Ignavia o intolleranza. La morsa dicotomica della società odierna
- Giovanni Cusenza
- 22 mag 2024
- Tempo di lettura: 29 min
Aggiornamento: 5 giu 2024
Introduzione
Libertà significa non essere necessitati – o coatti – da null’altro all’infuori di se stessi.
Nel caso della libertà sociale, invece, con essa si esprime la possibilità di operare secondo i propri desideri e le proprie volizioni entro, tuttavia, un limite coatto stabilito comunemente attraverso un sistema di leggi.
In questo secondo caso, dunque, la libertà sociale non è mai propriamente libera, ma l’unica maniera che abbia di perpetuarsi è che questi confini non vengano valicati. Si è liberi, così, fintanto che le proprie azioni e i propri pensieri non intacchino in alcun modo il libero esercizio di quelli altrui, e viceversa.
Talvolta mi pare superfluo dover addurre esempi rispetto a qualcosa di così lampante. D’altra parte, penso pure che chi non sia disposto a rivedere le proprie opinioni non lo sarebbe comunque, al di là della quantità di evidenze che si possano sottoporre alla sua attenzione.
Per lo stretto legame che intrattengono, i concetti di libertà, tolleranza, egualitarismo e via dicendo sono intrinsecamente legati tra loro, il che significa che laddove non si comprenda appieno il senso di uno di questi, allora neppure gli altri risultino chiari. Cerchiamo quindi, avendo trattato della libertà, di definire almeno cosa sia la tolleranza.
La tolleranza è l’atteggiamento di chi è incline a rispettare punti di vista e posizioni difformi dalle proprie, riuscendo pure a conviverci senza opporvisi. Ciononostante, proprio come la libertà sociale, anche la tolleranza possiede dei limiti. Se infatti non avesse limiti, allora non sarebbe tolleranza, bensì strafottenza o disinteresse. Quali sono, quindi, i limiti della tolleranza?
I limiti della tolleranza, espressi puntualmente da Karl Popper, che qui esprimerò a mio modo, sono stabiliti sul punto limite al di là del quale la tolleranza stessa smetterebbe di esistere. Il punto limite della tolleranza è, come per la matematica, il suo negativo: così come più per meno darebbe meno, la tolleranza che si rapporti all’intolleranza verrebbe distrutta e cesserebbe di esistere.
Se infatti la tolleranza è un atteggiamento positivo, privo di inclinazioni distruttive, l’intolleranza, ossia il suo contrario, è un atteggiamento negativo, trattandosi dell’atteggiamento di chi non sia incline a rispettare punti di vista e posizioni difformi dalle proprie, non riuscendo a conviverci senza opporvisi. Questa opposizione, infine, è una forma di belligeranza e quando una forma bellica si rapporta a una pacifica, per ragioni logiche che auspico non sia il caso di addurre, essendo l’unica disposta e preparata al conflitto, vince. Ciò perché, naturalmente, mentre un pacifista non farebbe alcun ricorso alle armi, un individuo incline al conflitto farebbe soltanto ricorso a esse e tra chi abbia le mani vuote e chi invece possieda un’arma e sia intenzionato a utilizzarla, alla fine, è chiaro chi rimarrebbe in piedi.
Se tuttavia la tolleranza si imponesse di rimanere tale e dunque di non agire nel confronto col suo opposto, ciò che sortirebbe sarebbe la propria distruzione da parte dell’intolleranza. Così facendo, se ben si nota, essa sarebbe fautrice della propria disfatta e, per un'assurda coerenza logica, non sarebbe da meno dell’intolleranza stessa: infatti, auto-distruggendosi per ingenuità e incoscienza, l’effetto che sortirebbe sarebbe l’affermazione dell’intolleranza, divenendone, in qualche maniera, complice.
Dunque, diviene necessario per la tolleranza riuscire a riconoscere qualunque cosa che manifesti tratti del suo opposto, poiché in alternativa non potrebbe garantirsi sopravvivenza alcuna, finendo col perire e, quindi, lasciando unicamente la realtà nelle mani dell’intolleranza.
Popper nota che se la tolleranza tollerasse tutto, allora dovrebbe tollerare anche l’intolleranza, e cioè il suo opposto, finendo per essere distrutta. Ma se così fosse, allora la tolleranza non potrebbe tollerare tutto: altrimenti, si giungerebbe a un paradosso logico. Ed è così che ha luogo il paradosso della tolleranza.
Esiste un modo di superarlo?
Esiste, sì. E, come per il superamento di ogni paradosso logico, bisogna trovare all’infuori di esso la soluzione, spesso dovendo modificare sia pure parzialmente i connotati degli elementi utilizzati. Così, nello specifico, per risolvere il paradosso della tolleranza è necessario modificare la nozione di tolleranza stessa, seguendo le osservazioni già esposte: bisogna, dunque, imporre un limite di azione alla tolleranza, tale che se questo venisse valicato essa non sarebbe più capace di garantirsi la sopravvivenza. Quel limite, come già detto, è definito dall’intolleranza stessa.
La soluzione diviene dunque la seguente: la tolleranza deve possedere entro se stessa una porzione del suo contrario, cosicché il posizionamento della virtù non sia nella smodata tolleranza, e men che mai al suo opposto, ma a metà tra l’una e l’altra, tra la tolleranza e l’intolleranza.
Risulta quindi opportuno tollerare tutto, ma solamente tutto ciò che non manifesti tratti di intolleranza. Verso questa seconda categoria di comportamenti, infatti, è necessario assolutamente che la tolleranza assuma la forma negativa del suo opposto, dell’intolleranza: in modo matematicamente coerente, dunque, essa diverrebbe un negativo, riportando in auge il positivo nella semplice moltiplicazione tra meno e meno, ossia tra lo scontro di intolleranza e intolleranza.
Opponendosi all’intolleranza, infine, la tolleranza avrebbe qualche opportunità di vincere, potendosi garantire la sopravvivenza e, in ultima analisi, riaffermando se stessa nella realtà dei fatti.
Noi dovremmo quindi proclamare, in nome della tolleranza, il diritto di non tollerare gli intolleranti (1).
1. Del riconoscersi in qualcosa
Oggigiorno viviamo un mondo nel quale si suole non prendere posizioni.
È evidente, prima di ogni altro luogo, nel perimetro della politica, ove si tende sovente a ricavare che la maggior parte delle persone preferiscano astenersi dal definirsi come appartenenti – sia pure per sommi capi – a delle ideologie specifiche, quasi come se si trattasse di una colpa.
Ciò è accaduto per una ragione storica abbastanza palese, e cioè che i totalitarismi che si siano appropriati dei vessilli di siffatte ideologie abbiano mostrato abbondantemente di procurare unicamente guai e tragedie all’umanità più recente. Esempi più lampanti sono stati il nazionalsocialismo tedesco, il fascismo italiano, il comunismo cinese e russo, e via dicendo.
Nondimeno, anche in questo caso, a ben vedere, si scade in un errore banale prodotto dalla fretta del giudicare. Quando al giudizio è anteposta la fretta, poi, ciò che ne viene nella maggior parte dei casi è l’ottenimento di un pre-giudizio, ossia un giudizio contraffatto da disposizioni d’animo, maniere di vivere e vedere il mondo, abitudini individuali, abiti culturali e tanto altro. Il pregiudizio, così, è un giudizio quasi sempre erroneo, poiché non fondato sul ragionamento e sull’impiego della logica, ma fondato altresì sulle proprie volizioni, sui propri desideri, sulle proprie emozioni: ciò che di primo acchito ci appare gradevole verrà dunque definito in maniera positiva e, viceversa, quel che ci mostra tratti di ignoto, scandaloso, inusuale, o sgradevole viene valutato negativamente e allontanato.
Nel caso relativo alle ideologie quel che è avvenuto è che si sia creata un’impropria miscellanea tra i contenuti espressi dai teorici di tali ideologie e le azioni di personalità politiche che abbiano arbitrariamente fatto proprie siffatte ideologie servendosi di alcune delle loro parti, delle loro immagini e via dicendo, per fini personali. Tuttavia, come ho scritto altrove, è bene guardarsi da questo genere di cose ed essere capaci di scindere le idee dagli individui e, dunque, separare le idee dai comportamenti che si autoproclamano portatori di tali idee.
Così, si suole sentire che ritrovarsi sotto certe ideologie sia, oggigiorno, estremamente anacronistico. Quel che personalmente ritengo, tuttavia, è che sia il mondo contemporaneo a essere anacronistico rispetto a certe ideologie, poiché ha smarrito la maturità di vedere la realtà con la consapevolezza richiesta e, dunque, per questa ragione non è più capace di dare un peso alle idee.
Un’altra espressione del forte anacronismo della società contemporanea, nonché effetto dell’individualismo prodotto dalle condizioni economiche che mostrerò a breve, è l’incapacità riconosciuta di riconoscersi sotto pensieri comuni, vessilli condivisi, dacché ne viene l’inadempienza alla formazione di gruppi.
Diretta conseguenza di questa condizione è, tuttavia, lo smarrimento del senso di comunità: far parte di un gruppo sociale, di una società, infatti, non significa condividere appieno tutti i valori e i punti di vista del gruppo, anche perché ciò sarebbe impossibile viste le tante difformità che già rinveniamo nel confronto a sole due teste; farne parte, invece, significa trovare dei principi fondamentali condivisibili, sufficienti a poter instaurare un legame e poterlo consolidare nel tempo. In quest’ultima maniera, infatti, ha luogo il cosiddetto compromesso, cioè l’unica maniera di dare avvio a quella che usualmente definiamo politica che, nel suo senso più radicale, è appunto la gestione comunitaria dello spazio e della vita condivisa.
Personalmente, sono tesserato a un partito e, ciononostante, non posso dire di condividerne interamente tanto le posizioni quanto il programma. La scelta non è dunque dettata da una totale conformità ai miei personali punti di vista, bensì procede per sottrazione: raffrontandolo ad altri partiti, infatti, esso mi pare più tra tutti avvicinarsi alle mie posizioni personali.
Se non mi riconoscessi con un gruppo, invece, quel che accadrebbe è che sarei niente meno che un lupo solitario, capace certamente a criticare e oppormi a questioni discusse quotidianamente, ma numericamente irriconoscibile e, per tale ragione, impossibilitato a esercitare, con le mie scelte e le mie visioni, un peso sul resto del corpo sociale a cui appartengo.
E se non esistesse nulla capace di somigliare alle mie posizioni? A questa domanda si può rispondere almeno in due maniere.
La prima e più celere è che se così fosse, nessuno negherebbe di fondare un partito o un sistema ideologico che esprima queste posizioni, e tuttavia se ne avrebbe diritto solo e solamente se, di fatto, tali posizioni non fossero riconoscibili da nessun’altra parte. Se così fosse, non fondare la novità equivarrebbe a comportarsi in maniera menefreghista e, quindi, la manifestazione del proprio pensiero sarebbe per lo meno superflua. In altre parole, se veramente qualcuno avesse qualcosa di originale da dire e promuovere, che lo faccia oppure taccia del tutto, perdendo tuttavia il proprio diritto di lamentarsi secondo coerenza.
La seconda, invece, è quella di osservare la realtà e, specificamente, accorgersi che, almeno genericamente è già probabile che vi sia qualcosa in cui poterci identificare. Vi sono infatti due macro posizioni che abbiamo inteso storicamente, ossia quella della destra e della sinistra. Al di là delle loro interne declinazioni, quel che sappiamo almeno in generale è che: la destra assuma visioni volutamente conservatrici, economicamente liberiste e, da un punto di vista comportamentale, anche in virtù delle posizioni economiche su cui si fonda, individualiste; la sinistra, invece, proclama visioni progressiste, economicamente controllate, dalla completa statalizzazione alla sia pure parziale intercessione del governo nel controllo dell’economia e, infine, da un punto di vista comportamentale, promuove l’egualitarismo. E ciò non perché arbitrariamente mi piaccia vederle a questa maniera, ma perché queste sono le recinzioni costruite dai teorici delle suddette dottrine.
A me non vengono in mente, volendo lasciare per sé l’anarchia, tante possibilità alternative. Non nel senso che non possano darsene, ma nel senso che, in fin dei conti, ciascuno per se stesso dovrebbe aver chiaro almeno questi punti: se, insomma, le sue posizioni siano conservatrici, liberiste e individualiste o se, in alternativa, le sue posizioni siano progressiste, collettiviste ed egualitarie.
Dinanzi a quest’evidenza mi pare, dunque, che non sia affatto anacronistico parlare di ideologie, ma che semmai possa esserlo se ci si riferisse a specifiche declinazioni di dottrine o partiti stessi nati in specifici periodi temporali e volti al superamento dei problemi specifici di siffatti periodi.
D’altro canto, anche le dottrine, se analizzate, mostrano di non essere poi così inadeguate alla realtà contemporanea: se prendessimo a esempio il comunismo, per dire, magari bisognerebbe spostare l’attenzione dal proletario al dipendente d’ufficio, riconoscendo che i problemi del primo e del secondo non siano, per ragioni meramente storiche, le stesse; e, ciononostante, si potrebbe convenire comunque nel dire che, se non tutti, comunque tanti meccanismi siano perfettamente sovrapponibili. Ugualmente, se si prendesse il fascismo, si noterebbe che, anche in quel caso, i meccanismi risulterebbero sovrapponibili, laddove magari non si prendano di mira più minoranze presenti sul territorio interno, quanto magari immigrati provenienti da altri luoghi, in virtù del processo di più ampia globalizzazione: ma anche in questo caso eventuali posizioni xenofobe, razziste o checchessia non sarebbero affatto fuori dalla realtà contemporanea. Anzi, a ben vedere sono perfino più potenti e radicate nei comuni punti di vista odierni di quanto non lo fossero nelle epoche in cui regimi del genere riuscirono ad affermarsi.
2. Il paradosso della somiglianza e la solitudine
Assumendo queste due posizioni come esaurienti, almeno genericamente, le possibilità di identificarsi ideologicamente in qualcosa quindi esistono. Non soltanto esistono, ma risultano pure, come ben si capirà, necessarie, dal momento che rimangono comunque gli unici possibili punti di incontro per la formazione di gruppi di individui, in alternativa ai quali si darebbe la solitudine sociale e l’immobilismo politico.
Ora, avviene che viviamo un tempo in cui i principi del libero mercato si siano affermati in quel che viene definito capitalismo. Esso non è – anche qui – da confondere con la produzione industriale in sé, altrimenti bisognerebbe dire che sia perfettamente utile e che abbia soltanto apportato benefici alla società contemporanea. Il capitalismo, invece, per chi continui a confonderlo con la sola semplice e tecnologica produzione industriale è un uso di essa: l’uso di questi mezzi industriali non per il beneficio comunitario ma unicamente per l’accrescimento di se stesso, ossia il servirsi di una smodata produzione a garanzia di smodati profitti. E, anche qui, non sto arrogandomi il diritto di definire qualcosa arbitrariamente: basta cercare la definizione di questo apparato per leggere, difatti, che il suo scopo principale sia quello di generare profitto.
Una volta infittitosi, un tale meccanismo pone ciascuno nella posizione di tassello fondamentale affinché un tale processo sia capace di alimentarsi. Così, è necessaria una forza lavoro che, a differenza del passato, oggi riesca a godere di una quantità sufficiente di benefici tale da poter definire la propria come una vita di benessere. Ma tale benessere, tuttavia, non proviene dal capitalismo: esso proviene, invece, dallo sviluppo dell’industria che, come abbiamo visto, non è il capitalismo.
Uno studioso italiano contemporaneo, Raffaele Alberto Ventura, in un suo libro intitolato Teoria della classe disagiata (2017), ha definito opportunamente la condizione della generazione y, ossia quella conosciuta come Millennials, con l’aggettivo di «disagiati». Prendere a mo’ di esempio questa generazione, tuttavia, non significa escludere le altre, quanto invece risulta utile per il fatto che una tale generazione, a differenza delle altre, è vissuta a cavallo di un punto di cesura e di cambiamento molto più evidente: il passaggio dalla società analogica a quella digitale. E sebbene questo passaggio sia stato vissuto anche dalle generazioni precedenti e abbia interessato pure le successive, quel che è accaduto ai Millennials è di averlo vissuto al momento della propria crescita, trovandosi a vivere un cambio di rotta prima ancora che il mezzo di percorrenza fosse maturo.
Ventura mostra che essi siano «disagiati» per una ragione evidente: mentre nel passato vi era una grande disponibilità di posizioni lavorative di pregio, come per ingegneri, medici, avvocati e via dicendo, ma non vi fossero abbastanza persone che avessero avuto accesso a studi accademici tali da poterle occupare, oggi, al contrario, v’è un elevato tasso di scolarizzazione e, tuttavia, non vi sono posizioni sufficienti a poter soddisfare la richiesta di tutti. In altre parole, oggi è molto probabile che un individuo che abbia conseguito lauree, specialistiche e, talvolta, pure dottorati si trovi a dover lavorare come cassiere in un supermercato, dovendo forzatamente contrariare le proprie ambizioni.
È ben evidenziato, in questa maniera, uno dei problemi del capitalismo: esso non pensa, come appare di primo acchito, alla società, al suo benessere, al suo sviluppo tecnologico; esso, invece, pensa unicamente a nutrire se stesso per il raggiungimento dei propri scopi. Se il suo scopo è quello di maturare sempre più profitti, così, il capitalismo cercherà di incrementare quei profitti, anche a discapito della condizione dei lavoratori o, in questo caso, dei disoccupati che non riescano a trovare un lavoro conforme al proprio capitale scolastico.
È ben evidente che esso non abbia a che fare col benessere, ma che il benessere sia derivato piuttosto dallo sviluppo tecnologico, al di là delle intenzioni della struttura economica, e dunque al di là dalla macchina del capitale. Il benessere è un prodotto dello sviluppo scientifico e, consequenzialmente, della macchina produttiva.
Trovando una così grande domanda di impiego specialistico dinanzi una così esigua offerta di posizioni, quel che ha luogo è un meccanismo di competizione predatoria tra le persone, i cui effetti psicologici sono stati manifesti, più fra tutti, proprio nella generazione presa in esame da Ventura. Difatti, quella generazione è stata se non la prima comunque quella più frequente a scontrarsi con la disoccupazione, con l’ansia sociale, con l’inadeguatezza, con una grande quantità di suicidi per ragioni accademiche o lavorative, con l’abiura delle proprie posizioni dovendo compiere scelte dettate da necessità d’impiego e con tante altre cose che, prima di allora, non esistevano per il semplice fatto che il dislivello tra la domanda e l’offerta ponesse quest’ultima in condizione di maggioranza rispetto alla prima.
Questa necessità di superare gli altri per non rimanere indietro, disoccupati, irrealizzati e via dicendo produce, inevitabilmente, un antagonismo spietato tra gli individui. Accade, poi, che un tale antagonismo sia ancor maggiore tra simili rispetto che tra coloro i quali si riconoscano difformi.
Ma se il concetto di gruppo si basa sulla somiglianza di idee, allora ha luogo un grande paradosso: come conciliare l’idea che chi sia più simile a noi e, quindi, capace a superarci nei nostri intenti non sia, per queste ragioni, un nostro nemico? In altri termini, se io e un’altra persona avessimo tutti i requisiti per poterci riconoscere in qualcosa di comune, quei requisiti sarebbero la stessa ragione per cui, nella gara al posizionamento sociale ed economico, saremmo degli antagonisti. Così, sarebbe per noi impossibile e paradossale poterci riunire nella condivisione e, dunque, formare solidi gruppi.
Oltre al problema già osservato, ossia a quello che ho intitolato «paradosso della somiglianza», per il quale alle persone risulti difficile ritrovarsi in gruppi specifici riconoscendosi con altri, dal momento che alla base del riconoscimento si pone una certa somiglianza tra idee e valori di singoli individui e che, nondimeno, il sistema del capitale ponga i più simili in maggior competizione tra loro, potendosi più facilmente riconoscere come possibili antagonisti e competitori, v’è dell’altro da considerare.
Questo altro a cui faccio riferimento è essenzialmente la solitudine che il capitalismo impone a ciascuno. Quando faccio uso del termine «solitudine» non faccio naturalmente riferimento al tipico ozio contemplativo che si sperimenta per il tramite dello stare da soli con se stessi, quanto invece a una forma di costrittivo “auto-isolamento” dal resto degli individui e della comunità tutta.
In altre parole, ammettendo che le somiglianze non pongano gli individui nella condizione di condividere e condividersi insieme ai più simili, per via delle ragioni sovraesposte, avviene che ciascuno cominci a vivere in isolamento rispetto a ciascun altro, proprio per preservarsi dalla possibilità di esser visto o di avere rubata qualche pensata che possa, nella competizione, permettergli di affermarsi sugli altri.
Questo stato di solitudine, già di per sé esistente per via di tali circostanze, un po’ come fa il capitalismo, alimenta di continuo se stesso. Infatti, quanto più si rimanga isolati tanto meno si è in grado di rapportarsi agli altri e, parimenti, tanto più si vedano gli altri come possibili nemici nella gara per la riuscita, tanto più si prenda a sviluppare un senso di misantropia. Quando ciò si sedimenta nelle persone, avviene che esse comincino a notare soltanto i lati negativi degli altri e, consequenzialmente, inizino a ritenersi sempre più come migliori di loro, cosicché finiscano per ritenere che la ragione del proprio isolamento non derivi dalla loro capacità di confrontarsi con il resto della gente, quanto che invece derivi dal fatto che il resto della gente sia, aprioristicamente, inferiore intellettualmente.
È chiaro che possano darsi casi in cui ciò sia effettivamente così e, nondimeno, spesso vale per la maggioranza: sappiamo tutti, anche soltanto in virtù della conoscenza storica, che la massa abbia sempre avuto delle idee di poco pregio. Qui, tuttavia, non si vuole discutere dell’impossibilità dell’individuo che si isola di potersi sedere a tavola con gli altri per trattare di fisica quantistica, quanto del fatto che un siffatto individuo non sia più completamente in grado anche soltanto di sedere a tavola con gli altri. Ancora, non soltanto non sia in grado, ma non ne abbia più neppure voglia, non sia disposto a farlo.
Così, ad aggiungersi al fattore della somiglianza, la corsa alla comune scalata sociale nel meccanismo economico del capitalismo pone ciascuno in una condizione di diretta avversità nei confronti di ciascun altro e, come abbiamo visto, ciò avviene in maggior misura con coloro i quali ci sono più simili e che, dunque, sarebbero quelli con cui scambiarci più facilmente opinioni, comprenderci vicendevolmente e, condividere, in ultima analisi, un corpo di idee e valori.
3. Sulla moderazione politica, o ignavia ideologica
Come si capirà, avendo scorto almeno due delle possibili cause, è necessario trattare di alcuni degli effetti.
Tra questi, la realtà contemporanea mostra principalmente quelli che vanno sotto il nome generico di moderazione. Non fosse che la moderazione, per lo meno in politica, come si noterà a breve, altro non sia che una forma di strafottenza, menefreghismo, derivata da forme dell’ignavia, e dunque di pusillanimità, sviluppate in maniera direttamente consequenziale al dover vivere in questo panorama di cose. Ma cerchiamo di seguire un ordine, affinché ciò appaia in maniera quanto più tersa possibile.
Cominciamo dalle ragioni della pusillanimità diffusa tra gli individui contemporanei. Anzitutto, con ignavia e pusillanimità si intende l’atteggiamento vile di chi non sia in grado di prendere una decisione, di riconoscersi in qualcosa, un po’ per il timore di sottrarre a se stesso tutte le possibili altre alternative e un po’ perché non scegliendo da quale porta passare, all’occorrenza, è possibile tenersele aperte tutte quante. Insomma, i pusillanimi sono, nella maggior parte dei casi, degli arrivisti venduti al miglior offerente.
Ebbene, in quest’ultima descrizione, se ben si nota, si può scorgere la coerenza con la sua radice. S’è infatti notato che viviamo in un’epoca capitalistica, ove lo scopo sia quello di produrre il più possibile per generare più profitti possibili. Questo stato di cose, come mostrato con l’ausilio del libro di Ventura, crea delle condizioni di disagio per chi debba necessariamente – non avendo altra alternativa al vivere – inserirsi in questo potente ed enorme marchingegno economico. Così, ciò che ne viene, oltre ai problemi individuali, sono quelli relativi all’antagonismo sociale, soprattutto tra simili.
Pur di riuscire nel legittimo ottenimento di ciò che, in qualche maniera, pretendiamo in cambio dei nostri sforzi compiuti, avviene che sia ovvio che gli individui diventino tutti un po’ mercanti e, quindi, disposti a vendersi al miglior offerente. Dunque, la radice di questa ignavia è da rintracciarsi proprio in questa condizione di vita: ho bisogno, in altre parole, di non definire dei confini al mio modo di essere e di vedere le cose, perché all’occorrenza del mio impiego entro questa struttura socio-economica è necessario che io non cada in contraddizione, rischiando pure di perdere quest’opportunità.
Tuttavia, quando gli esseri umani riconoscono inconsciamente di essere nel torto hanno una comune tendenza a trovare dei modi di giustificare i propri atteggiamenti, affinché la maggioranza di coloro ai quali si rapportino non risultino contrariati da loro e dai loro modi di vivere. Così avviene nel riconoscimento dei limiti della propria cultura, delle proprie credenze e di tutte quelle cose rispetto a cui gli umani non riescano ad anteporre ai propri desideri e alle proprie volizioni la potenza del ragionare e i benefici effetti che ne derivano, soprattutto per il vivere comune.
Notiamo, infatti, che chiunque difenda culti oggigiorno inappropriati e in aperto conflitto con le esigenze della contemporaneità (si pensi, per esempio, alla misoginia espressa da talune religioni e le lotte per l’uguaglianza di genere), utilizzando impropriamente il termine «tradizione», confondendo la libertà di credo con il sistema oligarchico delle religioni istituzionalizzate, lo faccia per il semplice fatto di non essere capace a fare un passo indietro discernendo ciò a cui è personalmente affezionato dal fatto che quella stessa cosa possa essere deleteria. È chiaro che tutti, qui da noi, abbiamo dei ricordi intimi ed emotivamente legati a certe tradizioni, ma è altrettanto importante capire che se certe tradizioni sono promotrici del reiterarsi di condizioni che non ci consentono di muovere passi in avanti, allora non si possa pretendere che entrambe le cose avvengano continuando ad alimentarle in pari misura. In ogni caso, quello rispetto alla cultura e alle religioni è un discorso che voglio tenere fuori da queste considerazioni, non perché non valga la pena analizzarlo, ma perché si rischierebbe inutilmente di perdere il punto di vista focale dell’argomento qui trattato. E ciononostante, il meccanismo logico che concerne libertà e tolleranza è ugualmente sovrapponibile a questo tipo di analisi.
Non essendo cedevoli al riconoscimento del proprio torto, dicevo, avviene che sia più comodo non esporsi neppure alla possibilità di aver ragione. Così, quale scelta apparirebbe migliore del non scegliere affatto, del non prendere posizioni, per ottenere questo risultato?
Questa deriva verso la moderazione, per esempio, è quanto avvenuto con la politica. Prendendo a esame la situazione italiana, notiamo che oggigiorno i partiti di maggioranza non siano altro che il retaggio della Democrazia Cristiana, ossia un partito che, per primo, abbia compreso e cavalcato l’onda capitalistica e, per questa ragione, abbia avuto la meglio. Soltanto uno sciocco, infatti, riterrebbe che la DC sia qualcosa di passato e non più esistente: ho pubblicato delle considerazioni in merito nel 2019 (Dall’infezione alla malattia. Perché non abbiamo sconfitto il fascismo), periodo nel quale pensare che la DC non sarebbe più tornata sarebbe stato ingenuamente lecito, ma come avevo previsto a quel tempo e come, a partire dal 2023, è stato dimostrato, la DC è viva. Ed è viva ed esistente pure nella forma di riesumato partito politico, perché la DC non ha mai cavalcato un’ideologia, come avvenuto per altri partiti e le loro rispettive dottrine di destra e sinistra, ma ha cavalcato una cultura: la stessa che, come suo ultimo porto, non avrebbe potuto avere che il capitalismo, ossia quella occidentale.
Per adeguarsi all’esistenza, senza correre il rischio di venire travolti dai trend culturali del nuovo millennio, i partiti che sono scaturiti dalla modificazione della destra e della sinistra si trovano a essere, oggigiorno, estremamente simili: ecco, dunque, che diviene legittimo affermare che non vi siano più né destra né sinistra. Ma affermare ciò, ossia che non vi siano più partiti che rappresentino quelle posizioni, non significa che quelle ideologie non esistano né che siano anacronistiche.
Non possono essere anacronistiche per il semplice fatto che, come mostrato, è decisamente più anacronistico un mondo incapace di servirsi della politica senza sottometterla al mercato, come avvenuto dall’irrobustimento del capitalismo fino alla sua odierna compiutezza, anteponendo a ogni cosa sempre il valore delle idee.
Non possono dirsi inesistenti, infine, perché hanno di per sé una natura perpetua: sono idee, infatti, non organismi. Non potrà mai darsi un tempo in cui essere individualisti o egualitari non sia più “al passo coi tempi”, a buon riflettere, perché finché esisteranno comunità umane allora vi sarà sempre un punto di vista su come gli individui di questa comunità intendano la vita insieme agli altri.
I partiti eredi della DC che oggi vengono più facilmente in mente sono: da un lato Forza Italia, che è l’erede degno, dal momento che le posizioni di destra che eredita sono molto più in linea con il libero mercato in cui viviamo e dunque gli permettano di adempiere maggiormente ai suoi presupposti; dall’altro il Partito Democratico, che è l’erede fallimentare, volendo (o persino dovendo, non avendo forse alternative) assecondare il modo di essere della DC ma dovendo, per ragioni di eredità ideologica, guardarsi dal favorire smodatamente il libero mercato, le privatizzazioni e tutto ciò che ne consegue, per non rischiare di vanificare del tutto quella componente ereditaria ottenuta dalla sinistra. Naturalmente, da ciò teniamo fuori le posizioni delle due ideologie in tema di religione, altrimenti finiremmo ancor più fuori rotta, e il PD in particolare non sarebbe più neppure vagamente assimilabile alla sua provenienza.
In ogni caso, rimanendo nella recinzione degli eredi della DC, se la coerenza di Forza Italia lo rende un partito più solido e più difficile da scalfire, la difficoltà di adempiere alla medesima coerenza del PD lo mette in condizioni di più facile scissione, come di fatto è avvenuto già diverse volte.
Infine, pure movimenti alternativi come il Movimento 5 stelle non sono che forme di auto inganno che vengono a galla soltanto quando i fatti si scontrino coi presupposti: cavalcando involontariamente l’onda della contemporaneità essi, infatti, si sono presentati come partito né di destra né di sinistra, producendo tuttavia dei risultati difformi da quelli sperati, apparendo talvolta come degli egualitari di sinistra e talaltra come degli individualisti di destra, senza mai trovare una collocazione e, dunque, risolvendosi o nel reiterarsi di errori o nell’immobilismo totale.
Come ho mostrato altrove, tuttavia, il concetto aristotelico del virtuoso giusto mezzo non trova applicazione nel modo comune di intendere le ideologie politiche. In altre parole, se ideologicamente all’opposto della destra vi sia la sinistra e viceversa, ciò non vale nella misurazione della virtù individuale di chi sostenga l’una o l’altra di queste ideologie. Mi spiego meglio.
Per trovare la virtù e, dunque, il giusto mezzo rispetto alle posizioni ideologiche non bisogna contrapporre le une alle altre, ma bisogna valutarle ciascuna di per sé: se prendessimo a esempio la destra, allora dovremmo immaginare un segmento chiamato, appunto, «destra» il cui punto A sarebbe l’estremismo e il cui punto B sarebbe la moderazione. Secondo i principi della virtù aristotelica, quindi, A e B sarebbero intesi come dei vizi di forma: se infatti l’estremismo è pericoloso per via degli effetti intolleranti che potrebbe produrre, allo stesso modo la moderazione produrrebbe un immobilismo altrettanto deleterio, perché sarebbe incapace di affermare ciascuno dei propri principi fondamentali. Tutto ciò che si trova tra i punti A e B sarebbe dunque da preferirsi, tenendo a mente che il punto centrale, equidistante da entrambi, sarebbe il massimo adempimento della virtù.
Per evidenziare un'applicabilità pragmatica e, dunque, l'attinenza di questo meccanismo ai fatti, a confermare la posizione di moderazione e ignavia dei nuovi partiti è, infatti, che queste odierne coalizioni non siano coalizioni di «destra» e «sinistra», bensì siano posizioni centriste, di «centro-destra» e di «centro-sinistra», mostrando apertamente la loro condizione di arrivismo, servendosi dell'inganno della «moderazione», per poter vivere con un piede nella propria origine e l'altro sempre dal lato della convenienza. E non si confonda questo stato di cose con il concetto di compromesso politico, poiché quest'ultimo ha a che fare coi rapporti tra maggioranza e opposizione, non già con lo scadere nell'ipocrisia pur di occupare necessariamente il podio.
In questa visione generalista, ovviamente, non si tiene conto di quella partecipazione ai partiti di coloro i quali non siano moderati, ma semplicemente degli ingenui utopisti speranzosi che ancora ritengano vi sia un modo di superare la stagnazione: essi non sono moderati, ma più propriamente si tratta di sognatori o, talvolta, di gente che ben avendo chiara la situazione cerchi, a suo modo, di rallentarne il processo di depauperamento invano.
Così, la moderazione in politica non è un giusto mezzo, bensì una forma, talvolta cosciente e voluta talaltra incosciente e casuale, di ignavia, di pusillanimità. Si tratterebbe, come appena mostrato, non di una virtù quanto invece di un vizio. Sarebbe, in altre parole, una possibilità di tenersi aperte tutte le porte all’occorrenza del caso, non potendo essere tacciati di ipocrisia in un secondo momento e, così, sedendo sempre al tavolo dei vincitori, sia pure senza mai essere i veri protagonisti vincenti.
La moderazione politica è il luogo indistinto entro cui tutte le ideologie divengono uguali e intercambiabili secondo occorrenza.
4. La necessità di prendere una posizione
Quanto fin qui osservato consente di affermare, dunque, che non soltanto sia più adeguato riconoscersi in un gruppo, riunirsi sotto un comune corpo di idee e valori, ma che altresì sia necessario.
Prendere una posizione in merito alle cose è fondamentale pure per non lasciare che gli eventi si dispieghino dinanzi a noi lasciandoci come dei semplici spettatori inermi. Il nostro mancato intervento, difatti, non deve essere sempre e solo giustificato con la nostra individuale impossibilità di avere un peso socio-politico, l’autonomo costante riconoscere di non valere nulla, perché essendo la politica democratica un gioco basato sui numeri, ogni unità serve tanto al suo cambiamento quanto all’adempimento di quest’ultimo.
Rimanere spettatori, all’opposto, non significa essere al di sopra delle parti, quasi come fossimo dei geni appartenenti a una specie superiore o difforme dall’altrui e osservassimo i popoli come dei pesci in un acquario. Rimanere seduti a osservare senza partecipare attivamente alle scelte è, invece, una forma di complicità verso la distruzione, la corruzione, il depauperamento della società. Poi, ognuno sceglie la sua maniera di partecipare: vi sono teorici, gente volta all’azione, retori, politici, semplici partecipanti e quant’altro.
È chiaro, in ogni caso, che prendere posizione significhi essere divisivi e, in questa situazione di estesa pusillanimità, in cui le porte aperte fanno circolare la corrente e rinfrescano la stanza di ciascun individuo, appaia enormemente più comodo e di giovamento rimanere immobili. Essere divisivi significa, infatti, che tanta gente con cui condividiamo la quotidianità comincerebbe a vederci in maniera avversa, per ciò che realmente pensiamo e sosteniamo. Comincerebbe a pensare di noi qualcosa di spregevole e, dunque, ne verrebbe meno la condizione di mutuo disinteresse tipica delle giornate che viviamo. D’altro canto, non prendere posizione, risparmiandosi dunque di essere divisivi, significa invece subire quanto accada sopra di e attorno a noi.
Tornando sempre allo smodato giustificare di chi sia in torto, si sente dire che, alla fine dei conti, i governanti scelgono comunque secondo il proprio piacimento. Ciò è vero in parte, ma per quanto concerne il resto tutti sappiamo che quei governanti diventino tali per via di consensi.
La ragione per cui questo atteggiamento del non prendere posizioni appaia sensata ai più è, soprattutto, per la mancata consapevolezza dilagante tra gli individui in quanto viventi un’epoca che, almeno qui da noi, li pone lontani da conflitti di varia natura e, specificamente, da guerre e carestie. Insomma, ciò deriva per larga parte dal benessere, se ben si osserva.
A ben vedere, infatti, vari popoli, compreso il nostro, hanno preso a edificare la società con una comune coscienza e, dunque, riconoscendosi sotto simili vessilli e identici obiettivi, ogniqualvolta abbia avuto luogo una situazione drastica, come una carestia o una guerra.
Nel dopoguerra italiano, per esempio, abbiamo assistito a un climax ascendente di partecipazione comunitaria che, vent’anni dopo ha portato generazioni, che pur non avendo vissuto la guerra sulla propria pelle ma avendone comunque ereditato la memoria, e quindi la consapevolezza intorno alla precarietà della vita e dei sistemi politici, siano state capaci di tenere a mente un monito da non dimenticare. In quei decenni, infatti, sono state raggiunte le più grandi conquiste della contemporaneità, sono state condotte le lotte più audaci, messi in discussione valori che si addicevano più all’età della pietra che alla contemporaneità, e ci si è comunemente interessati a questioni importantissime. Questo diffuso interesse, talvolta manifestato col pacifismo e altre, ove necessario, con la lotta armata, ha sortito dei giganteschi effetti, tra i quali tutti quei diritti e tutte quelle libertà che oggi diamo per scontate e, ancor peggio, per dovute.
Lo stato di benessere ereditato, così, ha acuito enormemente il disinteresse verso i problemi, non essendo questi ultimi più problemi che riguardassero direttamente la maggioranza. Quel che rimaneva, infatti, era un’ancora enorme ma non preponderante povertà, gli acquisiti diritti di donne e minoranze diverse: nessuna di queste cose, tuttavia, è più interesse della maggioranza. E per questa ragione quelle lotte così ben condotte oggi rischiano, giorno dopo giorno, di esser state vane nell’edificazione di questo nostro presente, nonché loro futuro.
Così, smettendo di esservi l'interesse è avvenuto un incremento del disinteresse che, inoltre, ha avuto da sposarsi con quei meccanismi di soggiogo del capitalismo osservati poc’anzi, rendendo ciascun individuo volutamente auto-isolato, con una propensione smodata, sebbene talvolta incosciente, all’individualismo e, nei casi estremi nonché odiernamente diffusi, al vero e proprio antagonismo sociale – spesso aprioristico.
Quale sarà l’effetto del disinteresse? Mi piacerebbe non scadere nell’affermare la palese e consequenziale catastrofe, anche perché sarebbe pure poco originale. Ma se c’è una cosa che sto capendo nella vita è che gli esseri umani, ancor più se presi in larga scala, siano quanto di meno originale e di più prevedibile vi sia sul pianeta.
5. Estensione della moderazione ad altri argomenti
Trattandosi di abiti culturali e abitudini consolidate, modi di vedere il mondo e operare in esso oramai inconsce in ciascuno, il problema si estende anche a tanti altri discorsi.
Un esempio sta, nella costante necessità di stabilire chi debbano essere i buoni e i cattivi, così come le buone e le cattive azioni, nell’incapacità di prendere posizione dinanzi alle ribellioni. Così, sovente, sentiamo dire da taluni che i partigiani italiani fecero bene a uccidere i fascisti, non essendovi altro modo di liberare la nazione, e altri controbattere che, comunque, i partigiani non furono brava gente e che, anzi, sarebbero se non da assimilare perfino da condannare più dei fascisti stessi. Ugualmente, oggigiorno, avviene che, per bilanciare le azioni spregevoli di Israele ai danni della Palestina, si faccia sempre leva sull’attacco del 7 ottobre 2023 e si rigiri il discorso sulle fattezze terroristiche di Hamas. Il modo in cui si è espressa l’ONU sugli eguali mandati di arresto, d’altronde, porta acqua al mulino dell’ignavia discussa fin qui.
Auspicio e obiettivo di queste considerazioni è che, giunti a questo punto, non vi siano tante spiegazioni da dover dare. Ma per non peccare di presunzione inversa, ritenendo i possibili lettori sufficientemente arguti da potersene rendere autonomamente conto da sé, procederò con alcune osservazioni.
Anzitutto, per valutare gli eventi è necessaria tanto una visione sinottica, quanto una parziale, relativa e circostanziale, così com’è necessario sempre guardare alle cose da punti di vista difformi e, sopratutto, da punti di vista diversi da ciò che il nostro pensiero tenderebbe a restituirci per primi.
Detto ciò, partiamo dall’argomento Liberazione. La caratteristica di questo evento, sia che si fosse trattato della nostra o di quella altrui, segue la logica del discorso sulla tolleranza offerto nella fase iniziale di questo scritto. S’è detto, infatti, che la tolleranza non possa tollerare l’intolleranza. Ora, un regime è, in quanto tale, una forma di intolleranza, perché anche se si trattasse del più illuminato che possa esserci, la caratteristica del regime sta nell’impossibilità di muovere opinioni e idee difformi da quelle imposte dal regime stesso. Esso, infatti, si dota di un sistema di leggi non stabilite democraticamente nel tempo, permette l’esistenza di un solo partito e al suo vertice non è neppure formato da un’oligarchia, ma da un unico capo.
Checché se ne voglia dire e per quanto possa piacere o meno, i regimi non sono belli e auspicabili per come si suole pensare in maniera diffusa oggigiorno. Perfino esprimere queste o quelle stesse opinioni sarebbe infatti impossibile. A giudicare da quel che vediamo in altre nazioni, in più, chiunque inneggi al regime mediante l’uso di social network dovrebbe sapere che non potrebbe più neppure fare quello, perché in un sistema di censura qual è quello tipico del regime non vi sarebbero neppure i social network stessi, o per lo meno sarebbero fortemente controllati.
Così, sebbene lo smodato pacifismo diffuso, altra espressione dell’ignavia di fondo, vorrebbe che con i fiori fosse possibile fermare i cannoni, la realtà ci dimostra, invece, che per fermare un cannone bisogna averne uno più grande. È chiaro, quindi, che in un sistema di ribellione il ribelle, a meno che non voglia finire per perdere, debba comportarsi in maniera perfino più intollerante dell’intollerante stesso. Poi, se nei grandi gruppi, come sovente accade, vi sia chi abbia degli atteggiamenti di malignità superflua, come casi di stupro e abuso su civili e quant’altro, quello è un altro discorso, completamente separato: la differenza in ciò è niente più e niente meno che quella che non si è soliti riuscire a riconoscere tra le dottrine e le azioni promosse dai regimi totalitari che arbitrariamente si definirono come attuatori delle dottrine stesse.
Se io creassi un’associazione e la dotassi di uno statuto che dica che i membri abbiano come valore condiviso quello di salutare tutti i passanti, non è che se uno dei membri scegliesse di non farlo allora l’associazione sarebbe colpevole. Andando ancora più a fondo, se io teorizzassi un possibile associazionismo stabilendo dei valori e qualcuno, ispirato, prendesse quei valori per creare una siffatta associazione traducendoli in uno statuto e, tuttavia, quell’associazione intera non li mettesse in pratica, né io né la mia dottrina saremmo colpevoli, a maggior ragione se quel che io ho teorizzato è pure difforme, se messo a confronto, tanto con lo statuto quanto con le opere dell’associazione.
Così, sì, i partigiani furono violenti e, talvolta, lo furono pure in maniera estremamente opportuna. L’ira che avranno avuto dentro nei confronti del fascismo, anzi, fu forse troppo contenuta. Personalmente – ma se faceste un’esame di coscienza ciò varrebbe anche per ciascuno di voi – avrei forse reagito in maniera ancora più violenta, al loro posto.
Ugualmente si dica per i palestinesi. Se Hamas sia composto da brava gente o, veramente, da terroristi, tutto ciò non è soltanto secondario all’analisi della situazione, ma è perfino meno importante del secondario. La condizione palestinese è una delle più vergognose, soprattutto per l’Occidente che fu partecipe, nonché pure iniziatore, dello scempio che si consuma da quelle parti da quasi un secolo. Una ribellione, sia pure violenta, è oltremodo adeguata. E non solo, ma per chi pensasse che in un momento di tranquillità essi abbiano svegliato il lupo dormiente, o peggio che essi abbiano cominciato per primi, io risponderei che è proprio in un tale momento che va pianificato un attacco e che, anzi, sono abbastanza costernato del fatto che non siano riusciti nel loro intento e che, da allora a oggi, siano morte una quantità quasi indefinibile di vite innocenti dalla loro parte.
Ma pure se le milizie di Hamas fossero i più grandi carnefici mai visti – cosa che tuttavia oserei affibbiare, viste le dinamiche e gli eventi, ai soldati israeliani – ne avrebbero pure dei validi motivi. Sarei ben curioso di vedere quanto raziocinio passerebbe nella mente di chi vedesse, magari da bambino inerme, qualcuno che venisse a uccidere suo padre, a stuprare sua madre, a distruggere casa e, magari, pure a violentarlo. Il minimo che passerebbe nella testa di un tale giovane sarebbe, a ben vedere, il desiderio di poter restituire tutto quel dolore a chi glielo abbia procurato.
E in questo, semmai un giorno questa gente venisse a ribellarsi in Occidente, mediante attentati e quant’altro, li si potrà incolpare soltanto se colpiranno gente a caso, come di solito avviene: non già, tuttavia, di venire a ribellarsi contro chi abbia partecipato attivamente al massacro della loro vita.
Conclusione. Differenza tra desideri individuali e obblighi morali
Quel che è fondamentale per la riuscita della società come corpo che funzioni in maniera organica è effettuare una scissione tra noi e la comunità a cui apparteniamo.
Ciascuno di noi ha delle volizioni, dei desideri, degli intimi affetti e quant’altro. Abbandonarli risulta quasi impossibile, ma ciò che è peggio è il non essere neppure in grado, poiché non disposti, a vedere laddove vi sia del marcio e del deleterio in ciascuna di queste cose.
La maggior parte degli eroi che questa società osanna furono assassini delle idee, talvolta pure delle vite, dei loro predecessori. Conosciamo martiri della criminalità organizzata che rinnegarono padri e madri criminali. Conosciamo gente che rivoluzionò i sistemi di interi Stati, anche con la violenza, in vista di un bene maggiore. Conosciamo individui che modificarono radicalmente maniere di pensare col sacrificio della loro stessa vita. Ciascuna di queste persone non fece altro, di volta in volta, che capovolgere le cose.
Su tutta questa gente, poi, marciamo a via di convegni, istituzione di giorni di memoria, ricordi, condivisioni di aforismi, manifestazioni e tanto tanto altro: tanto altro di enormemente ipocrita e, come si confà a questa società, incredibilmente pusillanime.
In senso culturale, la nostra società non si muove di un millimetro da tempo immemore – e continuiamo a parlarci di cultura. Fisher notò bene quando scrisse che una cultura che non rinnova se stessa non è una cultura.
Tutta quella gente continuamente osannata sarebbe essa stessa in disaccordo con queste maniere ignave di pensare odierne, con questa infantile diffusa incapacità di riconoscere il male che ci portiamo dietro, con questa incapacità di divenire divisivi ove necessario. Non solo. Ma quella stessa gente fece la fine che fece per via di chi ebbe attorno: la stessa gente e le stesse maniere di pensare che abbiamo attorno oggi; le stesse persone che, oggi, organizzano i convegni e si arrogano il diritto di veicolare la loro memoria.
La necessità preponderante è quella di lavorare su noi stessi e cercare di riconoscere i nostri limiti, perché non è ammissibile che le nostre individuali volontà possano produrre effetti depauperanti che, in un secondo momento, minino alla costituzione del corpo sociale a cui tutti apparteniamo.
Non è possibile, in altri termini, pensare di poter sempre anteporre i nostri desideri personali ai doveri morali che abbiamo verso la società, perché continuando a muoverci in questa guisa, spargeremo sempre più infezioni nella comunità a cui apparteniamo, per il semplice fatto che non sappiamo distaccarci dalle cose, dalle persone, dalle tradizioni, dai pensieri che minino al mantenimento del corpo sociale.
Mi viene in mente, a questo proposito, un passaggio che lessi anni fa riguardante Tito Manlio Imperioso Torquato, generale romano che guidò la guerra latina e si trovò, a seguito della violazione di una norma da lui imposta da parte del figlio, Tito Manlio, a doverlo condannare a morte per non sottomettere la preminenza della legge comunitaria all'amore parterno:
Poiché tu, Tito Manlio, senza portare rispetto né all'autorità consolare né alla patria potestà, hai abbandonato il tuo posto, contro i nostri ordini, per affrontare il nemico, e con la tua personale iniziativa hai violato quella disciplina militare grazie alla quale la potenza romana è rimasta tale fino al giorno d'oggi, mi hai costretto a scegliere se dimenticare lo Stato o me stesso, se dobbiamo noi essere puniti per la nostra colpa o piuttosto è il paese a dover pagare per le nostre colpe un prezzo tanto alto. Stabiliremo un precedente penoso, che però sarà d'aiuto per i giovani di domani (2).
Per concludere, vorrei canzonare i lettori per come si conviene, senza che tuttavia questi me ne vogliano. Se appare complesso concepire le sottigliezze del concetto di tolleranza e, parimenti, del suo opposto, ossia l’intolleranza, allora proporrei l’introduzione di un terzo termine: l’anti-intolleranza.
Se appare ai più un atteggiamento tollerante quello di chi debba tollerare ogni cosa, un po’ alla stregua dell’elemosina nello sciocco prodigo, e venga agli adulatori della tolleranza difficile avere atteggiamenti intolleranti nei confronti degli intolleranti, allora questa nozione appena introdotta, potrebbe ben aiutarli. Infatti, il problema di fondo è quasi sempre legato ai nominalismi, al fatto che certe parole ci suonino male: così è ben diverso dire loro di essere intolleranti verso l’intolleranza dal dire, invece, «siate anti-intolleranti», perché li fa sentire tutti un po’ più buoni, un po' più cristianelli.
E dunque, quando dopo un’attenta analisi scorgete che qualcosa possa manifestare tratti di intolleranza, voi tolleranti non siate intolleranti, se non vi riesce: siate anti-intolleranti.
Ma men che mai siate dei molli moderati.
Note
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