La comune colpevolezza a fondamento della coesione
- Giovanni Cusenza
- 23 dic 2024
- Tempo di lettura: 22 min
Indice
Introduzione
Il sistema democratico, come osservò similmente qualcuno in passato, non è chissà quanto appetibile e, tuttavia, è quanto di meglio siamo riusciti a trovare, per lo meno al fine di mantenere un certo equilibrio nel lungo termine.
Difatti, basterebbe un dittatore illuminato ed estremamente onesto per poter battere, in termini di efficacia, una qualunque democrazia, ma alla morte di un tale potere lo splendore derivatone dovrebbe sedere al tavolo di una roulette russa: i meccanismi ereditari, intendo, non seguono dinamiche meritocratiche, ma la mera accidentalità e, così, dopo un Marco Aurelio, come la storia ha già avuto modo di mostrare, può sempre esserci un Commodo.
Dando quindi per assiomatico in questa riflessione il fatto che non vi sia altro modo di mantenere un equilibrio tra gli esseri umani se non l’impiego della democrazia – o per lo meno non fino ad oggi – è necessario a questo punto sottolineare quale sia, almeno per sommi capi, il meccanismo della democrazia.
La democrazia, per definizione, è il governo del popolo. La sua attuazione mediante l’impiego del suffragio universale, più specificamente, descrive una struttura in cui a governare è, indirettamente, la maggioranza popolare.
In effetti, questo è quanto abbiamo modo di constatare, al di là delle manie di persecuzione e della costitutiva necessità di dover demolire ogni evidenza: nella chiacchiera da bar i cittadini diranno sempre che, alla fine, sceglie tutto un gruppo di gente ristretto, magari governanti o appartenenti a chissà quale tipologia di settarismo nascosto; ma la realtà, invece, manifesta costantemente che, tralasciando le manie complottiste, i governi siano espressione dei popoli. Lo abbiamo visto in passato e lo vediamo tutt’oggi: il governo che abbiamo in Italia, per esempio, non potrebbe essere più adeguato a rappresentare il popolo italiano contemporaneo.
Quindi, ancorché idealmente la parola democrazia possa suonare rassicurante rispetto ai termini che descrivono poteri centralizzati e dittatoriali, è opportuno tenere a mente cosa essa sia per imparare a viverla. E benché tali parole possano sembrare scontate, sarà presto evidente quanto, al contrario, esse non lo siano affatto.
1. Due pesi, due misure. Coesione al di là delle virgole
Il concetto dell’«altro» in democrazia è qualcosa che analizzai già in passato (Democrazia e libertà: come servirsi della dinamite, 2018), benché il mio pensiero dell’epoca fosse a riguardo discretamente ingenuo poiché rimetteva al buon senso del singolo la decisione di partecipare o astenersi dal votare e, dunque, di partecipare al suffragio universale.
Quel che tuttavia rimane valido di quella argomentazione è che se nei passati governi dittatoriali e totalitari la libertà dei cittadini, o meglio dei sudditi, fosse un’elargizione proveniente dalla benevolenza del dittatore o del re, nei sistemi democratici in cui, mediante il suffragio universale, le scelte di ciascun cittadino eguagliano, in termini di peso, quelle di qualunque altro, allora gli unici garanti della libertà e, di contro, gli unici possibili deprivanti la libertà, sono i cittadini stessi.
In altre parole, se alle urne andassero due cittadini, di cui uno informato e interessato e uno strafottente e disinteressato, a gravare sulla libertà di entrambi sarebbero le scelte poco pesate di questo secondo e non qualche potere a essi esterno. Ciò varrebbe, inoltre, per qualunque altro argomento riguardante la comunità, come per esempio l’evasione fiscale: se la nazione mostra un grande vuoto contributivo, difatti, la colpa non è da ricercarsi nei governanti, ma nel concittadino che, come spesso avviene, vanta la propria evasione come una forma di furbizia verso il sistema. La colpa dei governanti, in questa guisa, potrebbe essere quella di non allocare sufficienti risorse alle calcagna del fenomeno evasivo e piuttosto, come sovente accade, indirizzare le forze deputate a questo scopo su obiettivi decisamente meno importanti. Di fatto, però, il gravo ha la sua origine nelle scelte dei singoli attori popolari, poiché pure i rappresentanti stessi sono eletti dal popolo.
Non potendo pretendere, come feci in passato, che un cittadino ideologicamente corrotto sia in grado di avere una ragionevolezza sufficiente a comprendere un siffatto meccanismo, e cioè di esimersi, qualora non fosse interessato, dalla partecipazione alle urne, allora bisognerà spostare l’attenzione, in questa odierna trattazione, a come l’altra tipologia di cittadini possa fare qualcosa per evitare la privazione di libertà.
Diamo nomi e cognomi a fazioni distinte, almeno per assolvere più agevolmente allo scopo del ragionamento. E senza timore di scadere in fazioni, dal momento che gli atteggiamenti egualitari concernono la sinistra mentre quelli individualisti sono appannaggio delle dottrine della destra, definiamo il gruppo di cittadini che avrebbe a cuore la salvaguardia della libertà sociale come la sinistra, mentre quello che promuove la sua distruzione in favore di un sistema più piramidale come la destra. Ciò, naturalmente, ha solo in senso generale una continuità terminologica con la realtà, poiché ben vediamo come individui che si posizionino autonomamente nei ranghi della sinistra attuino comportamenti individualisti e, parimenti, che cittadini di destra, al contrario, nonostante l’ideologia di provenienza, possiedano un concetto di comunità più cosciente.
Anzitutto, come ho osservato a più riprese in passato, notiamo che questa seconda fazione sia segnatamente più capace di unirsi solidamente in gruppo per promuovere la propria politica, mentre invece la sinistra appare strutturalmente incapace a creare gruppi coesi di contrasto alle conseguenze che scaturiscono dalle scelte dei primi.
Rispetto a questo fenomeno, mi pare vi sia un atteggiamento dilagante che depaupera continuamente ogni tentativo coesivo: si tratta di un rapporto a “due pesi e due misure”, da parte dei sostenitori della sinistra, nella valutazione dei propri simili e dei propri opposti che, come conseguenza, manifesta un’eccessiva severità nel giudizio dei propri simili, da cui ne viene un’evidente incapacità a comprendere la dinamica del compromesso, fondamento della politica in generale.
Con trattamento a “due pesi e due misure” si intende nient’altro che la reazione dinanzi ad affermazioni e comportamenti provenienti dalle une e dalle altre fazioni. In altre parole, se un presunto elettore di sinistra sentisse un esponente della destra populista affermare che le donne non debbano avere diritto all’aborto, la reazione dell’elettore di sinistra sarebbe di superbia, accompagnata quasi da un certo gaudio, come se a parlare fosse un cretino o un comico. La percezione che un tale elettore ne avrebbe sarebbe la stessa che davanti all’assurdo, ritenendolo talmente incredibile e surreale da non discuterlo neppure e, involontariamente, da lasciarlo avanzare illeso nella sua marcia. Se, invece, un esponente di sinistra utilizzasse un plurale maschile, o comunque commettesse una “gaffe” dalle implicazioni notevolmente più contenute, subirebbe un linciaggio da parte dei suoi elettori stessi, i quali magari, per un episodio di questo genere, sarebbero perfino disposti a non sostenerlo ulteriormente favorendo, come è accaduto a più riprese, un frammentarsi ulteriore in partiti minori e una dispersione di sostegno incapace a combattere – o almeno a controbilanciare – le fazioni opposte.
Questa severità scaturisce da un’enorme ingenua ignoranza politica ed è interessante rilevare come essa sia tanto diffusa tra personalità culturalmente mature sotto altri aspetti. Difatti, il principio a fondamento di ogni gruppo umano è quello del compromesso: esso si manifesta nelle nazioni, nelle città, nei nuclei familiari, nelle coppie. Non essere in grado di comprendere che le nostre personali idee non possano trovare una rappresentanza esatta e perfetta, dal momento che appare già impossibile ritrovarle in un solo individuo altro da noi (e perfino in noi stessi, nella nostra mutevolezza, a distanza di poco tempo), è una disposizione a-politica, ossia incapace a realizzare sia pure una fievole tensione positiva verso il concetto umano di gruppo, e quindi di politica.
Quel che dunque sarebbe necessario, di contro, è una forma di coesione “al di là delle virgole”. Non possiamo pretendere un mondo che corra se non abbiamo un mondo che sia semplicemente in grado di camminare. La perfettibilità è qualcosa di sempre presente e il cammino verso il miglioramento prevede una serie di passaggi necessari. Vivendo con la pretesa di poter compiere questi passaggi come fossero salti pindarici, si finisce per lasciare dilagare le posizioni di coloro i quali, a piccoli e dannosi passi, muovono nella direzione opposta al progresso.
Così facendo, a ben vedere, si diviene non soltanto involontariamente complici, ma addirittura i primi colpevoli dello stato di cose in cui versiamo già da tempo. Insomma, ad aver favorito questa realtà precaria non sono stati coloro i quali l’hanno promossa attivamente, ma piuttosto coloro i quali l’abbiano sottovalutata e continuino a farlo. In uno dei miei flussi ho assimilato questa ingenuità a una vera e propria forma di colpevolezza (Colpevoli di essere ingenui, 2024) e ciò per il semplice fatto che se davvero certi cittadini ritengono di essere più preparati e consapevoli di altri, e finiscono per farsi involontariamente prevaricare, lasciandosi deprivare della propria libertà secondo il meccanismo sopraesposto del suffragio universale, allora questo loro atteggiamento di latente ingenuità non è da giustificare, ma è invece una grave colpa – e, forse, la più grave che vi sia.
Come scrissi altrove, difatti, non si può accusare un cieco di non vedere, ma un vedente di tenere gli occhi chiusi, quello sì. Così, fautori della distruzione dei principi libertari democratici e costituzionali divengono proprio coloro i quali, nelle parole, dichiarano di sostenerli e proteggerli.
2. Breve dimostrazione di come perisca la coesione
Ciò di cui, invece, avrebbero bisogno gli individui della società contemporanea e, a maggior ragione visti i temi di interesse, i sostenitori della sinistra, dei diritti sociali e via dicendo è, invece, imparare a riconoscere le proprie colpe.
Negli ultimi anni abbiamo vissuto dei trend spaventosamente generalisti. Il più difficile da affrontare, tra i tanti, è quello relativo ai femminicidi, da cui scaturì lo slogan: “all men”. Questo, ancorché estremo, è un esempio perfetto a rappresentare la diffusa incapacità a colpevolizzarsi. La ragione per cui ho scelto di trattare volutamente un tema così delicato dovrebbe essere evidente e, in ogni caso, la renderò manifesta a conclusione del paragrafo.
Anzitutto, è da distinguere l’uso proprio del termine «femminicidio» da quello improprio: impropriamente, difatti, vediamo che tale termine viene utilizzato per indicare l’assassinio di un soggetto femminile da parte di uno maschile e, ciononostante, propriamente, il suo significato fa riferimento unicamente agli assassinii di donne per questioni legate al genere.
Specificare, non significa cercare di ridimensionare il numero di femminicidi per sminuire il problema o per indicare che, di fatto, i numeri siano più esigui di quanto non siano gli allarmi: di base, la problematica persiste e si tratta di un fenomeno molto più grave di quanto pure chi ne paia comprenderne la gravezza mostri di non capire. Anzi, la distinzione appena citata serve allo scopo opposto di restituire al problema il peso che merita: definendo impropriamente con femminicidio qualunque assassinio di soggetti femminili, infatti, avviene una generalizzazione che comporta la caduta di un discrimine fondamentale, ossia quello che sottolinea proprio le problematiche culturali riguardo il trattamento dei generi. Insomma, usandolo propriamente si riducono i numeri, e però si circoscrive il fenomeno potendolo così analizzare con maggior cura e portandolo all’attenzione comune.
Ora, tornando all’impiego dello slogan «all men», da parte mia non c’è alcun rifiuto di assumermi colpe in quanto soggetto maschile, si badi. La mia intenzione non è sottrarre, bensì aggiungere. A mio vedere, questa colpevolezza è infatti perfino più estesa: «all people», dovrebbe dirsi, poiché «all men» risulta invece sminuente e, di nuovo, involontariamente depauperante il problema.
Per spiegare questa motivazione ho bisogno di ripescare un’affermazione di Montaigne, il quale osservava che noi siamo cristiani come siamo perigordini o tedeschi (1), in riferimento alla distinzione che vi è tra fede e cultura. Infatti, se nel primo caso, rispetto alla credenza religiosa si tratta di una scelta individuale, potendo dunque essere cristiani, agnostici, atei, credenti in altre religioni e via dicendo, nel secondo non si tratta di una scelta, ma di un costume dal quale una società scolpita nei millenni sotto il vessillo del cristianesimo non può disfarsi. Così, anche un ateo è cristiano in un luogo che affonda le sue radici nel cristianesimo: lo è nei comportamenti, nelle parole, negli usi e nei costumi, benché possa pensare che il Vangelo sia una favoletta poco credibile. Si sceglie di aver fede, mentre la cultura, in senso antropologico, la si subisce. In questo secondo caso, dunque, «tutti» siamo coinvolti.
Il problema dei femminicidi non è isolato e da valutare di per sé: non perché non sia sufficientemente grande e importante, ma perché sarebbe manchevole pensare di poter curare un semplice effetto senza puntare il dito alla causa. Sarebbe, come soglio sovente affermare, niente più e niente meno che sperare di guarire un albero marcio tirando via da esso le sole foglie secche. Un tale albero, insomma, avrebbe bisogno di un taglio al tronco, al principio della malattia e, se non potrà essere sradicato e ripiantato del tutto, dal momento che sarebbe impossibile per individui cresciuti in società umane disfarsi degli aspetti culturali ereditati dal contesto di appartenenza, avrebbe per lo meno bisogno di un nuovo innesto per rigenerarsi.
Cerchiamo, quindi, di andare a ritroso. Il fenomeno dei femminicidi è l’effetto estremo di una causa che comprende non soltanto il culmine del rapporto uomo-donna, ossia questo fenomeno stesso, ma che include tutta una serie di comportamenti, direttamente e indirettamente, volutamente o meno, fisicamente o discorsivamente, e via dicendo, di subordinazione della donna nel rapporto con l’uomo.
Inoltre, mi permetto di notare che anche nell’utilizzo dei termini «donna» e «uomo» v’è un’ignoranza scandalosa e che, insomma, i due termini non abbiano nulla a che vedere, se non nell’arbitrarietà che gli individui hanno di servirsi della propria lingua, con la distinzione di genere. Il termine «uomo», da homo, trova la sua radice etimologica in humus, stante ad indicare ciò che proviene dalla terra. Così, «uomo» non è un termine che indichi genericamente l’essere umano per via di una prevaricazione patriarcale, ma semplicemente per via del suo senso etimologico. Il termine «donna», da domna, viene da domina, cioè colei che domina la casa, e dunque la padrona. In ciò potrebbe rintracciarsi un voluto relegare alla casa la figura femminile, se non fosse che, invece, esiste ed è sempre esistito il suo corrispettivo maschile: si tratta di «donno», da cui «don», proveniente da dominus, ossia la versione maschile del significato sopraesposto. Entrambe le parole, domina e dominus, a loro volta, trovano la propria radice in domus, e cioè la casa. Avendo avuto, le società umane, anche in virtù della spinta patriarcale, ma soprattutto per ragioni biologiche, generalmente più femmine in casa che maschi, i quali tendevano a occuparsi più di compiti fisici come avveniva per la caccia, infine, è accaduto che i due termini finissero nella miscellanea dell’arbitrarietà, sicché con «uomo» siamo finiti per sottintendere gli umani di sesso maschile e con «donna» quelli di sesso femminile.
Dunque, il rapporto patriarcale concerne la subordinazione della femmina al maschio nella società umana e non propriamente la subordinazione della donna all’uomo – e in ogni caso, pur avendolo specificato, continuerò a utilizzare impropriamente i due termini per rendere la lettura più agevole. Sembra una specificazione di poco conto, lo capisco; ma si tratta invece di una problematica che fa storcere il naso a molti intellettuali, i quali rigettano con peregrina attenzione l’uso diffuso del termine «uomo» per riferirsi all’umano – io stesso, per evitare che i miei ragionamenti finiscano sminuiti negli attacchi etimologici, mi curo quanto più possibile di non farne un uso smodato, ancorché sia cosciente che il problema stia nella dipendenza alla polemica di chi fruisce e non nei termini in sé.
Questa faccenda, tuttavia, se ben si osserva, è una rappresentazione perfetta di quanto in precedenza notato sulla severità di giudizio dei progressisti verso i propri simili e, quindi, sulla loro incapacità di esaminare le questioni, e quindi superare i problemi congiuntamente, giacché sovente abbandonate per rivolgere l’attenzione a fattori – mi sia concesso, a questo punto – quantomeno secondari rispetto ai problemi più generali.
Già da qui, dunque, si inizia a intravedere il perché abbia scelto di affrontare un discorso delicato, com’è quello del femminicidio, nonostante questa mia argomentazione, di base, non concerne questo specifico fenomeno. Ma si prosegua ancora un po’.
Dicevo che il fenomeno dei femminicidi è effetto di una causa, ossia il patriarcato. A sua volta, il patriarcato è uno degli effetti della cultura in cui tutti siamo cresciuti, che non è la cultura patriarcale, ma più in grande è la cultura cristiana dell’Occidente. Da Nietzsche a Galimberti, vari pensatori e intellettuali hanno tentato di sottolineare continuamente questo aspetto invasivo e pervasivo del cristianesimo, ma nessuno ha mai veramente provato a metterlo al centro dell’opinione pubblica e, invece, soltanto alcuni interessati, piccole nicchie, assecondano i ragionamenti di quegli intellettuali, spesso pure dimenticandosene alla fine di un convegno o della lettura di un loro libro.
Ma perché? Ebbene, la risposta è semplice. Perché se dovessimo affrontare questo argomento per come merita, tutti dovremmo scavare dentro noi stessi. Al contrario, è più facile sempre rimbalzare il problema fuori da noi: così, essendo le donne a subire il fenomeno lo rigettano sugli uomini; ritenendosi taluni uomini puliti moralmente sull’argomento lo rimandano soltanto a chi abbia compiuto atti del genere: e, via dicendo, non soltanto la problematica non viene mai affrontata, ma viene procrastinata a oltranza, allontanata da se stessi, producendo pure soluzioni di continuità tra gli individui della stessa comunità, che dovrebbero invece trovare, ai fini della realizzazione del concetto di comunità stesso, punti di unione e dialogo per incamminarsi congiuntamente verso eguali obiettivi.
È una continua ricerca di capri espiatori. E così come i populisti lo fanno con lo straniero, con il diverso, allo stesso modo gli avamposti egualitari e progressisti lo fanno tra loro stessi, rendendosi impossibile ogni meccanismo di incontro e, quindi, di risoluzione dei problemi. Nuovamente, si evince quanto la colpa di questa condizione in cui ci troviamo sia tutta, infatti, di questi ultimi. E la ricerca stessa del capro espiatorio, a ben vedere, è un retaggio della narrazione del Vangelo.
Il motivo per cui, infine, ho scelto di affrontare questo argomento è perché a questo punto – se non abbondantemente prima della mia argomentazione – avrò già condotto diversi tra i lettori a riconfermare, mediante opposizione, la tesi da me sostenuta: molti individui a me “simili”, infatti, che abbiano avuto voglia di leggermi oggi, li avrò già persi a metà di questo paragrafo, dimostrando dunque che non c’è capacità coesiva tra i nostri ranghi, proprio perché vogliamo tutto o niente.
Così, avendo affrontato dal mio punto di vista un argomento caro a molti e sapendo che statisticamente, tra i molti, altrettanti lettori non avranno condiviso le mie parole, l’incapacità coesiva al di là delle virgole, a cui alludevo, diventa palese. E il mio ragionamento viene da questi vanificato, benché potessero essere d’accordo col resto, a causa di un intralcio emotivo d’immaturità intellettuale.
3. Dalla sindrome di Stoccolma all’uso cosciente del privilegio
Scrollandoci da dosso il nostro coinvolgimento nel sistema di marciume, accade che le distinzioni e i conseguenti antagonismi non provengano più da effettive divergenze, ma per via di condizioni aprioristiche impossibili da cambiare: un soggetto femminile disdegna la complicità di un soggetto maschile per condurre una lotta, dal momento che condannando tutti i maschi non potrebbe certamente rendere alcuni di essi partecipi della propria battaglia (e spesso non lo accetterebbe neppure) senza cadere in contraddizione; ma piuttosto accoglie le semplici ammissioni di colpevolezza di alcuni e, tuttavia, quelle non sarebbero sufficienti, nel concreto, a esaminare e attivamente combattere il fenomeno.
Quando scrivo «condizioni aprioristiche impossibili da cambiare», infatti, sottolineo che la problematicità rispetto alla coesione sta proprio nel fatto che non si accusa un individuo di colpevolezza per aver commesso un reato, ma se ne anticipa la condanna poiché potenzialmente reo, in quanto portatore delle caratteristiche di coloro i quali abbiano commesso quel tipo di reato. Sarebbe, insomma, come dire che se il mio partner mi tradisse allora non dovrei più fidarmi di nessuno poiché chiunque sarebbe, potenzialmente, in grado di tradirmi. E quale sarebbe, a ben vedere, la conseguenza? Nessun’altra se non che io rimarrei per tutta la vita da solo, senza un partner. Mi permetto di osservare, però, che in questo modo non avrei perseguito nessuna vittoria. Semmai, invece, comincerei a impazzire di sempre maggior rabbia ogniqualvolta mi venga raccontato di numerosi traditori tra le coppie, divenendo sempre meno disposto a conoscere potenziali partner con cui potrei, altresì, spartirmi una vita fedele, ma anzi promuovendo in me stesso una misantropia senza limiti.
Per portarla momentaneamente sul ridicolo, basterebbe osservare che questa logica non è tanto diversa da quella manifestata dal Ministro Salvini a ridosso dell’approvazione del nuovo codice della strada, per il quale «lucido sì o lucido no» un conducente sarebbe comunque reo.
La colpevolezza aprioristica, nel caso del discorso sul patriarcato, sarebbe infatti quella di essere un umano di sesso maschile, con le caratteristiche somatiche e sociali tipiche degli individui appartenenti alla società occidentale a cui apparteniamo noi altri. E così, se fuori vi sono cento cattivi e dentro riuscissimo a essere centocinquanta buoni, dovendo disfarci dei buoni che abbiano caratteristiche involontarie e casuali in comune coi cattivi, e ponendo che essi siano la metà tra noi, creiamo meccanismi squilibrati di contrasto: cento cattivi, settantacinque buone e settantacinque inutilizzati, poiché non rispondenti in tutto e per tutto alle caratteristiche richieste. Parte più debole di questi ultimi, inoltre, non vedendosi inclusa nei gruppi di sostegno potrebbe perfino aggregarsi alle file opposte, tra le altre cose, rendendo la questione ancor più aspra e insuperabile.
Così come vale per il nuovo femminismo, o comunque vi piaccia definirlo, allo stesso modo vale per altri argomenti appannaggio di altre minoranze. Al punto che, ormai senza remore, mi pare di poter ammettere di rinvenire una specie di sindrome di Stoccolma in esse: come un soggetto colpito da tale sindrome finisce per confondere il suo abusante con l’oggetto del suo desiderio, ugualmente avviene che molti appartenenti a minoranze trovino la propria condizione così identificativa che, benché manifestino la necessità di lottare per innalzarla, ogniqualvolta un “simile” tenda loro il braccio quelli lo rifiutano, dimostrando, in qualche modo, di amare quella condizione di subordinazione. Perché li rende speciali? Forse sì o, per lo meno, anche. Quel che è certo, tuttavia, è che essi non mostrino di occuparsi di una causa poiché necessitante un superamento, ma sovente perché interessante essi stessi, in una forma di simil singolarità, e quindi di egocentrico protagonismo. Cosa che, tra l’altro, non si addice a chi si auto definisca egualitario e progressista.
Capisco che la mia argomentazione paia sminuire le problematicità legate alle minoranze, ma non avrei alcuna ragione, soprattutto promuovendo ideali di questo genere, di inimicarmi coloro i quali mi sono più simili in quanto a idee. Anzi, lo scopo della mia analisi, come per ogni ragionamento filosofico, è quello di cercare dentro me stesso e dentro chi mi somigli le problematicità: esso è quindi diametralmente opposto al discolparmi, poiché è proprio ricercando quanto di precario vi sia in me che mi pare possibile far notare certe problematicità agli altri. Ma ciò funziona solo e solamente se anche gli altri, leggendo queste righe, sono disposti a porre se stessi al centro di un processo. Se, invece, essi cerchino di trovare volutamente ragioni per discolpare se stessi, allora è del tutto inutile che si cimentino nel ragionamento: consiglierei piuttosto di costituire fedi e religioni, al posto di ostentare vuota scienza e vana filosofia.
Intimamente legato al discorso delle minoranze è quello dei privilegi. Leggendo un libro di finanza personale, e nello specifico La psicologia dei soldi (2021) di Morgan Housel, ho trovato un’interessante osservazione: pare che siamo solitamente inclini ad attribuire il fallimento altrui a decisioni sbagliate, mentre i nostri insuccessi «al lato oscuro del rischio» (2).
Avviene lo stesso con la faccenda dei privilegi. Tendiamo a raccontare il successo altrui come la conseguenza di un privilegio, mentre il nostro, qualora si verificasse, come il risultato di un immane sforzo. Questa constatazione ci dice molto anche sul discorso delle minoranze, rispetto alla necessità di preservazione della nostra diversità nel contesto in cui viviamo. Vogliamo sentirci, se non migliori, almeno speciali. Non capiamo, però, che chi abbia privilegi e impugni argomentazioni che non lo riguardano dovrebbe essere ammirato più che emarginato.
Personalmente, sono un uomo eterosessuale, bianco, occidentale, proveniente da una famiglia dal discreto capitale culturale, non ricca ma sicuramente non a rischio di povertà: insomma, ho tutti i requisiti per infischiarmene di ognuno di questi discorsi che conduco con sforzo e cura. Mi basterebbe assecondare le rappresentanze dei populisti, dei conservatori, dei democristiani e via dicendo per vivere meglio. Non dovrei fare nulla e, anzi, se pure aiutassi quelle posizioni a irrobustirsi ulteriormente garantirei a me stesso una quantità di potere sociale smisuratamente maggiore che a fare ciò che faccio: da uomo mi converrebbe assecondare la cultura patriarcale; da cittadino occidentale relativamente benestante mi converrebbe tenere gli stranieri lontani da me; da eterosessuale potrei pure partecipare al linciaggio delle altre inclinazioni sessuali perché tanto non ne sarei colpito. Non sono neppure cristiano, ma anzi sono forse uno dei più acerrimi nemici delle religioni abramitiche che vi siano sul pianeta, per cui non avrei neppure una ragione religiosa per interessarmi agli altri.
E invece cosa faccio? Scrivo chilometri di righe e analizzo tonnellate di argomenti, per di più sapendo che nessuno nel mondo “del tutto e subito”, neppure gli amici intimi, siano disposti a impiegare tempo e sforzo a leggermi. Ho affrontato argomenti relativi a infezioni culturali e, dunque, intimamente connessi con certe questioni contemporanee, come quello del patriarcato, anni e anni prima che l’opinione pubblica se ne interessasse e, nonostante ciò, oggi mi assumo la colpevolezza di tali costumi al pari di coloro che se ne sono sempre infischiati altamente e accetto di essere criticato da chi non abbia neppure un decimo della mia conoscenza sulla questione.
Cerco di partecipare a lotte, sia pure mediante l’impiego dell’intelletto e non delle armi, che riguardano esigui gruppi e minoranze che, nei loro processi generalizzanti, mi vedono a priori come un possibile nemico. E mi trovo, dunque, ad essere antagonista delle fazioni conservatrici e, allo stesso tempo, emarginato dai vari pezzetti del frammentato progressismo. Sembrerà ridicolo da dire, ma a ben vedere sono io a far parte della più grande minoranza che vi sia!
Ma al di là delle esasperazioni, in ogni caso, il punto qui è che, come mi pare di star mostrando, vi sono un’ingente quantità di errori frettolosi che non fanno altro che pervenire a un reiterato auto sabotaggio da parte di ogni progressista.
Benché non abbia alcuna voglia di prendere le difese di un partito che non ritengo affatto appartenere ai veri ranghi della sinistra, mi sembra di poter utilizzare, per certi versi, a mo’ di esempio, l’elezione di Elly Schlein a segretaria del Partito Democratico. Non ho molta conoscenza biografica della Schlein, ma quel che ho sentito spesso dire è che provenga da una famiglia agiata e, forse, economicamente ricca. Non è mio interesse, qui, indagare sul fatto che ciò sia vero o meno. Quel che mi interessa, invece, è la diffusa opinione che sentivo per le strade e che leggevo sui social network in merito a siffatta questione: la gente non accettava che una persona ricca potesse essere a capo di un partito di sinistra e cioè che una privilegiata potesse parlare a nome di chi non avesse privilegi.
Questa osservazione, a mio vedere, dimostra la pochezza intellettuale degli individui che compongono la società odierna, e soprattutto di chi appartiene a queste fazioni. Dire che un individuo sia in una condizione privilegiata rispetto a un altro, difatti, è come affermare che quelli abbia un maggior potere rispetto a quest’ultimo. Avendo maggior potere rispetto a quest’ultimo e scegliendo di aiutarlo – potendosene, in virtù del proprio privilegio, fregare (e perfino convenendogli fregarsene!) – allora dovrebbe aver restituita una maggiore ammirazione al contrario che una colpa. E vale per ogni discorso, si badi. È chiaro che un maschio non possa affrontare certe questioni riguardanti la femminilità, per carità, ma da qui a dire che non ne abbia diritto, allora ci si muove in due direzioni: la prima, che per arginare fenomeni di costrizione si utilizzi la costrizione stessa; la seconda, che non si comprendono le dinamiche di potere e, consequenzialmente, di attuazione della lotta per la conquista di qualcosa. Io non potrei scegliere sul corpo della donna con cui ho una relazione, per esempio se si trattasse di un aborto: ma qui si pretende che io non le dia neppure un parere personale, attenzione. Siamo ancora integri e sani di mente? O stiamo, forse, divenendo più fascisti di coloro ai quali affibbiamo questa nomina?
I privilegiati non sono nemici. Lo sono nella misura in cui continuino a portare acqua ai propri mulini. Ma il fatto che taluni, forse la maggior parte, lo facciano non significa che, dunque, tutti i privilegiati siano nemici. Vi sono stati tedeschi che, al tempo del nazismo, aiutarono ebrei a salvarsi; borghesi che aiutarono gruppi operai a ribellarsi alla borghesia stessa; nobili che favorirono cospiratori contro lo stesso sistema che garantisse loro la nobiltà. Abbiamo prodotto film, libri, documentari a riguardo e abbiamo encomiato diversi di questi individui per come meritassero.
Cosa sta succedendoci oggi? E, soprattutto, davvero non ci rendiamo conto che stia succedendo proprio a noi che proclamiamo egualitarismo e ci dipingiamo come interessati difensori di questioni sociali?
Conclusione. Imparare a colpevolizzarsi
Avrei molte cose da scrivere ancora, ma mi pare opportuno avviarmi verso le conclusioni.
Ritengo che tutti dovremmo farci un esame di coscienza e, al posto di continuare a cercare le radici dei nostri problemi negli altri, cominciare a pensare se non siamo noi stessi i promotori di questi ultimi.
Notiamo sovente come, a diverse ramificazione, tendiamo a giudicare positivamente qualcuno fintanto che non troviamo qualcosa di difforme tra questi e noi. Eppure, l’egualitarismo dovrebbe invece basarsi sull’eguale trattamento degli individui, mediante il riconoscimento della necessità di convivenza delle diversità, siano esse somatiche, comportamentali o ideologiche. Certo, come scrissi altrove, fintanto che ciò non sfoci nell’intolleranza e, dunque, ponendo dei limiti alla smodata accettazione di ogni cosa.
Molti individui, per esempio, ce l’hanno a morte con i vegetariani, con i vegani, con i manifestanti interessati all’argomento del cambiamento climatico, con coloro i quali scendono in piazza per le guerre, per i diritti e quant’altro. Personalmente, non potrei mai accusare un vegano di essere peggiore di me per il solo fatto che io sia onnivoro, poiché al di là dell’animalismo e volendola soltanto rendere una faccenda riguardante la lotta contro la sovrapproduzione di carne e l’inquinamento, sarei anti-scientifico se non ammettessi che questa gente sia migliore di me, per lo meno sotto questo aspetto. Al posto che tentare di discolparmi reiteratamente, è invece opportuno che impari ad assumermi le mie responsabilità e che, quindi, tutti imparassimo a colpevolizzarci laddove necessario.
Bisogna smetterla di dividersi su questioni che, per quanto importanti, sono soltanto effetti e appendici di un problema più grande. Dovremmo portare a processo noi stessi e il grande problema culturale di cui tutti siamo vittime e complici.
È difficile da ammettere, perché a molte cose siamo legati emotivamente e benché disponiamo potenzialmente di grandi capacità razionali, esse non sono sempre sufficienti a mettere a tacere la nostra emotività, i nostri legami. I riti natalizi, pasquali e via dicendo, a cui siamo legati per via dei ricordi piacevoli che ci restituiscono sono essi stessi causa dei problemi che patiamo in altri contesti, come per esempio quello del patriarcato – si pensi, per esempio, alla Prima Lettera ai Corinzi. E bisognerebbe capovolgere la visione per cui certe cose, in quanto lontane, non ci tocchino più: anzi, ciò che è lontano, se è sopravvissuto, ha avuto semmai modo di irrobustirsi dentro di noi nel tempo al punto da farci confondere il culturale col naturale, da non sapere neppure più rintracciare le cause dei nostri atteggiamenti e, quindi, non potendole affrontare e superare.
Finché continueremo a servirci di valutazione a due pesi e due misure secondo la nostra emotiva convenienza, non cambieremo mai nulla. Possiamo volere bene ai nostri genitori anche ammettendo che tutte le idee e le opinioni che ci abbiano trasmesso siano sbagliate e da violentare. In fin dei conti, la storia degli eroi non è che la storia della loro violenza sullo stato di cose preesistente. Lo è, per esempio, quella degli eroi della mafia siciliana: null’altro che la storia di alcuni giovani che abbiano rinnegato le proprie famiglie e le dinamiche da esse promosse. Si trattava, e si tratta tutt’oggi, anche lì di una criminalità effetto di un’infezione culturale.
Come sovente osservo, ci riempiamo la bocca di questi atti eroici e di queste personalità e, poi, quando tocca a noi non siamo neppure in grado di dire un semplice «no» a chi ci precede, quasi a non voler assolutamente intaccare l’ordine precostituito. Ma allora ci meritiamo gli effetti di tutto questo: anzi, siamo noi che continuiamo a volerli.
Ad aggiungersi a questa difficoltà di creare gruppi coesi vi sono, indubbiamente, altri fattori, come per esempio quello che in un altro mio articolo ho definito «paradosso della somiglianza» (Ignavia o intolleranza. La morsa dicotomica della società odierna, 2024), una problematica anti coesiva effetto del capitalismo. Ma tutti, alla fine, non sono che effetti della cultura da noi vissuta, promossa e mai messa in discussione. Perfino il capitalismo stesso, se ben analizzato, non poteva nascere in alcun luogo se non in quello che avesse come base culturale la Bibbia («Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra» Genesi 1, 28) che, unitamente al Vangelo e alla dottrina della Chiesa, alla precarietà di questo mondo e all’attesa di un mondo perfetto, altro da questo, ci ha condotto a ritenere di poter fare, di questo pianeta, qualunque cosa per soddisfare i nostri fini umani, infischiandocene di ogni conseguenza. E sono certo che preferiate pensare si tratti di una forzatura piuttosto che ammettere che, in effetti, questa concatenazione abbia senso: per il semplice fatto che non volete cambiare, ma pretendete – in maniera cristianamente escatologica – che a intercedere nella risoluzione dei problemi che ci riguardano sia qualcun altro e, quindi, rimbalzandoli all’infuori di noi stessi verso un capro più appetibile.
Siamo colpevoli. E l’unico passo per tornare a riconoscerci come simili è cominciare a ricercare, ciascuno dentro se stesso, la partecipazione a questa miseria, imparando una volta per tutte a colpevolizzarci. Forse è proprio nelle colpe indistinte che tutti possediamo e di cui tutti siamo macchiati che potremmo cominciare a rinvenire le somiglianze di cui abbiamo bisogno per riconoscerci parte di uno stesso gruppo e, così, cominciare a muoverci come tale.
Questa è la nostra ultima soluzione, la cui unica alternativa sarebbe l’attesa di una necessaria catastrofe sociale. Sempre che questa non sia già cominciata.
Note
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