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Democrazia e libertà: come servirsi della dinamite

  • Immagine del redattore: Giovanni Cusenza
    Giovanni Cusenza
  • 25 giu 2018
  • Tempo di lettura: 16 min

Aggiornamento: 23 dic 2024


Indice




Introduzione. Il cambiamento tra prevenzione e cura


Il cambiamento è qualcosa che il cittadino non subisce, ma che dal cittadino soltanto può avere la sua genesi. Per esprimerci in maniera più pragmatica, una riforma può imporre un cambiamento, ma se i cittadini non convengono col contenuto della riforma essi non saranno partecipi del cambiamento: li si potrà sanzionare, tenere a bada, ma ciò non significa che in essi si produrrà un vero cambiamento; e, quindi, come conseguenza, avverrà un vuoto moltiplicarsi di sanzioni. 

Quando vengono imposte leggi che non sono condivise dalla maggioranza della cittadinanza, esse, pur venendo applicate, e consequenzialmente applicando multe e pene a chi non le rispetta, non vengono comunque seguite con immediatezza. Questo è anche il discrimine evidente tra educare e punire: il primo è un concetto di prevenzione, mentre il secondo di cura, ed è chiaro che abituando da subito un guidatore a usare le frecce sarà più facile che questi rispetti un’eventuale legge che obblighi all’uso delle frecce piuttosto che imponendo una sanzione a chi non le utilizzi senza mai averlo educato a servirsene. Se si estendesse questo esempio a diversi altri, ci si accorgerebbe come il cambiamento promosso dai governanti di uno Stato civile non abbia nulla a che fare col cambiamento dei cittadini, a meno che questo non tenti di inserirsi appunto nell’educazione e, quindi, ambisca a modificare i comportamenti delle generazioni future, potendosi realizzare soltanto nel lungo termine. 

Essendo il governo formato ed eletto dai cittadini stessi, mediante il suffragio universale e, quindi, il voto di ogni singolo attore sociale, un cambiamento non potrà mai avverarsi a meno che esso non nasca nel cittadino, diffondendosi e distribuendosi tra le coscienze della cittadinanza.

Questa educazione di cui s’è detto, deve tradursi in realtà. Educare un cittadino non significa formare un erudito: significa formare un individuo consapevole. Non si pretende che un agricoltore sappia di fisica delle particelle, così come non c’è la pretesa di avere un impiegato di banca che conosca la letteratura. L’educazione non è riempire, come fossero librerie, gli umani di nozioni, ma abituarli all’uso della ragione, della logica, della capacità di deliberare autonomamente sulle questioni politiche e sociali. Un codice di leggi, in uno Stato che si rispetti, dovrebbe venire dopo rispetto alla legge morale del cittadino che ne fa parte: un uomo non dovrebbe astenersi dal rubare, ad esempio, poiché v’è una legge che lo vieti, ma perché egli debba esser persuaso di per sé circa l’idea che rubare sia sbagliato.

Il cambiamento nel singolo, quindi, può avvenire mediante l’educazione. Il cambiamento dei singoli, poi, promuove il cambiamento della comunità. Il cambiamento della comunità definisce, in ultima analisi, il cambiamento di uno Stato, dei suoi rappresentanti politici e di ogni sua singola caratteristica.

Infatti, seppure vi fosse un movimento, un partito, un gruppo politico “illuminato”, insomma, in che modo esso potrebbe cambiare le sorti di uno Stato se la sua possibilità di azione è data dalla sua elezione e se la sua elezione è il frutto della scelta comune dei cittadini? In altri termini, un governo che si rispetti non avrebbe mai luogo in assenza di una cittadinanza altrettanto rispettabile che lo elegga.

Ho affermato, altrove, che non serve a nulla diffondere l’idea di qualcosa se non se ne comprende il perché: non serve a nulla, per esempio, affermare che bisogni rispettare gli omosessuali se i cittadini non possiedono un’idea chiara di chi e cosa sia un omosessuale; se essi lo ritengono, insomma, qualcosa di diverso da loro. Sarebbe proprio come promuovere riforme o imporre leggi, senza che esse siano condivise, le quali verrebbero seguite solo per timore, fintanto che una maggioranza non si unisca nell’opporsi ad esse, vincendo sulle leggi e sulle riforme stesse, o non trovi maniere convenienti di eluderle. Il questa guisa, infatti, i rappresentanti eletti sarebbero pure coloro i quali esprimono maggiormente la voce del popolo, sicché si arrivi, poi, all’abrogazione stessa delle leggi e delle riforme verso cui la cittadinanza mostra a più riprese ostilità. E ciò non soltanto è accaduto, ma continua ad accadere pure nel presente, rischiando di distruggere ogni conquista liberatoria che ha necessitato pure di sacrifici affinché fosse raggiunta. 

I rappresentanti di uno Stato – pare il caso di specificarlo, oramai – non sono dei marziani o delle macchine nate fuori dal contesto nel quale vivono i cittadini: sono i cittadini stessi, sono quei cittadini che meglio hanno saputo dare voce alle necessità del popolo; sono cresciuti e si sono formati, infatti, allo stesso modo di tutti gli altri cittadini e all’interno del medesimo contesto. 

L’alienazione del cittadino nei rappresentanti politici, infatti, procede proprio secondo il meccanismo per cui i rappresentanti sono visti come idoli e dunque i cittadini sono inclini a spostare la loro attenzione dal cosa al chi. Essi, in questa maniera, passano dal dar voce al popolo al convincere il popolo, sicché in questo processo massimamente inadeguato è il cittadino a divenire la voce del rappresentante e non più il contrario. 

Appare chiaro, così, il perché l’educazione del popolo sia di primaria importanza. Tale educazione, tuttavia, non deve – ripeto – configurarsi nella memorizzazione di nozioni e di concetti, ma nel diffuso esercizio della ragione, facoltà comune a tutti gli umani. Non è importante che il cittadino sappia che l’articolo x del codice civile y affermi z, è importante che egli sia capace di discernere ciò che è moralmente sostenibile per la sopravvivenza della comunità dal suo contrario: l’educazione non concerne la giurisprudenza, bensì l’etica comune e la morale individuale; la giurisprudenza e, specificamente, le leggi sono il fallimento dell’educazione, ossia la cura a una malattia ormai acclarata e che, tuttavia, è importante che non si diffonda.



1. La nefasta dualità del suffragio universale


Leggendo l’Art. 48 della Costituzione della Repubblica Italiana, troviamo che «il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è un dovere civico». 

Ora, che il voto sia personale, implica il fatto che ognuno debba votare personalmente, nelle vesti di se stesso, che ognuno abbia insomma la possibilità di esprimere il suo singolo e personale parere; che il voto sia eguale, significa invece che il voto di ogni cittadino non differisce, in quanto a peso ed importanza, da quello di ogni altro; che il voto sia libero, significa che ognuno abbia la possibilità di votare secondo la sua propria volontà, senza che essa sia necessitata da null’altro all’infuori di lui; che il voto sia segreto, implica che il cittadino non sia tenuto a rendere pubblica la sua scelta. 

Poi, però, v’è una frase che enuncia: «Il suo esercizio è un dovere civico». A più riprese si suole sottolineare che, nonostante si tratti di un «dovere», la libertà del voto comprende nella sua natura una certa libertà dal voto, ossia una possibilità di astenersi dal votare. L’astensione, non è necessariamente una forma di negligenza da parte del cittadino, ma può pure essere un modo di dar voce alla sua necessità di protesta contro quelli che sono i rappresentanti eleggibili che ha dinanzi: egli potrebbe non volerne nessuno e astenendosi potrebbe sottintendere la sua necessità di ottenere altre possibilità, altri possibili rappresentanti.

Quando Alfred Nobel inventò la dinamite, egli creò un mezzo di rivoluzione straordinaria per la società a lui contemporanea e successiva. La dinamite, infatti, nella sua grande potenza rese possibile una quantità di lavori che in sua assenza necessitavano di tanti mezzi e di tanta forza per ottenere ciò che essa poteva fare con una semplice esplosione. Ma la potenza della dinamite, com’è risaputo, fu utilizzata sia a fini positivi che negativi. La dinamite può essere il mezzo per trarre pietra da una cava, ma può pure essere l’arma per distruggere una cittadina intera. I nostri predecessori ci hanno ereditato, col voto, esattamente la dinamite. E la libertà stessa si comporta in questa doppia maniera, come vedremo più avanti. 

Bisogna dunque chiedersi, a questo punto, se vogliamo che la nostra facoltà di scelta debba essere un mezzo o un’arma. Se debba essere, insomma, un mezzo per il bene della comunità, o un’arma per la sua distruzione. 

Ma cosa voglio dire? Dovremmo forse, dopo tante lotte, mettere in discussione la libertà del voto? Certamente no. Sebbene siano state avanzate le diverse opinioni su una presunta necessità di stabilire, magari mediante un semplice questionario, chi sia idoneo e chi meno, io non avanzo questa idea. E non l’avanzo non perché non la ritenga corretta: infatti, se un siffatto test fosse un semplice esercizio di logica, atto a dimostrare che la facoltà di deliberare del singolo cittadino sia sufficiente a far fronte all’elezione, non vi sarebbe nulla di sbagliato, concettualmente. 

Il problema sta sempre nel fatto che la veridicità e la effettiva funzionalità dei concetti deve sempre esser misurata sul piano della praxis, affinché i concetti possano sussistere e non essere, piuttosto, seppur logicamente sensati, vuoti sistemi di parole. Infatti, immaginando un caso in cui tale proposta venisse applicata, vi sarebbe il fatto che qualcuno dovrebbe valutare tali questionari e tre motivi, dietro ciò, non consentirebbero probabilmente una corretta valutazione: il primo, sarebbe da ascrivere alla possibile collusione dei correttori, i quali, in un sistema di illegalità dilagante, o sotto corruzione o sotto pressioni minacciose, si troverebbero a dover valutare senza alcuna oggettività; il secondo, potrebbe essere la loro personale volontà di voto, sicché essi valuterebbero idonei soltanto coloro i quali potrebbero essere i cittadini potenzialmente votanti sulla medesima linea; infine, il terzo motivo, che sposa sia il primo che il secondo, sarebbe che, in un sistema marcio che dev’essere rigenerato, sarà difficile trovare cittadini che non siano di base corrotti da questa diffusa ignoranza, sicché gli stessi valutatori, essendo cittadini, saranno in maggior percentuale nelle medesime condizioni della plus part della cittadinanza stessa. 

Ma allora come si potrebbe far fronte a questo problema? In realtà non esiste una risposta esatta, ma ne esiste comunque una migliore, che tuttavia pone il cittadino in una condizione di auto-giudizio. È chiaro che questa idea debba andare di pari passo con la spinta educativa di cui il governo stesso deve farsi promotore. È chiaro pure che ognuna di queste cose non vada a braccetto con i brevi tempi. 

Ogni cambiamento, per consolidarsi, infatti, necessita di tempi lunghi, di generazioni, al punto che chiunque contribuirà al benessere della comunità in questa guisa, probabilmente non vivrà a sufficienza per godere dei miglioramenti. Si tratta di lascito, per lo più. Non soltanto sarebbe infatti difficile cambiare la condizione in cui versano gli individui ad oggi: sarebbe praticamente impossibile. È più facile formare un nascituro di un umano che già abbia adattato il suo corpo e la sua mente alla condizione nella quale si trovano essi ad oggi. Egli è come malato, ormai. E, benché la malattia debba esser curata per evitare che si diffonda, è comunque meglio prestare più attenzione a chi ancora è illeso, prevenendo la possibilità che questi si ammali. Nondimeno, di pari passo bisognerà prestare attenzione ai malati, perché questi possano, al contempo, migliorare le loro condizioni ed evitare di spargere il contagio. 



2. Salvaguardia della libertà in democrazia


Quello della «libertà» è un concetto molto delicato e una questione che, se non espressa nel miglior dei modi, rischia – forse, più di ogni altra – di esser fraintesa e mal vista. 

Prima di inoltrarci nella spiegazione di questo concetto sarà necessario, tuttavia, scindere due tipi di libertà: una libertà dell’individuo rispetto al mondo e una libertà dell’individuo rispetto alla sua comunità di appartenenza. Qui, dirò preliminarmente, il mio referente sarà questo seconda tipologia. Il primo tipo di libertà, infatti, non ha a che fare con la libertà politica, ma con una libertà potremmo dire ontologica e diviene dunque argomento fisico-filosofico, se non speculativo in senso strettamente metafisico. 

In passato, la libertà del cittadino – all’epoca più propriamente «suddito» – aveva come referente principale il governo, sovente imperiale e totalitario. La conquista della libertà, quindi, aveva luogo nel rapporto tra il popolo e il sovrano e poteva essere raggiunta o per benevolenza di quest’ultimo o per mezzo di una lotta fra il popolo e il sovrano, nel meccanismo della ribellione, della rivoluzione. 

L’avvenuta conquista della libertà odierna si configura concretamente nella possibilità di scelta conferita a ciascun cittadino, e cioè di avere un peso attivo nella comunità di appartenenza. La libertà odierna, dunque, non è che il suffragio universale stesso. Quindi, la massima espressione della libertà comune non può che essere il sistema di governo democratico. 

Tuttavia, come non mancò di osservare qualcuno, la democrazia non è un granché, ma resta comunque la migliore fra tutte le possibilità che vi sono di garanzia della libertà comune. Un buon sovrano illuminato sarebbe forse pure meglio della democrazia, ma la storia ci ha mostrato che dopo un Marco Aurelio può darsi un Commodo, dietro l’angolo, pronto a riportare tutto allo stato iniziale o in condizioni perfino peggiori.

Se dunque in passato la libertà proveniva come elargizione benevola dal governo totalitario, unico possibile garante della valenza del singolo suddito, oggi non è più così. Eppure, pare che nessuno sia sufficientemente attento da accorgersene. La libertà politica, nelle democrazie contemporanee, infatti, non ha più a che vedere col governo, ma è una cosa tutta concernente il popolo. L’unica persona che può deprivare il singolo della sua libertà, oggi, è un altro singolo, avente la medesima sua importanza. Se, infatti, il mio voto vale quanto quello del mio prossimo, è chiaro che solo la somma dei singoli voti verso x può avere peso sulla somma dei singoli voti su y. In altri termini, è una somma di simili, che raffrontati con diversi, restituiscono il podio: i vincitori e i perdenti. Ma vincitori e perdenti, in virtù dell’Art. 48 osservato, sono determinati dalla volontà comune.

Ora, se io votassi essendo cosciente di quel che sto facendo e, dunque, dopo aver acceduto a quante più informazioni mi sia possibile, dopo aver raffrontato diversi punti di vista, dopo aver allenato nella vita la mia capacità di ragionare, di servirmi della logica, di quella capacità di discernere l’utile dall’inutile, così come il vero dal falso: io, in questa misura, starei votando con coscienza. Se io, invece, votassi seguendo le comuni opinioni, formatesi in me sulla base di quel meccanismo di idolatria di cui s’è discusso, seguendo quindi dei leader piuttosto che delle idee, avendo avuto accesso sempre allo stesso tipo di informazioni, o perfino non avendo mai letto nulla, senza aver mai raffrontato i diversi punti di vista, senza aver mai allenato nella vita la mia capacità di ragionare, di servirmi della logica: io, in questa misura, starei votando senza alcuna coscienza, privo di consapevolezza. 

Adesso, se prendessimo il primo tipo di cittadino, il secondo e, infine, il governo, è chiaro che a subire la privazione di libertà, in questo meccanismo non sia tanto quest’ultimo, poiché non è questi a scegliere, ma piuttosto a subire la scelta. A perderla sarebbero, i due tipi di cittadini, e chi avrebbe tolto a costoro la propria libertà? Logicamente, non vi sarebbe altro colpevole che il secondo tipo di cittadino. Ed ecco quindi la rivalutazione del concetto contemporaneo di democrazia: la libertà, oggi, non ci viene tolta dal governo, dai governanti politici, ma dai nostri concittadini stessi.

Ma come sarà possibile evitare questo meccanismo? Evitarlo in toto sarebbe forse impossibile. Si potrebbe tuttavia attenuare questo malsano procedere con l’unico mezzo di svolta che è stato presentato precedentemente: l’educazione. 

È qui, finalmente, che si dà spiegazione del discorso interrotto poc’anzi, cioè quello concernente il voto. Se il cittadino inconsapevole infatti si astenesse dal votare, com’è pure suo diritto, il cittadino partecipe non subirebbe le conseguenze della sua scelta inconsapevole. Ma l’astensione dal voto dell’inconsapevole non può provenire, in questa misura, che da se stesso. Se egli votasse soltanto perché si sentisse in dovere di farlo, sarebbe facile attuare questo cambiamento; se egli invece votasse perché convinto delle sue opinioni – che sue, come spesso avviene, non sono affatto – allora sarebbe non soltanto difficile attuare questo cambiamento, ma praticamente impossibile. Nel secondo caso, sarebbe solo il governo ad aver la possibilità di cambiare le cose. Ma nel primo, invece, il votante stesso potrebbe essere il salvatore della libertà della sua comunità di appartenenza. 

Non è necessario, infatti, votare secondo costrizione, se ne può fare benissimo a meno. Se io fossi cosciente di non avere nessun interesse verso la politica del mio Stato, quantunque sarebbe una cosa di cui non dovrei andar totalmente fiero, potrei nondimeno esserne partecipe, indirettamente, proprio in virtù del mio disinteresse: potrei, infatti, come s’è visto, non votare proprio.



3. La salvaguardia della libertà come obbligo morale


Non tutti, si suole sentire, hanno il tempo e la possibilità di informarsi, di costruire in questo modo virtuoso la propria vita. 

Anzitutto, in parte ciò è falso, poiché l’esperienza ci mostra che lo studio è qualcosa di cui tutti, anche i più poveri, ad oggi possono fruire: v’è la scuola dell’obbligo, dove tutti studiamo ciò che è sufficiente a divenire sufficientemente adatti a vivere nella comunità; le università, poi, donano una grande quantità di sovvenzioni a coloro i quali non possono permettersi di pagare di propria tasca le tasse e le spese che uno studio di questo genere comporta; infine, se non si potesse accedere né all’una né all’altra possibilità, resta un mezzo/arma grandioso di cui tutti – praticamente nessuno escluso – siamo dotati: l’informazione digitale. Tutti, oggi, pure i più poveri, dispongono di dispositivi che hanno un accesso all’informazione mondiale attraverso il web. Chi non è in possesso di un computer, il più delle volte, possiede almeno uno smartphone, un dispositivo capace di connettersi col mondo attraverso internet. Il web è un’arma, poiché navigare in esso senza raffrontare, cercare e verificare la veridicità di quanto si trova su internet, comporta un irrefrenabile peggioramento delle condizioni mentali di chi ne fa uso; nondimeno, è un mezzo incredibilmente utile, perché in esso vi sono tutte queste possibilità e, insieme alla diffusa informazione, vi sono pure enciclopedie, libri, strumenti di accesso al sapere di ogni genere. 

Ammettiamo che vi siano cittadini che versano in uno stato di povertà tale da non potere neppure aver accesso a ciò, perché è vero che ve ne sono, ma è pure vero che sono pochi coloro i quali pensano alla politica e al voto, con cui sogliamo confrontarci per le strade, dovendo quelli far fronte ai propri problemi, talmente gravi da non lasciar loro altro tempo per altre cose. Ma ammettiamo che essi votino, come non di rado accade, e che essi si interessino di politica, magari pure per la sola speranza di poter avere qualcuno – al governo, s’intende – che cambi in qualche modo la loro condizione misera di vita. Secondo i dati ISTAT, nel 2017 la povertà assoluta coinvolgeva il 6,9% delle famiglie, mentre la povertà relativa il 12,3% (1). 

Pur volendo ammettere che queste percentuali siano inesatte, per portare allo stremo l’obiezione e renderla ancora più difficile da esaminare, resta il fatto che la povertà assoluta – quella di cui s’è appena trattato – coinvolge una quantità di persone che non avrebbe nessun peso nel rinnovamento politico dell’intera comunità. Anche sommando le due diverse soglie di povertà, sempre tenendo conto di un forzato margine di errore, non si raggiungerebbe comunque quel numero di individui che sarebbero in grado di compromettere la scelta politica della parte restante. 

Consideriamo adesso l’altro aspetto dell’obiezione e passiamo dalla possibilità economica al discorso relativo al tempo a disposizione. Se qualcuno non avesse tempo egli potrebbe comunque evitare di danneggiare l’altrui libertà, in questo meccanismo, astenendosi dal votare, come s’è detto. Egli sarebbe – ripeto – indirettamente, seppur non partecipe della vita politica comune, volto alla salvaguardia della libertà della sua nazione, della sua comunità, dei suoi concittadini, del suo prossimo. Non starebbe, infatti, compromettendo in alcun modo le scelte di chi conduce la sua vita con una costante tensione al raggiungimento di una consapevolezza, almeno basilare. Se egli volesse assolutamente votare, allora dovrebbe ricavare dalla sua assenza di tempo, almeno quello necessario ad un’acquisizione di consapevolezza politica. E a meno che questi non abbia un lavoro che funzioni alla stregua di uno sfruttamento, avrà di certo questo spazio, nella sua giornata, per potersi dedicare a questo lavoro su se stesso. 

L’obiezione conseguente, sarebbe poi: e se questi volesse, com’è suo diritto, servirsi di questo tempo per riposare e farsi gli affari propri, piuttosto che per occuparsi di ciò? Bene, in questo caso egli non dovrebbe né occuparsi di ciò, né, soprattutto, avere nulla a che fare con la vita politica, con la sua autonoma scelta di votare. Egli dovrebbe astenersi dal farlo per un obbligo morale. 

Se infatti, come s’è detto, un medico – per cambiare esempio – non volesse imparare nulla di astronomia, egli ne avrebbe assolutamente diritto; così come se un insegnante non volesse approfondire i metodi agricoli che servono alla corretta conduzione di un’attività agraria. La politica, meglio ancora, la partecipazione alla politica, invece, in democrazia, è un obbligo morale di chi voglia far parte della comunità di appartenenza e di chi voglia apportare il suo parere, che si configura principalmente nella sua scelta, in essa. Ci si può esimere dal votare, dallo scegliere, ma non si deve scegliere perché è consuetudine farlo.



Conclusione. La democrazia e le sorti della libertà


Avviandomi verso le conclusioni, ora, vorrei spiegare quale sia la doppia faccia della libertà. Se paragonassimo il famoso paradosso della tolleranza di Popper usando piuttosto la libertà, ci accorgeremmo che vi sono delle somiglianze evidenti. 

Definiamo la mancanza, la privazione di libertà, usando il termine «costrizione», come una forma di intolleranza; definiamo, poi, la libertà come una forma di tolleranza. Se non ci occupassimo di contenere l’avanzare della costrizione la libertà verrebbe meno, proprio come verrebbe meno la tolleranza, se essa tollerasse pure l’intolleranza. 

Se la democrazia, il governo della maggioranza, è l’unico sistema garante della libertà nel tempo; e se per la salvaguardia della libertà nel meccanismo della democrazia è necessaria la consapevolezza derivante dall’istruzione, ma la maggioranza è statisticamente ineducata: allora la democrazia, unico sistema garante della libertà, è essa stessa a fondamento della privazione di libertà. 

Per risolvere il paradosso si può fare quanto fece Popper col suo: pretendere, in nome della libertà, che l’altro da noi partecipi con interesse o non partecipi affatto, per salvaguardare la libertà dalla sua privazione.

Sembra dura, forzata, ma vediamo un attimo. La libertà non può permettersi di lasciare libero esercizio a ciò che la priva di se stessa. Se essa lo facesse, essa verrebbe uccisa da questa privazione. Ma a questo punto ci saremmo auto-privati di quella stessa libertà che i nostri antenati hanno conquistato col sangue. Vogliamo forse esser noi stessi i distruttori di quella libertà che tanto osanniamo? Vogliamo davvero che, dopo averla ottenuta con sacrifici, ci venga tolta da noi stessi? Io credo che la risposta negativa a questa domanda sia comunemente condivisa, poiché se così non fosse, ci sarebbe qualche problema di fondo di cui dover discutere in altra sede. E allora cosa vogliamo fare? 

Noto, con rammarico, che se dovessimo dividere il “marcio” dall’“integro”, è in quest’ultimo che si rinverrebbero le cause peggiori di questa stasi politica che non riesce in alcun modo a far passi avanti. Infatti, il “marcio”, seppure indirettamente ed inconsapevolmente, non fa che collaborare con se stesso: i cittadini deviati, pur non volendolo, condividono a gran voce le loro idee e collaborano nel promuoverle. Gli individui che formerebbero l’“integro”, siano essi intellettuali o persone coscienti, consapevoli delle loro scelte, invece, hanno due motivi di fondo che non permettono loro di presentarsi nella medesima grande coesione. Il primo è rappresentato da quegli individui disillusi e affranti, che non hanno più le forze né la pazienza di condurre discussioni formative, di affrontare le polemiche, le diatribe atte a dar vita a meccanismi di rinnovamento e di cambiamento – in questo caso, nel senso di miglioramento – della condizione in cui versa il “marcio”. Il secondo, invece, è rappresentato da quegli individui che possiedono ancora tutte le forze e la voglia di controbattere, ma sono più tendenti a riprendersi vicendevolmente, per il fatto di non condividere la totalità delle idee con il loro prossimo, sia egli un deviato, o un uomo sufficientemente consapevole. E anzi, con i secondi, queste persone sono ancora più severe! Si finisce, quindi, per tralasciare le comunanze anteponendo le differenze: ci si disperde nel nulla, non v’è coesione e non v’è, quindi, forza alcuna. 

In questo modo avanza, tacitamente, la diffusione dei pensieri deviati, che hanno questa strana capacità – forse in virtù della loro semplicità – di diffondersi con facilità e velocità, coinvolgendo pure chi era ancora un sopravvissuto dinanzi alla tirannia dell’ignoranza. Dal mio canto, mi scaglio con tutte le mie forze nel criticare i non deviati, i sani, i cittadini che concorrono alla formazione dell’“integro”, poiché in questa misura sono essi i primi a portare alla deriva quest’integrità. Bisognerebbe riesumare una famosa frase di Marx, rivalutando anche questa e dire: «Cittadini dell’integrità, unitevi!». Sarebbe l’unico modo per donare al nostro paese e al mondo intero, un certo margine di miglioramento. 

La libertà, infatti, vela in sé la sua natura contraria a se stessa, sempre in virtù di un concetto di dose: quanta più libertà individuale acquisisce l’individuo, tanto più è smarrito. Quanta più libertà collettiva acquisisce una comunità e ogni suo singolo membro, tanta meno libertà resta ad ognuno di loro.

Tutto ciò che rischi di compromettere i concetti di libertà e tolleranza è dunque ciò che deve esser ritenuto superfluo e dannoso. E ciò non si traduce nella possibilità di lasciare alle posizioni che conducono allo sradicamento della libertà e della tolleranza comunque un margine di esistenza. Bisogna che queste cose vengano altresì estirpate.



Note


 
 

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