di chi vede: la vostra». «Ma vedere che cosa? Mi sta confondendo, per carità…», rispose seccato il trainante. «Vedere quel che vi ho già detto di vedere: che questo carro non rispetta più l’uguaglianza, che sta diventando un carro intollerante, e la xenofobia dei sedenti, di cui mi ha parlato, è un motivo sufficiente ad ammetterlo. Questo carro non è più un carro democratico, ma si trova nel limbo fra la democrazia e l’autorità dei sedenti. Conseguenza ne sarà, così facendo, che quando i sedenti avranno costituito il loro potere, il limbo sarà trapassato, e l’intolleranza, che con i vostri ideali di uguaglianza cercate di combattere, schiaccerà quella che voi ritenete tolleranza, che a me, a dirla tutta, pare più strafottenza e stupidaggine». «Ci sta dando degli stupidi?». «Sì, e non lo veda nuovamente come un insulto. Voi trainanti vi ritenete superiori ai sedenti solo perché riconoscete di avere delle idee inclusive. Ma nello stesso tempo in cui, tuttavia, vi rendete superiori, mostrate che le vostre idee sono, secondo voi stessi, delle idee esclusive, per pochi. La realtà, però, mostra voi che trainate questo carro, coscienti di quale sia il problema. E, allo stesso tempo, il problema siede sul carro e acquista sempre più consenso, decimandovi sempre di più, senza che voi ve ne rendiate neppure conto. Proclamate la libertà e la state perdendo voi stessi. Proclamate la pace e state per scadere in un conflitto». «Non accadrà mai, abbia pazienza».

«Per quanto ho osservato l’altra volta, la pazienza è il caso che la troviate voi. Ma poi, alla fine, che vi costa provare a dialogare?». «Tempo, oltre alla pazienza». «E come impieghereste piuttosto questo tempo?», domandò la Donna. «Quando trainiamo trainando, quando riposiamo riposando», rispose il trainante in maniera eminentemente tautologica. «Ah, bene. Ma lei sa che dialogare serve a ricavare un beneficio comune? Nel senso che se trovaste il punto in comune, che pare funzionasse in origine (o almeno più di quanto ora paia non funzionare affatto), potreste avere meno tempo da dedicare al traino e più per riposare. Potreste occupare quel tempo per fare altro, per sviluppare nuovi interessi e, comunicando fra voi e condividendo le idee, potreste apportare sì tante migliorie al vostro carro che quello datovi dai vostri antenati, a confronto, sembrerebbe una ruota». 

Il silenzio cadde fra i due interlocutori e, poco dopo, la Donna salutò il trainante, augurando buona fortuna a lui e a tutti i presenti. Sì, gli augurò buona fortuna, benché ella stessa sapesse meglio di chiunque altro che la fortuna, come la speranza, quantunque siano caratteristiche quasi del tutto naturali nel genere umano, sono in contrasto con la vera espressione della sua razionalità, e cioè l’impossibilità di fermarsi, cercando sempre di agire, di conoscere, di avanzare.

L’umano è responsabile del suo destino, in altri termini. Secondo la Donna, le Colonne d’Ercole è opportuno superarle, è giusto avere quella curiosità, che si pecchi o meno di tracotanza, perché congetturare cosa vi sia dietro e imporre una tale congettura come indiscutibile, è segno di un’ignoranza abissale. Persino Dante, benché tanti studiosi preferiscano vederla diversamente, lascia che Ulisse, con la sola ragione, arrivi quantomeno a vedere uno dei tre regni dell’aldilà. In quel passaggio dell’Inferno dantesco, infatti, sembra che Dio sia da meno dinanzi alla ragione umana e che, quindi, non gli resti altro che affondare la nave degli avventurieri. Nondimeno, se si assumesse che ciò sia il risultato casuale di quella narrazione, giacché Dante fu dichiaratamente un sostenitore della fede, allora si potrebbe dire pure che la fede abbia bisogno di risolversi nella ragione per necessità ontologica, piuttosto che il contrario. L’essere umano è l’espressione della ragione e quando vi si sottrae è l’animale più debole e ridicolo del mondo intero.

La Donna consigliò solamente di prendere in mano la situazione, perché la situazione non è in grado di risolversi da sola, se non lasciandosi collassare autonomamente, restituendo alla comunità tutto ciò che sarebbe bene evitare.

Il carro proseguì e nulla si seppe di come andarono a finire le cose. C’è chi racconta che alla fine tutto si risolse, cosa molto improbabile, dico io. Pare più plausibile quanto altri sostengono. E cioè che poco tempo dopo i trainanti si decimarono sempre di più, finché i primi fra i sedenti, quelli originari, usarono delle catene per legare i trainanti al carro, costringendoli a lavorare forzatamente. A quanto pare non mancò l’impiego delle fruste, proprio come era successo in passato, e quando iniziarono a usarle cominciarono a dettar legge sul carro come se esso fosse tutto loro.

Il riutilizzo degli stessi mezzi del passato non fu una cosa del tutto casuale. Da un po’, infatti, i sedenti avevano iniziato a sviluppare un sentimento analogo a quello dell’intollerante autorità del secolo precedente. E non c’è da meravigliarsi: fra loro la memoria di quella tragedia era divenuta fievole da tempo, ormai. 

Le persone attorno al carro non sparirono, perché non avevano dove andare, così i sedenti decisero di liberarsene nel modo più conveniente, un modo che, per garbo verso il lettore, verrà omesso dal seguente racconto.

La storia, così come quegli altri la raccontano, non finisce qui, tuttavia. Sembra che, dopo un lungo periodo di tempo, qualcuno innescò una ribellione e il carro finì nuovamente incendiato. Quando i sedenti furono eliminati vi erano davvero poche persone, ma il carro fu finalmente libero. Furono stabilite delle regole ispirate a quelle ereditate dagli antichi eroi, giacché di alternative migliori pare non ne esistessero. I superstiti ereditarono il carro a una nuova piccola comunità.

Quest’ultima iniziò una vita equilibrata, ma pare che poi qualcosa andò storto e che alcuni iniziarono a interessarsi del carro più di altri. Una parte, così, finì a trainare il carro, perché sarebbe stato inammissibile, dopo il sacrificio dei loro antenati, lasciare che collassasse nuovamente su se stesso. L’altra, invece, si mise a sedere sul carro e non si volle più muovere.

Ci si domanda se a seguire vi fu un’altra guerra. Ma quel che si sa, per certo, è che prima o poi sarebbe avvenuto un conflitto che avrebbe portato alla fine del carro e della comunità. Di lì in poi, senza armonia né disordine, senza lode né infamia, quella strada avrebbe continuato a esistere comunque, pure senza che il carro la percorresse più.

 
 

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