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Giudizi di gusto e teleologia: dalla ricerca storica all’azione politica. In risposta all’articolo di Peppino Bivona

  • Immagine del redattore: Giovanni Cusenza
    Giovanni Cusenza
  • 14 gen 2024
  • Tempo di lettura: 16 min

Aggiornamento: 5 giu 2024

Questo scritto prende spunto dalle osservazioni condotte da Peppino Bivona, nel suo articolo L’eredità della memoria (la consultazione per la stesura del presente scritto è avvenuta in data 06/01/2024), a seguito della lettura del libro Un secolo di inquietudini. Menfi: dalla Carboneria ai Fasci dei lavoratori. Le idee e le azioni dei protagonisti (2024) di Vincenzo Lotà e Rocco Riportella. La lettura dell'articolo del Bivona risulta imprescindibile per la comprensione di questo.

A scanso di equivoci, il qui presente scritto non è a favore o in opposizione delle parti: ciò non per incapacità di prendere posizioni, ma semplicemente perché i referenti di queste considerazioni sono i lettori, dunque i cittadini menfitani o coloro i quali nutrano interesse verso il territorio e la sua ricostruzione storica, e nessun altro.



Premessa


Sono sempre stato ossessionato dallo studio della religione e, soprattutto, delle contaminazioni culturali che essa abbia prodotto, dalla sua fondazione biblica e durante la sua costruzione attraverso le istituzioni di potere e il susseguirsi di imperi, regni, e quant’altro.

Dopo dieci anni di ricerche e di letture sofferte, ho avuto modo anche di maturare i miei più intimi punti di vista rispetto alla fede: sono stato cristiano e cattolico praticante, sono stato ateo, poi agnostico, mi sono interessato di filosofie alternative e, oggi, posso dire in qualche maniera di credere in qualcosa – benché ciò risulti di facile fraintendimento. Cambiare così tante volte, nella vita, non è stato affatto semplice, ma ha altresì prodotto un enorme senso di disagio, di volta in volta, al principio di ciascuno di siffatti cambiamenti. 

Quando mi confronto con la plus part della gente rispetto al mio credo, tuttavia, mi è sempre più facile ridurmi ad ateo, visti i tanti passaggi logici che conducono al suo concepimento e che, solitamente, se espressi sia pure genericamente non fanno che annoiare il prossimo; e visto che la gente ha, molto spesso, una maniera riduttiva di intendere tutto mediante l’impiego dei dualismi e, più precisamente, delle dicotomie: per un religioso medio, difatti, credere significa vederla a suo modo o, altrimenti, essere atei. 

Il mio interesse, naturalmente, è tutt’altro che quello di parlare di religione e fede. Quest’ultima questione, quella delle dicotomie, è invece un punto al quale mi era necessario giungere proprio per affrontare il dilemma fondamentale e centrale della critica del Bivona. A ciò, aggiungo inoltre di aver avuto esperienza dapprima tanto dell’apprendimento scolastico della storia ufficiale del Risorgimento, quanto delle letture, condotte con estremo entusiasmo, circa la visione contro storica maturata a partire dalla prima metà del Novecento – sostenuta dal Bivona stesso. 

Prima di affrontare il tema centrale, tuttavia, appare necessario, come per ogni analisi che si rispetti, partire da un metodo.



1. Questioni di metodo: dubbio metodico e sfumature


Negli anni di studio, la costante demolizione dei miei pregiudizi, ancorché mi abbia restituito sempre più dolore che piacere, mi ha abituato all’impiego del dubbio metodico, che troviamo tanto in Descartes, quanto nello scetticismo «ragionato» del Leopardi; così come da bocche più recentemente autorevoli, visti i salti pindarici della tecnica contemporanea, in persone come il Premio Nobel per la Fisica Richard Feynman. Detto ciò, diviene tersa la maniera con cui ogni ricerca di mio interesse venga affrontata, ossia mediante l’impiego del dubbio, a sfavore della certezza.

Parimenti, un siffatto procedere ha richiesto un ampliamento del ragionamento, che tendenzialmente riconosca proprio nella dicotomia e nei dualismi nient’altro che una matrice primitiva delle capacità cognitive umane e che pretende, nondimeno, che un’analisi accurata si fondi sulla capacità di demolire i discrimini netti che pongano in opposizione le parti e di mutare questi ultimi in piccole e quasi invisibili sfumature. Così, i colori non sono più i due antitetici bianco e nero e neppure le sette fasce che sogliamo individuare, da bambini, disegnando l’arcobaleno: le sfumature cromatiche sono, invero, talmente sottili da esserci quasi del tutto nascoste alla vista. Ciononostante, la vita di chi abbia a cuore la conoscenza, non fa che muoversi tra queste sfumature, cercando di piantare dei paletti, per ritrovarsi nel percorso a ritroso capace di salvarlo dallo smarrimento: ne sceglie sette, per esempio, ma sa bene di mentire. Per nostra sfortuna, difatti, ai dubbi è necessario imporre un limite coatto.

La questione di metodo, quasi apologetica, è necessaria per poter spiegare le ragioni alla base di questo mio articolo: evitare, cioè, di ridurre quanto seguirà dalle mie riflessioni a una vuota e vana polemica. Il mio scopo, difatti, quantunque la veemenza del mio scrivere si presti sovente a confondersi con mera rabbia, è proprio l’opposto, ossia quello di trovare punti di accordo e continuità tra gli interessati e, soprattutto, tra i lettori.



2. Premessa sulle difformità degli autori e concezione della verità storica


La premessa al dilemma dell’articolo L’eredità della memoria, di Peppino Bivona, scritto nella forma di una recensione – o forse una demolizione aprioristica – al libro Un secolo di inquietudini di Vincenzo Lotà e Rocco Riportella, non merita, tanto quanto le successive riflessioni, una vera e propria analisi critica. E ciò perché pare soltanto indossare le vesti di un’invettiva gratuita allo sposalizio di due autori, la cui difformità ideologica e biografica non dovrebbe essere sottolineata alla stregua di un punto di debolezza, quanto invece considerata proprio il punto di forza stesso del progetto a cui essi si sono dedicati. Tale eterogeneità, peraltro, è stata riconosciuta dagli autori stessi a più riprese, i quali non hanno mancato, scherzosamente, di chiedersi come sia potuto accadere che persone di provenienze, ideologie e passati così difformi possano essersi trovati a collaborare per la stesura di un libro riguardante un argomento che, come mostra bene l’articolo del Bivona, tende a bipartire le fazioni agli estremi dell’interpretazione. 

Allo stesso modo, includere o escludere le considerazioni di certe personalità all’interno di uno scritto non appare motivo necessario di critica, dal momento che ognuno ha la libertà di curarsi e approfondire ciò che vuole e che non è possibile, allo stesso tempo, né includere ogni personaggio storico, né tantomeno lasciare tutti i fruitori soddisfatti.

Il mio interesse personale riguardo alla questione deriva dal fatto che tale ricerca mi vede partecipe, su testi paralleli, da diversi anni e dunque mi richiede non soltanto di intervenire, ma pure di portare alte le ragioni a fondamento di questo progetto, che ha finalità ben più grandi che quelle di decantare le capacità degli autori in questione, di accordarne i punti di vista o meno.

Ciò mi consente, inoltre, di poter parlare della collezione di informazioni a partire dagli archivi in maniera vagamente veridica, dal momento che personalmente mi sono trovato a sfogliare atti notarili dei secoli XVIII e XIX, ricopiando e cercando di ricavare da quegli scritti silenti i legami tra uomini e famiglie del passato menfitano, dei quali traspare niente più che un tenue e confuso barlume di vacue informazioni. Non si tratta di un lavoro facile, si badi, e commettere errori interpretativi è quanto già lo studioso dia per assunto all’inizio della ricerca, senza pretesa alcuna di conferire alla sua sintesi un’assoluta esattezza

Qui si apre, quindi, la prima critica sostanziale alla riflessioni del Bivona, che basterebbe già a demolire – senza rancore alcuno – il resto del suo articolo. In un suo passaggio egli, difatti, nota: «Tuttavia questa costruzione se vuole essere solida deve fare i conti con la verità storica». Interessante, non fosse che, tuttavia, lo storico non si occupa di ricercare una e una sola inamovibile verità. Se così fosse, allora gli studiosi avrebbero potuto fermarsi alle Storie di Erodoto, per quanto concerne la conoscenza dei rapporti tra Greci e Persiani; o perfino fermarsi alla lettura della storia ufficiale del Risorgimento, senza offrire i punti di vista della cosiddetta contro storia, a cui l’autore dell’articolo allude esaltandone la visione. Eppure, tutt’ora, a distanza di quasi duemila e cinquecento anni esistono ancora storici, archeologi e studiosi di varia natura interessati allo studio dei Greci e dei Persiani. Avranno, forse, questi il piacere di dedicarsi a cose inutili? O semplicemente voglia di vanificare la credibilità di Erodoto? 

Personalmente, credo che lo scopo dello storico sia quello di poter trovare alternative a punti di vista univoci e, a ragion di metodo, senza offrire giudizi di gusto. Uno studioso del Risorgimento che si rispetti, quindi, non cercherà in esso la giustizia o l’ingiustizia, una prova a favore della storia ufficiale o della contro storia alternativa; non cercherà neppure forzati collanti, poiché il suo scopo non ha fini etici, e dunque non vuole appianare alterco alcuno tra l’una fazione e l’altra. Lo studioso rispettabile per antonomasia, di qualunque disciplina, non cerca mai risposte, ma prova in ogni maniera a trovare domande da porsi che siano sempre più adeguate allo scopo della sua ricerca. Le risposte, infine, accadono e il loro accadimento, tuttavia, non denota, per l’esperto, il raggiungimento di una verità su cui poter riposare pago: stabilisce invece, solo e unicamente, un punto di appoggio instabile che, all’uopo dell’avanzamento della ricerca stessa, rimane sempre passibile di essere demolito e rivisto. Se questa cosa, da Newton ad Einstein, è avvenuta con la concezione della gravità, non c’è neppure bisogno di domandarsi se possa avvenire con la narrazione storica dei fatti.



3. Il dilemma dicotomico: eroi o assassini


Affinché queste parole abbiano una finalità pragmatica e una certa attinenza alla critica, è tuttavia necessario riportare quale sia, propriamente, il dilemma che attanaglia la mente del Bivona. Egli lo spiega con estrema chiarezza: 


L’unificazione dell’Italia rispose al sogno di una élite intellettuale ed economica su cui ruotarono tutte le vicende risorgimentali, oppure si risolse con una occupazione concepita dallo stato sabaudo, ovvero una ulteriore invasione, trasformando il mezzogiorno in una colonia?


A partire dalle riflessioni offerte in precedenza è possibile, così, comprendere dove stia l’errore metodologico – a mio vedere – di codesto interrogativo: esso impone la dicotomia, ossia la bipartizione estrema tra una posizione e l’altra. Aristotele avrebbe risposto, con aggraziata celerità, che la virtù, tuttavia, risiede nel giusto mezzo. Pure i fisici contemporanei comprendono che, dopo l’avvento di Einstein, gli studi di Newton mantengano parimenti non soltanto una certa autorevolezza, ma persino una persistente utilità pratica per sistemi di riferimento differenti.

La vera domanda, secondo il metodo esposto, sarebbe dunque da formularsi come segue: il sogno di una élite intellettuale ed economica su cui ruotarono tutte le vicende risorgimentali e l’occupazione concepita dallo stato sabaudo, ovvero una ulteriore invasione, trasformando il mezzogiorno in una colonia, potevano e possono coesistere senza escludersi vicendevolmente?

Proprio in virtù del fatto che siano gli stessi «“vincitori”», come nota il Bivona, a scrivere la storia è necessario che la ricerca storica condivida la natura della perpetuità e non si interrompa ricercando un porto ultimo a cui attraccare e potendo, in ultima analisi, rilassarsi.

Se è vero poi che, come notava Troisi, chi si esprime è responsabile di ciò che dice e non di ciò che i fruitori ne traggano, allora è responsabilità di chi legge, parimenti, tenersi emotivamente distante dall’acquisizione di certe informazioni. Personalmente, non ho alcuna remore a definirmi riluttante rispetto al settarismo, soprattutto nella forma dell’odierna Massoneria, che definisce, insieme ad altre tipologie di associazionismo di facciata, la più grande piaga della nostra realtà paesana, ponendo diversi individui di miserabile caratura intellettuale nella condizione di privilegiati. Ciononostante, mi trovo a leggere che questo stesso settarismo, in epoche diverse, possa aver contribuito alla formazione di una coscienza sociale, come per l’espansione dell’Internazionale Socialista nella nostra regione. Dovrei fermarmi a quest’unica possibile interpretazione senza tornare su tali ricerche, poiché correrei il rischio di vanificarne la plausibilità? O forse dovrei rigettarla aprioristicamente perché non simpatizzo per la Massoneria? O dovrei scegliere se appoggiare la visione settaria in maniera assoluta o meno? L’interpretazione richiede sempre un certo e necessario relativismo e a seguito di questa constatazione tratta dal libro non comincerò di sicuro ad amare il settarismo e a far pace con l’attuale Menfi massonica.

Riguardo al dilemma del Bivona, voglio far notare che può coesistere tanto l’uno quanto l’altro punto di vista. La borghesia rurale poteva, quindi, compiere azioni spregevoli per un fine più grande; poteva, pure, ritenere di non stare compiendo alcuna mala azione, comportandosi in maniera ignara, tanto assuefatta dagli ideali dell’Europa del tempo: potevano essere tantissime cose. Parimenti, per voler porre a confronto i punti di vista ufficiali e ufficiosi sul Risorgimento, allora mi permetto di evidenziare che, come l’unità italiana possa aver ridotto il meridione alla miseria, allo stesso modo il suo Ancien Régime era uno scomodo usurpatore dei diritti e delle libertà dei suoi sudditi, i quali non parevano gioirne affatto. Sfiderei chiunque voglia arrogarsi il diritto di definire il giusto e lo sbagliato a divertirsi nel leggere gli eventi della Rivoluzione Francese e giudicare la bontà degli attori protagonisti, le cui teste saltavano a ritmo sinusoidale da un mese all’altro.



4. Interpretazione dei documenti e relativismo


Dalla narrazione offerta da Lotà e Riportella non pare trasparire in alcuna maniera una posizione di appoggio o di avversità rispetto alle concezioni favorevoli o contrarie agli eventi Risorgimentali – quello, forse, è rintracciabile nel trasporto degli stessi durante la presentazione del libro, o nella conoscenza che di essi abbiamo al di là delle parole stampate. 

La ragione alla base di questa imparzialità non risiede affatto in un merito degli autori, quanto al suo opposto, e cioè in un demerito: non essendo questi, difatti, storici di professione, ricostruiscono la storia – già di per sé confusa, proprio in virtù delle possibili letture alternative offerte dalla stesura dei vincitori alle riletture di «innumerevoli volumi, produzioni cinematografiche, testi teatrali, sceneggiati televisivi» ai quali allude il Bivona – con l’ingenuità di chi non abbia avuto formazione analitica accademica sull’argomento, capace di esporre lo studioso al rischio di categorizzare i propri punti di vista rispetto alla lettura del passato. Essi, insomma, hanno preso delle informazioni di archivio e le hanno connesse secondo ciò che a loro è parso più logico e coerente. Probabilmente, al contrario di quanto sostenuto dal Bivona, il libro Un secolo di inquietudini potrebbe gettare le basi per un confronto e per la creazione di una coesistenza di entrambi i punti di vista.

Se invece avesse ragione il Bivona, cosa che non mi permetto di escludere, e gli autori avessero scritto un saggio col trasporto di un romanzo, raccontando più che la trasposizione di quanto ritrovato nei documenti un proprio punto di vista rispetto ai personaggi, l’intera faccenda, come si comprenderà a breve, non cambierebbe comunque.

Se interpreto bene, a sedere nelle «lunghe serate invernali, spesso fredde e piovose», al vasto tavolo di lettura, vi era qualcuno divenuto a me caro attraverso i racconti del figlio: il mio bisnonno, Michele Giovinco. Quei libri di Salvemini e di Gramsci, a cui il Bivona fa riferimento, sono oggi riposti nella mia libreria personale e costituiscono parte integrante di quelle letture che mi hanno cresciuto, aiutandomi pure a non assumere posizioni estreme rispetto a certi argomenti e a comprendere quando sia il caso di confrontarsi pacificamente e quando, invece, non vi sia alternativa al conflitto.

È opportuno, quando si legge, guardarsi bene dal rischio di trovare sempre e solo la riprova delle nostre posizioni in ciò che leggiamo e, ugualmente, a guardarsi bene dal sacralizzare certi stimati studiosi e individui del passato, poiché si corre il rischio di non valutare più quanto vi sia, nelle loro parole e vite, di condivisibile e utile e quanto vi sia, invece, di deleterio e superfluo. È sempre richiesta la comprensione di una relativistica circostanzialità, nonché il riconoscimento della costitutiva mutevolezza che interessa ognuno di noi, nel corso delle nostre vite, e delle epoche che viviamo.

E se Lotà e Riportella sono caduti nell’errore ingenuo di tramutare assassini in eroi, a detta della critica, vorrei far notare che pure il Bivona, su posizioni opposte, abbia fatto lo stesso.

A dare dimostrazione dell’importanza del relativismo, per esempio, è un articolo, scritto durante gli anni del ventennio fascista, su Vincenzo Palminteri, figura di spicco della prima metà dell’Ottocento menfitano. Quell’articolo, che porta il titolo Un prefascista del Risorgimento: Don Palminteri da Menfi, dimostra perfettamente come affidarsi a letture univoche crei il rischio di moltiplicare le incomprensioni: il Palminteri viene, lì, definito un perfetto fascista, laddove tra la sua breve vita e il fascismo sia intercorso quasi un secolo e nulla possa, razionalmente, connettere gli ideali romantici del Palminteri, finalizzati alla distruzione del regno (e magari pure a occuparsi dei propri interessi borghesi) alla demolizione dei principi democratici di Mussolini, al quale piacque centralizzare il potere e renderlo appannaggio del solo sistema dittatoriale. È possibile, quindi, notare quanto la ricerca storica sia continuamente esposta al rischio di essere affetta e contaminata dai documenti di cui dispone. Così, anche lo studioso sa di mentire, tanto agli altri quanto a se stesso; ma comprende di dover imporre dei limiti per poter procedere.

Come sarà chiaro, qui si sta trattando di un paesino che non possieda chissà quale bibliografia rispetto al suo passato e del quale è necessario che vengano riesumati, letti e interpretati almeno tre quarti dei documenti conservati tra le tarme e la polvere, nel disinteresse dei cittadini e delle amministrazioni. Lì, per esempio, potrebbero esserci tutti quegli scritti necessari a dimostrare le posizioni del Bivona anche in piccola scala, rispetto ai personaggi della storia di Menfi; scritti che possederebbero, fino a prova contraria, un’autorevolezza maggiore delle sole parole. E comprendo senza mettere in dubbio la veridicità delle testimonianze a cui il Bivona allude, ma se tali testimonianze riguardassero specificamente taluni personaggi, questo nel suo articolo non è spiegato. 

Non abbiamo bisogno, infatti, di sapere se Garibaldi fosse un brav’uomo o meno, perché su Garibaldi abbiamo una quantità di libri che in pila supererebbero l’altezza della Torre Federiciana e che ci basterebbero a farci una personale opinione: abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica qualcosa di più sui Cacioppo, i Palminteri, gli Imbornone e via dicendo. Inoltre, siamo ben coscienti che personaggi come Don Leonardo Palminteri, inteso Salvione, famoso amministratore delle terre dei Pignatelli, avesse contratto matrimoni di convenienza, che non fosse un uomo degno del Regno dei Cieli e tante altre cose di questo genere, ma questo non vuol dire che non sia opportuno narrare la sua opera e la sua vita alle generazioni attuali e venture, affinché vengano quantomeno a conoscenza della sola esistenza di un personaggio di questo tipo che, piaccia o meno, è stato estremamente fondamentale per gli sviluppi della nostra realtà paesana.

È chiaro che le diverse provenienze si possano manifestare nella maniera che ciascun autore abbia di connettere le informazioni di cui viene a conoscenza e che, quindi, Lotà e Riportella possano aver interpretato secondo pregiudizi inconsci. Tuttavia, non è di facile discernimento quale possa essere l’utilità nel voler promuovere una visione positiva del Risorgimento agli scopi sociali della comunità attuale. Tantomeno i suddetti autori, per quanto i loro trascorsi siano a tutti noi chiari, possano averlo fatto con finalità secondarie al voler avviare un audace processo di riesumazione di un passato che, a Menfi, non ha mai visto la luce in maniera organica.



5. Giudizi estetici, ricerca storica e teleologia: lo storico e il rivoluzionario


Poc’anzi ho scritto e sottolineato, mediante l’impiego del corsivo, che lo storico non offre giudizi di gusto. Vorrei, a questo punto, aggiungere dell’altro: lo storico non deve offrire giudizi di gusto. Anzi, qualunque studioso che si interessi di ricercare, scevro per quanto possibile da contaminazioni pregiudizievoli, deve ben guardarsi dall’esprimere tali giudizi. Persino i giornalisti, nella narrazione dei fatti, sono al corrente di esprimere inevitabilmente un’opinione personale sui fatti, pur con l’impiego di una scrittura distaccata, e di non riportare mai propriamente i fatti stessi. Dunque, chiunque narri qualcosa, lo fa sapendo di mentire.

Quel che la ricerca storica, entrando nel merito dei protagonisti, vuole mostrare non è mai un’oggettivazione assoluta. Essa si occupa di moltiplicare i punti di vista, cercando e offrendo possibilità alternative. Individui che promossero nobili idee si trovarono a cadere in contraddizione con quegli stessi principi e furono in grado, pure, di constatarlo autonomamente con rammarico. Imperi, regni, unioni di cui si suole decantarne la gloria furono promotori di mali inimmaginabili e tuttavia continuiamo a riconoscer loro i meriti, talvolta più che i demeriti.

In base agli scopi per cui si scrive, talvolta pure nascosti, come nota il Bivona puntualmente, cambia in maniera radicale l’approccio alla disciplina. Della storia, infatti, vediamo che è possibile tanto ricercare, procedendo a tentativi di comprenderla, quanto narrare, evidenziando un punto di vista più importante, secondo la necessità delle circostanze. Con ciò non cerco di scadere autonomamente nella trappola dualistica, ma semplicemente di mostrare almeno due modi differenti di operare. 

Interesse della ricerca non è scegliere i buoni e i cattivi. Parimenti, utilizzare la ricerca per scopi alternativi non vuol dire in alcuna maniera depauperarla, o mancarle di rispetto.

Non è infatti sbagliato servirsi della storia narrata a fini sociali e politici, ma si tratta di uno scopo diverso da quello della pura ricerca: è qui che vale la pena esercitare il diritto di imporre dei limiti, esprimendo allora i nostri personali giudizi di gusto. Anche i bravi contro storici del Risorgimento, proprio come gli storici, ricercano senza pregiudizi e narrano senza giudizi. Poi, se tra questi qualcuno nutrisse anche interessi attivi, volti a fini secondari e non unicamente divulgativi, allora potrebbe fare un uso teleologico della ricerca: a quel punto, non starebbe scrivendo per narrare una storia, ma starebbe utilizzando le fonti storiche per espletare una posizione personale.

È in questa differenza che appaiono chiaramente gli scopi dello storico e dell’intellettuale rivoluzionario teso all’azione: se il primo cerca di scovare quanto non sia venuto alla luce, il secondo, dalla storia, non solo può, ma deve trarne una finalità etica, pedagogica, politica. Mentre lo storico guarda al passato e ricerca nuove possibilità al suo interno, l’intellettuale pensa a come servirsi di quelle ricerche per edificare il futuro. E Antonio Gramsci non scrisse con l’intenzione di uno storico, ma secondo le necessità imperanti della sua condizione di prigioniero, mentre un regime, fuori dal carcere, sopprimeva ogni forma di libertà. Ciò, naturalmente, richiedeva ben altro agli sforzi della mente del filosofo, cofondatore ed ex segretario del PCI, che dilettarsi a ricercare qualcosa rispetto al passato della sua città di appartenenza, per il solo piacere di metterlo a disposizione, correndo anche il rischio che qualcuno ne demolisse le posizioni a posteriori. La sua non fu una ricerca storica in stile accademico, ma un’accurata edificazione dell’azione rivoluzionaria, per la conquista della libertà.



Conclusione. Breve riflessione su confronto e collaborazione


Ho scelto di intervenire non per attaccare L’eredità della memoria, né per difendere Un secolo di inquietudini: l’ho fatto, invece, per difendere me stesso e tanti altri da qualunque messaggio teso a vanificare qualsivoglia ottimistico sforzo compiuto al fine di edificare un futuro che – non me ne vogliate – apparterrà più a me e ad altri giovani, che a Bivona, Lotà e Riportella.

Ammetto, infatti, di essere entusiasta per il fatto che stia sorgendo un dibattito dalla pubblicazione del primo libro di questa collana archivistica, che porta nome Gli antenati. E benché da queste righe possa apparire il contrario, ho molto apprezzato la lettura dell’articolo di Peppino Bivona, con il quale condivido pure non pochi personali punti di vista rispetto alla visione del Risorgimento. Esso, voglio confessare, dapprima, mi restituì un certo fastidio ma, digeritolo, è divenuto soltanto motivo di spunto per le riflessioni qui esposte.

Ho ritenuto necessario espormi affinché non si rischi di cadere nella costitutiva tendenza demolitrice e antagonistica tipica delle piccole realtà paesane: nella nostra contemporaneità c’è un estremo bisogno di confrontarsi e non di chiudersi sulle proprie convinzioni; c’è più bisogno di sentire i discorsi che di valutare la nostra approvazione o disapprovazione, stima o disistima rispetto alle bocche di chi li pronunci.

Nostro interesse deve essere quello di risvegliare, insieme, un sentimento comunitario, volto alla trasposizione della storia quanto più impersonale possibile. E se qualcuno sentisse la necessità di esporre quanto ritiene è ben accetto, finanche invitato a scrivere un saggio e a pubblicarlo, se lo desidera, proprio nella stessa collana dell’ancora nascente editore Le Tre Torri. Se esistesse un punto di vista difforme da quello proposto, fornito di bibliografia, fonti e documenti, sulle personalità menfitane di quel periodo, ciò non potrebbe far altro che giovare allo scopo del progetto.

Non si fermi, chiunque voglia cimentarsi in questa impresa, però, alla sola polemica, perché egoisticamente affermo che il progetto alla base abbia un fine estremamente utile per la nostra comunità e che potrebbe essere capace di innescare un’audace presa di coscienza e maturazione di interesse in questa cittadina alla quale, della comunità propriamente detta, è rimasta soltanto la pregiudizievole, infondata, fantasiosa, celebrativa e auto-referenziale definizione.

Questo scritto, dunque, non è stato concepito al fine di dirimere questioni personali ed eventuali diatribe terze ed esterne alla carta stampata. La ragione a suo fondamento è tanto quella di tenere d’occhio le opinioni esposte dagli autori, Lotà e Riportella, e della critica del Bivona, quanto di rigettarle nei termini del puro conflitto aprioristico. 

Io non conosco il Bivona, ben poco conosco Riportella, qualcosa in più so di Lotà: conosco bene, tuttavia, il triste stato nel quale versa la nostra contemporaneità paesana ed è per l’unico fine di promuoverne una cura sinergica che scrivo.

E se noi oggi volessimo rispettare il gentile e disinteressato sforzo di chi abbia, come Gramsci stesso, ereditatoci la libertà, allora dovremmo farlo costruendo dibattito e ampliando le ricerche, non rischiando di promuovere o alimentare antagonismi che possano condurci da infantili litigi a un’irrecuperabile stagnazione culturale. È necessario, quindi, che tanto il libro esaminato, quanto la critica vengano percepiti dai fruitori come l’avvio di un eventuale vivace dibattito, non già come la prematura distruzione di un audace progetto ancora sul punto di nascere.

 
 

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