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Lezione immaginaria di Estetica

  • Immagine del redattore: Giovanni Cusenza
    Giovanni Cusenza
  • 21 set 2019
  • Tempo di lettura: 13 min

Aggiornamento: 25 feb 2024

Il presente scritto rappresenta una lezione immaginaria, tenuta da un professore immaginario a degli studenti immaginari, avente luogo in un'aula immaginaria.


«Che cos’è l’Estetica? Si tratta forse di una mansione dedita alla cura del corpo? Certamente no. E questa stessa osservazione ha un tale sapore di luogo comune che è difficile distinguere se si tratti di una battuta mal riuscita o di una freddura. Diciamo che me ne vergogno, ecco, e passo avanti.

Tutti voi, signore e signori, avete intrapreso questo percorso per motivi assolutamente differenti, ma talvolta attraverso simili esperienze. Fra di voi v’è chi è più o meno cosciente del motivo per cui si trova qui, in questa facoltà; e vi è poi chi crede di saperla tanto lunga da avere la quasi certezza di saper rispondere a interrogativi, a suo vedere, banali come quello che vi ho appena posto. Il motivo per cui mi risparmio di porre direttamente la domanda a voi, nell’attesa che quest’ultima categoria di studenti dia la sua risposta, è perché quantunque essa possa considerarsi esatta, probabilmente la sua esattezza non è totalmente da considerarsi tale, poiché il significato dell’estetica è racchiuso in qualcosa di certamente più grande di ciò che concepite quando pensate ad essa.

Voi, infatti, rispondereste che essa è quella branca della filosofia, o disciplina filosofica, che si interessa dell’indagine dei giudizi di gusto. E aggiungereste, a buon titolo, che tali giudizi vengono considerati per lo più intorno all’arte, ma anche alla natura, se considerata più kantianamente come creazione di un intelletto divino o più aristotelicamente come ciò da cui l’arte umana scaturisce, quell’ars natura imitatur che probabilmente avrete sentito da qualcuno dei vostri docenti in passato. Ebbene, avete ragione; ma sarebbe l'equivalente di vantare una galassia parlando di un piccolo pianeta periferico, come se si trattasse del centro del mondo.

Partiamo dal presupposto etimologico che il termine «estetica» viene dal latino aesthesis, che traduciamo comodamente con sensibilità, sensazione; o, se preferite, dal verbo greco αἰσθάνομαι, che indicherebbe proprio la capacità di percepire attraverso i sensi.

L’Estetica è stata – diremo impropriamente – catalogata da Alexander Baumgarten, un professore tedesco che fu spinto dai suoi stessi alunni, tanto amavano le sue lezioni, alla stesura di un manuale chiamato Aesthetica. E dico "catalogata", perché pure prima del suo atto fondativo vi furono filosofi che si servirono, involontariamente, di essa.

Nella prima definizione del suo scritto, Baumgarten scrive che l’estetica è la «scienza della conoscenza sensibile» (1). Diremo oggi, con una differente accezione del termine scienza, che essa non può certamente essere definita tale, e va bene. Ma non possiamo escludere neppure che l’estetica, partendo anche dal significato etimologico che ho favorito poc’anzi, abbia uno stretto legame con la praxis e, dunque, un'ineffabile utilità nella vita.

Orbene, anche in seno al suo legame col mondo dell’arte, così come viene più comunemente concepita, essa non può certamente prescindere dall’intrattenere un forte legame con la sensibilità. Noi, infatti, apprendiamo la realtà mediante i sensi e reagiamo nei confronti di essa a partire dal tipo di stimolo che il senso produce. Se qualcosa, in altri termini, ci procura un sentimento di piacere, diremo allora che essa è cosa piacevole; altresì diremo che ci provoca fastidio.

Nel dominio dell’arte ciò è utile per la produzione di giudizi di gusto. È vero che, se considerassimo le varie forme d’arte, non potremmo dire che tutto si riduca alla concezione del bello e del brutto. C’è chi, a buon titolo, potrebbe notare che talune performance dell’arte contemporanea siano finanche disgustose e che, dunque, lungi dal produrre un semplice giudizio di bruttezza, esse provochino perfino disgusto, disapprovazione nei fruitori. In tali casi, le nostre reazioni sono differenti dal semplice constatare: potremmo andarcene proprio via dal luogo dell’esibizione, potremmo scagliarci contro di essa schernendola o ritenendola immorale, potremmo persino vomitare!

Tenete a mente questa faccenda delle reazioni, ma cerchiamo di non perdere l’attenzione dal punto focale del discorso.

Per iniziare a comprendere sul serio cosa sia l’estetica, ho bisogno di comunicarvi qualcosa che potrebbe pure creare disapprovazione a chi vi insegna, o vi insegnerà, la filosofia teoretica. Dirò, infatti, in modo riduttivo e generalista come possiamo concepire il processo conoscitivo. Si badi, tuttavia, che l’utilità ai fini del nostro ragionamento non ha a che fare con il concepimento di un’esatta teoria della conoscenza, ma avrà, come noterete, un altro fine. Diciamo quindi che gli umani, sia che volessimo definirli soggetti conoscenti o organismi viventi più in generale, sono immersi in un ambiente; essi sono mutevoli e l’ambiente lo è altrettanto. Essendo noi tutti, quindi, individui immersi in un ambiente, non possiamo mai considerarci come isolati da esso, né dalla circostanza contingente che ci troviamo a vivere: noi siamo, invece, continuamente affetti da qualcosa, in qualche maniera. Infatti, tutto ciò che ci circonda è in costante interazione con noi.

Nel Dialogo della Natura e di un Islandese (2), Giacomo Leopardi osservava che tali affezioni sono per lo più fastidi che ingombrano l’uomo in ogni momento del suo vivere, ad esempio. O quantomeno questo è ciò che l’Irlandese lamentava alla Natura. Insomma, possiamo ammettere che la realtà che ci circonda interagisce costantemente con noi. Ogniqualvolta noi entriamo in contatto con gli elementi che la caratterizzano, con altri organismi che la vivono e, dunque, la modificano di continuo, noi lo facciamo primariamente – e forse unicamente – attraverso i sensi, che sono costitutivi di quella che chiamiamo sensibilità. Abbiamo definito i prodotti di questa, con il nostro linguaggio, con il termine sensazioni: diremo quindi che queste sensazioni sono i prodotti dell’interazione dell'individuo con l’ambiente, la quale avviene grazie alla sua sensibilità.

Ora, noi funzioniamo molto similmente a dei reagenti, sicché ogni volta che qualcosa entri in contatto con noi, a sua volta, produce qualcosa in noi; e noi, a nostra volta, produciamo pure qualcos’altro.

I filosofi hanno una tendenza storica a suddividersi in chi concepisce che l’umano disponga di qualche capacità e conoscenza a priori, gli innatisti, e chi invece, in maniera empirista, considera che esso nasca più similmente a un foglio bianco, sul quale l’esperienza scrive gradualmente ciò che, poi, diviene una caratteristica talmente spontanea da essere confusa come qualcosa che ci sia sempre stata. Dire che non voglio contaminare le vostre menti col mio pensiero sarebbe inutile, poiché altrimenti dovrei persino astenermi dal condurre questa lezione oggi. Per cui, vi dico che, personalmente, ho tendenze più ascrivibili agli empiristi, e quindi ai secondi; ma non escludo che l’uomo possieda comunque delle disposizioni che non siano soltanto frutto dell’abitudine e del rapporto con l’esperienza.

È diverso l’imparare a usare la mano per suonare la chitarra dall’avere una mano che necessariamente saprà suonarla. Ci sono certi movimenti che, benché si imparino, in qualche modo risultano talmente comuni agli uomini, così come certe reazioni verso le cose del mondo, che fanno pensare che in qualche modo ci sia una correlazione – e nel momento in cui si stabilisce una correlazione, si stabilisce un ‘a priori’, perché significa che gli uomini sono forniti di queste capacità: se non tutti quanti e se non per tutti identiche, quantomeno in larga parte e quantomeno similmente. È qualcosa, questo discorso, che si innesta più comodamente nell’anatomia e nella fisiologia che nella filosofia: ammettiamo, infatti, che alcune caratteristiche fisiche ci accomunano – siamo bipedi tutti, ad esempio, perché abbiamo pressoché strutture fisiche analoghe; così come alcune caratteristiche legate al pensiero e alla percezione paiono comportarsi alla medesima maniera in ognuno di noi – percepiamo similmente lo spazio che ci circonda, ad esempio.

Ma torniamo al fatto che siamo tutti continuamente affetti dal mondo che ci circonda. Vi dirò in che modo avviene questo processo, a mio parere.

Se qualcuno è a conoscenza, o addirittura amante, della psicologia sociale e di alcuni pensatori di correnti affini, sappiate che quando faccio questi ragionamenti dovrete ben guardarvi dall’opporvi a essi senza attendere la conclusione. Potrebbe sembrare, infatti, che con tali discorsi io tenti di innalzare dicotomie, dualismi, opposizioni fra parti di cose che le appena citate filosofie considerano come continuità, come ad esempio la mente rispetto al corpo, l’individuo rispetto alla società, e via dicendo. Se così fosse, e cioè se ne steste traendo qualcosa di tal tipo, allora sappiate da subito che ogni distinzione che apporterò servirà per concepire il ragionamento in termini più comodi e non per definire delle separazioni o per fare la guerra alla storia del pensiero.

Consideriamo l’esperienza non come qualcosa di cognitivo, ma quantomeno in termini più privati, così come avviene quando da soli in una stanza ripensiamo agli accadimenti della giornata. La percezione sensoriale – e la parola contiene già il nesso in sé – avviene attraverso la sensibilità che, come già detto, ha luogo grazie ai sensi. Tutto ciò che entra a contatto con noi, in qualche maniera, imprime in noi qualcosa, sia essa più o meno conscia, sia essa, volutamente o meno, ricordata. Ciò che viene impresso possiamo chiamarlo, per trasposizione terminologica, impressione: quindi diciamo che quando entriamo in contatto con l’ambiente, in noi nascono delle impressioni. Quante volte vi chiedete: che impressione ti sei fatto di quel tizio? Ecco, le cose che ci circondano si imprimono in noi. Questo è uno dei motivi per cui chi abbia studiato greco antico sa che nessuno tradurrebbe il passato prossimo del verbo vedere con "ho visto": va, infatti, tradotto con "io so"; perché, sia pure in maniera vaga, dopo aver visto qualcosa essa si imprime in noi a tal punto che, se la rivedessimo, la riconosceremmo – sentite: ri-conoscere? – e, dunque, in qualche maniera, avendola già conosciuta, la "sappiamo".

Tali impressioni possono essere di varia natura: potrebbe trattarsi di cose che non consideriamo, come gli oggetti circostanti alla nostra attenzione, o quantomeno al nostro focus; altri, sui quali ci concentriamo, nel senso che prestiamo realmente attenzione, e altri che ci sono sott’occhio, e che dunque sono presenti alla nostra coscienza ma fanno parte di un panorama di cose verso le quali non stiamo prestando una particolare attenzione.

È chiaro, poi, che questi oggetti, quando divengono parti del nostro pensiero possono essere considerati in diverse maniere: noi possiamo considerarli attraverso il meccanismo della riflessione, in maniera più o meno cosciente, più interessata o più disinteressata – similmente a quando Ariosto definisce la pazzia di Orlando: «con gli occhi e con la mente fissi nel sasso, al sasso indifferente» (3). Talvolta, difatti, ci capita di fissare qualcosa – sia nella realtà fisica che ci circonda, così come nell’immaginazione – e non considerare assolutamente la cosa che stiamo osservando: eppure, ce l’abbiamo sott’occhio. Ugualmente, può succedere qualcosa di diverso.

Kant, nella Prefazione alla Fondazione della Metafisica dei Costumi, definisce la Logica come «forma dell’intelletto» (4), sicché in questa guisa essa non ci appare tanto come un prodotto dell’intelletto, ma piuttosto come la scienza che studia le leggi dell’intelletto: l'intelletto che studia se stesso. È un ragionamento molto interessante, se badate, e volevo porlo sotto la vostra attenzione, prescindendo dal fatto che possiate pensarla nell’una o nell’altra maniera. È certo, in ciò, che l’intelletto comprenda i meccanismi della logica e le operazioni che dallo studio di essa scaturiscono, e lo fa quasi come qualcosa che, benché più o meno sviluppata dagli studi dell’individuo, si comporta in maniera quasi naturale. Ludwig Wittgenstein, contro le posizioni di Russell, Frege e Ramsey, sostenne che la matematica sia un prodotto della logica umana e non viceversa (5) – per esempio.

Così, al contrario, possiamo pensare qualcosa relazionandola a qualcosa d’altro, servendoci di questi meccanismi dell’intelletto, della logica, insomma. Quando procediamo in questa misura, la riflessione diviene intelligente, manifesta cioè la capacità di intelligere quella cosa, di intus-legere: non soltanto di rifletterla come uno specchio, ma di rileggerla dentro di noi e di leggerla in relazione ai meccanismi del nostro pensiero, rendendola così partecipe concettualmente di esso nel momento in cui noi, appunto, ci chiediamo qualcosa su di essa.

Ogni operazione che il pensiero si trova a svolgere con spontaneità, sia essa di semplice contemplazione o di analisi di ciò che gli sta dinanzi, è frutto di abitudini costituitesi all’interno del gruppo sociale di appartenenza, nel quale l'individuo ha, insomma, vissuto. Ciò avviene principalmente nel caso del gusto, per quelli che definiamo giudizi, per così dire, più istintivi; così, nel caso di quelli più razionali la loro provenienza è da ascrivere, tendenzialmente, al capitale scolastico acquisito, agli studi affrontati e al modo in cui essi hanno formato e plasmato il nostro pensare.

Quello che succede in questo meccanismo, quindi, è che ognuna di queste cose è integrata a livello della nostra coscienza grazie alla memoria, che quindi svolge una funzione di assoluto rilievo in tutto il meccanismo. Anzi, vorrei osservare, a questo proposito, che rispetto alla nostra vita, la memoria è quanto di più caro alla natura umana, poiché in assenza di essa nulla potrebbe formarsi nel nostro pensiero, neppure la stessa capacità di definire la nostra identità. In altri termini, non soltanto le operazioni logiche, i giudizi e quant’altro sarebbero inesistenti per noi stessi, ma persino noi stessi – mi sia perdonato questo bisticcio di parole – saremmo incomprensibili a noi stessi.

Tu, lì in prima fila, se perdessi la memoria, domattina ti guarderesti allo specchio non tanto chiedendoti cosa sia quello strano arnese in grado di riflettere la tua immagine, ma ancor prima chiedendoti chi sia quell’immagine!

Ora, abbiamo spiegato il ruolo della sensibilità in questo processo. O per lo meno ci abbiamo provato. Sensibilità, abbiamo detto, è aesthesis in latino. L’Estetica è sempre stata considerata come quella branca che studia i giudizi di gusto. Ma tante volte non viene considerato il fatto che la sensibilità, come abbiamo largamente osservato, porti l’umano a essere affetto da cose di ogni tipo: così come quando passa dinanzi a me, uomo eterosessuale, una donna il cui aspetto mi riscalda, dico che è bella; può capitare che passi un individuo che desti in me un senso di timore e provocherebbe altro, cioè non direi che questi è brutto, insomma – magari è pure un bel ragazzo. Non v’è quindi quella simil forma di minor interesse verso l’oggetto, nel senso che potrei dire “questa cosa è bella, mi piacerebbe averla, però non mi tange il fatto di non averla affatto”, e ciononostante ha degli effetti su di me: mi provoca una sensazione di eccitamento, ad esempio. In quel senso, quello del tipo losco, invece, provoca timore, paura, la necessità di favorire un meccanismo di fuga magari. Lì allora l’estetica diviene lo strumento di un’indagine diversa. Lì si produce una reazione che ha effetti diversi. E se il meccanismo primordiale della fuga sia una questione di genetica, quanto apprendiamo nel corso dell'esperienza è, almeno in parte, una questione di estetica.

L'effetto è la produzione di un’azione, infatti, divenendo, l'estetica, massimamente connessa con l’etica. Si potrebbe dire, come osservò Wittgenstein, che «Etica ed Estetica sono uno» (6): esse sono la medesima cosa in fin dei conti. Diciamo che se l’etica studia le azioni, l’estetica studia tutto ciò che porta alla produzione di un’azione. L’azione è il prodotto di una reazione che avviene quando qualcosa ha a che fare con noi.

Noi guardiamo un bel gatto e lo accarezziamo, ma non facciamo lo stesso con un lombrico. Consideriamo mai, forse, perché? Diciamo in maniera così riduttiva e tipica dei pensieri deboli che il motivo alla base sta nel fatto che il gatto sia superiore al lombrico, e tuttavia questo giudizio è frutto della mancanza di un'adeguata disposizione estetica. Se infatti fossimo forniti di quest’ultima ci accorgeremmo che il gatto è migliore del lombrico secondo noi, ma in realtà esso non è migliore o peggiore – come non lo siamo noi stessi – ma soltanto diverso. E la sua diversità, quella del gatto insomma, è una diversità rispetto a noi molto minore che quella del lombrico, il quale istintivamente, già a partire dal suo solo aspetto, possiede delle caratteristiche che ci sono estranee e che in noi provocano o indifferenza o perfino disgusto. Se lo feriamo comprendiamo che ciò avviene per rottura delle parti, ma non comprendiamo il suo dolore così similmente a quando, ferendo un gatto, ad esempio, vediamo del sangue così simile al nostro da farci pensare che l’effetto di tale ferita, se fosse essa su di noi, sarebbe il medesimo che in lui. Così, la familiarità con il gatto ce lo fa apprezzare più del lombrico, tendenzialmente. Si possono ammettere casi di entomofilia, per carità – qui siamo sempre su parametri generali! Quel che voglio farvi osservare è che l’estetica è quindi molto più di ciò che comunemente si pensa.

L’estetica, curandosi di ciò che produce le reazioni in noi, il modo in cui formuliamo giudizi essendo affetti dall'ambiente, ognuno da ogni altro, in modo differente dalle cose che ci circondano, è di massima importanza per comprendere i motivi dei nostri giudizi e, consequenzialmente, delle nostre azioni. Così, ci aiuta a scovare quelli che in noi sono, per lo più, pre-giudizi e cioè giudizi spontanei, spesso errati poiché frutto di un'associazione incosciente. Ricordate: funzioniamo come dei reagenti.

Se vi fosse già capitato di leggere la Prima Parte dell’Etica di Spinoza avrete notato che ciò che egli fa consiste nel considerare le cose domandandosi sempre se il suo giudizio avvenga per un effetto spontaneo che tenda a umanizzare, o se esso sia altresì scevro da una tale contaminazione. In quella parte egli notava che Dio, così come gli uomini lo concepiscono, è tendenzialmente definito in termini troppo antropomorfi per rispondere davvero a una corretta definizione che di esso possa darsi. Così lo è il finalismo, che è cosa umana, poiché l’uomo tende ai fini, ma non necessariamente la natura; così l’ordine delle cose, altra cosa umana, poiché all’uomo è più facile rappresentarsele nel pensiero e comprenderle nella realtà se ordinate, ma non è necessariamente una caratteristica della natura; così i concetti di bene e male, che sono cosa umana, poiché l’uomo tende a definire ciò che è bene e ciò che è male secondo i suoi propri parametri, ma non sono questi parametri di cui si interessa necessariamente la natura. A questa, insomma, non interessa che un organismo nasca integro o menomato. Dal suo punto di vista esso è comunque perfetto: è dal nostro che esso è imperfetto, sfortunato, brutto, e così via (7).

Spinoza, inconsciamente, poiché l’Aesthetica di Baumgarten sarebbe stata pubblicata un secolo più tardi, si servì di un’analisi propria dell’estetica per comprendere la realtà, smantellando ogni giudizio che l’uomo tende a dare senza rendersi conto di contaminarlo con le sue disposizioni, con le sue impressioni, con la sua natura.

Così comprendete, signore e signori, che questa è l’estetica: una cosa molto più grande, molto più importante e molto più potente di quel che si pensi. L'estetica potrebbe sbrogliare matasse millennarie: questioni teologiche, etiche o, se volete specificità, roba riguardante la diversità, i diritti e via dicendo. Sarebbe quasi impossibile mettere in mano dilemmi bioetici a chi non capisca una mazza di estetica. Abbiamo mezzi quasi perfetti per valutare la realtà quantitativamente, ma neppure un misero mezzo per scoprire cosa sia esatto qualitativamente. Non potendo dare risposte, quindi, abbiamo bisogno di domande: sempre più domande, sempre più adeguate, per non prendere decisioni stupide e affrettate. E l'estetica è, con molta probabilità, l'unica disciplina che possa aiutarci a esprimere giudizi qualitativi di un certo valore. Bisognerebbe quindi riesumarla nella sua natura radicale, non relegandola soltanto ai giudizi sull'arte.

Se l’estetica può essere, come diceva Baumgarten, la scienza della conoscenza sensibile, allora noi dovremmo ammettere che l’estetica è fondamentale per qualunque ricerca si voglia fare sull’etica umana, sulla conoscenza umana, per superare intoppi, azioni scomode, giudizi fallaci. Per comprendere i nostri più inefficienti meccanismi. Per vivere meglio.

Potete tornare a casa, la lezione di oggi è finita»



(1) A. Baumgarten, Aesthetica (), p. .

(2) G. Leopardi, Dialogo della Natura e di un Islandese, in Canti, p.

(3) L. Ariosto, L'orlando furioso (), 23

(4) I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi (), p.

(5) L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, p.

(6) Ivi, p.

(7) B. Spinoza, Etica (1677), in Etica e Trattato teologico-politico, p.



Bibliografia:


Ariosto, Ludovico, L'Orlando furioso (),

Baumgarten, Alexander, Aesthetica (),

Kant, Immanuel, Fondazione della metafisica dei costumi (),

Leopardi, Giacomo, Canti (),

Spinoza, Baruch, Etica e Trattato teologico-politico,

Wittgenstein, Ludwig, Tractatus logico-philosophicus (),

 
 

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