Colpevoli di essere ingenui
- Giovanni Cusenza
- 17 feb 2024
- Tempo di lettura: 10 min
Aggiornamento: 22 mag 2024
Sono un essere finito. In quanto tale, ho diversi difetti e non disporrò mai del tempo sufficiente a poterli correggere tutti quanti.
Il peggiore, non dal mio punto di vista, ma sicuramente da quello della maggior parte di coloro che sono indissolubilmente legati al primato della vita sopra ogni cosa, è che pongo sempre le idee prima delle persone. Le idee, per me, hanno un primato sugli individui. E sapete perché? Perché le idee sono come i geni: se continuano a trovare organismi che possano ereditarle e comprenderle, potenzialmente, possono vivere in eterno.
Questo di privilegiare le idee, come si capirà, non è un problema da poco. Porre le idee sopra gli individui significa, di fatto, sottomettere gli individui alle idee stesse, sicché se una persona promuove delle idee nocive, benché possa trattarsi di un familiare, di un amico, di un compagno o chicchessia, verrà intesa, da me, prima per esse e, soltanto dopo, per la posizione che occupa nella mia vita e per l’affetto che nutro nei suoi confronti. Questa disposizione è in grado, pure, di prevaricare legami di sangue, intimi affetti, rendendomi anzi più severo verso chi mi sia più vicino rispetto a un qualsivoglia sconosciuto.
In un'epoca in cui le idee sono state surclassate da tanto altro, è chiaro che questa emotività risulti non soltanto assurda, ma pure inaccettabile: pensare che sia capace di inasprirmi, infervorarmi, imprecando e urlando dinanzi a una questione che riguardi i principi fondamentali di uno Stato – come, di fatto, è accaduto più volte – è oggigiorno percepito da qualunque interlocutore come sinonimo di pazzia o, in molti altri casi, come la forma ostentativa di un teatrale e finto pseudo-eroismo. D'altronde, chiunque mi conosca nell'intimo sa quanto per me siano importanti certe questioni e quanto lo diventino sempre più proprio a causa di questo capovolgimento comune delle priorità, effetto di un'incredibile diffusa strafottenza e di un'ignoranza banale, poiché consequenziale a un lungo periodo di benessere comunitario. E in ogni caso, comunque venga oggettivata dagli altri, quel che è d'interesse prioritario non è certamente il modo in cui io, soggettivamente, appaia, quanto invece il constatare che, oggigiorno, alle idee non si dia più alcun peso.
L'unica cosa che mi sento di osservare, tuttavia, è che questo mio fare sia altamente scomodo, soprattutto per me stesso, dovendomi trovare reiteratamente a fare i conti con il lascito emotivo degli scontri da esso derivati; e dovendo risultare, alla fine dei conti, una sorta di disadattato prepotente e polemico.
Certo, a ben vedere, se ci si inoltrasse nei casi estremi, anche voi mi dareste ragione su questa faccenda delle idee; anzi, forse pensereste che stia utilizzando quest’apologetica prefazione per adornarmi di un merito, sottolineando quindi un pregio e facendolo passare, furbamente, per un difetto. D’altronde, se Giuseppe Impastato o Rita Atria non avessero anteposto le idee agli individui, non avrebbero mai potuto rinnegare le concezioni familiari, divenendo così eroi dei nostri giorni nella lotta contro Cosa Nostra, in Sicilia. Visto così, questo concetto ha tutto un altro aspetto, sì. È in virtù di casi del genere che, in una nota del 3 ottobre 2023 del mio Diario, scrissi che per preservare la vita umana è necessario che le idee abbiano un primato sugli uomini stessi. Ma se vostro fratello o vostra figlia fossero portatori di idee malsane, sareste disposti a correre il rischio di poterli perdere? E che dire di Antigone?
In ogni caso, questo flusso non ha niente a che vedere con l’argomento fin qui trattato. Esso era necessario, tuttavia, perché in queste righe voglio affrontare una questione che, proprio in virtù di questa specie di introduzione, rischierà di mettermi in cattiva luce agli occhi di amici e cari. E il motivo di ciò è che questo flusso, nello specifico, è dedicato all’ingenuità.
Partiamo da un excursus cronologico riguardante certi avvenimenti e, nello specifico: l’ascesa politica di un noto personaggio populista italiano; la pandemia da COVID-19; la guerra in Ucraina. Si tratta, in ciascuno di questi casi, di confronti avuti con amici a me molto cari. Inoltre, sarà il caso di spiegare che siffatti interlocutori hanno avuto finanche più esperienze di quante non ne siano capitate a me, letto sicuramente più libri, avuto modo di studiare e accrescere il proprio capitale culturale, conseguendo titoli, ottenendo riconoscimenti, e quant’altro. Mi auguro soltanto che non me ne vogliano e che, al contrario, anche loro semmai dovessero leggere queste righe provino, almeno per questa volta, ad anteporre le idee alle persone.
Nel 2016 ebbi una diatriba con questo personaggio politico a cui alludevo poc’anzi, segretario di un partito divenuto talmente importante da avere avuto, anni dopo, rappresentanti che ricoprissero cariche governative di rilievo. Che lo scontro scritto stesse avvenendo con lui stesso o con qualcuno che si occupasse di gestire la sua immagine, questo non mi era e non mi è chiaro tutt’oggi, dal momento che la conversazione ebbe luogo su di un social network e che, il suddetto politico, nel frattempo, sedesse da ospite in un famoso studio televisivo. Ciononostante, quel che mi induce a rinvenire la plausibilità circa il fatto di stare avendo a che fare con la sua persona, tuttavia, è che le sue risposte giungessero sempre al momento della pausa pubblicitaria. In ogni caso, ai fini dell’argomentazione qui esposta che si trattasse di lui o di chi per lui non è di alcuna importanza significativa. Quel che importa è, invece, il resto.
Anzitutto, l’argomento concerneva i centri sociali bolognesi, da quelli considerati come luoghi di perdizione, in cui i ragazzi non facciano altro che drogarsi e promuovere azioni violente. Dall’altra parte, quel che io, di contro, volevo far notare è che, per quanto in certe piazze si vedessero scontri animosi, ciò non lo legittimava a sostenere che i centri sociali fossero luoghi conformi alla sua rappresentazione e che, in ogni caso, assimilare tutti i giovani che protestassero contro il suo partito, o addirittura tutti gli studenti universitari di Bologna, a frequentatori di centri sociali fosse una generalizzazione frutto di totale assenza di logica. Il nostro scontro durò un paio di commenti. Nel frattempo, però, i suoi sostenitori giunsero copiosi: contai più di ottanta commenti spregiativi ai miei danni, costituiti da invettive e minacce di ogni sorta.
Parallelamente, i miei amici se la ridevano. Stavano lì, dall’altro lato dei telefoni, a ripetermi che non valesse la pena fare ciò che stessi facendo, che non avesse senso cercare di dialogare con quella gente bestiale, che essi non potessero neppure concepire le mie posizioni e via dicendo. Io rispondevo che, invece, i fessi erano quelli che abbandonavano la nave a priori, perché in fin dei conti quella gente aveva e continua ad avere lo stesso peso sociale nostro, tanto dinanzi alla legge, quanto alle urne. Il culmine fu toccato da chi mi disse, nientedimeno, che un “pagliaccio” del genere non sarebbe mai potuto andare lontano, tanto assurde fossero le sue posizioni.
Per fortuna, qualcuno di meno scherzoso dei miei amici e che aveva preso sul serio tanto quanto me quello scontro e la sua importanza, sia pure nella sua infinitesimale piccolezza, intervenne in mio soccorso, dimostrando che per mettere a tacere più di ottanta di loro bastassero dieci dei nostri. Così, difatti, andarono le cose.
A distanza di due anni, quel politico divenne ministro. Sì, esattamente quel “pagliaccio” che non sarebbe andato da nessuna parte. Ovviamente, benché ciò non mi interessasse proprio come non mi interessi ora, nessuno dei miei amici fece ammenda dandomi ragione. Ingenui.
Giunse ottobre 2019, quando fu segnalato il primo contagio di COVID-19 in Cina. Questa volta, niente conversazioni virtuali. La mia idea era che il virus sarebbe giunto celermente in Europa e, altrettanto velocemente, qui da noi. Adesso non vi era nessuno da schernire, dunque gli aggettivi che vennero utilizzati per descrivermi furono «esagerato» e «catastrofista».
La motivazione, dal canto loro, era che vivessimo in un secolo ben diverso dal quattordicesimo, in cui la peste in Europa decimò notevolmente la popolazione: adesso, infatti, vivevamo nel futuro, disponendo non soltanto di una medicina fortissima, ma pure di una consapevolezza sufficiente ad arginare, nell’eventualità più drastica, il problema. Io rispondevo che, invece, i fessi erano quelli che pensavano la società contemporanea come infallibile, e lo pensavo poiché qualunque uomo di scienza sa bene che avere certezze sia cosa da ignoranti e che ogni legge, sia pure la più affermata, non sia che l’equivalente di poggiare i piedi su di una tavola di compensato posta a coperrtura di una voragine, che per un breve tempo sorregge, ma alla fine si rompe rivelando il vuoto.
Insomma, a me è ben chiaro che nessuno sappia niente del mondo e che la storia si sia fatta a via di tentativi; mentre per i miei amici – assimilabili involontariamente, forse, ai cosiddetti complottisti – chi è al di sopra delle nostre scelte, a quanto parrebbe, possiede le soluzioni ai problemi. Ingenui.
Arrivò la fine del mese di gennaio del 2022, quando le tensioni tra la Russia e l’Ucraina non soltanto erano già parecchio accese, ma stessero consumando molta più legna, a vista d’occhio, di quanto non si pensasse. E, in effetti, scoprii che non la si pensava così.
Questa volta eravamo davanti al pub, con una bella birra in mano, mentre fumavamo sigarette e ci confrontavamo, proprio come sogliamo sovente fare. La loro posizione era che si sarebbe trovata una quadra e che – giuro, furono queste le parole – ormai eravamo tutti, nel mondo contemporaneo, abbastanza “grandi e vaccinati” per risolverla senza conflitti e, dunque, trovando un accordo internazionale. Io rispondevo che, invece, non soltanto non fossimo affatto grandi – e tantomeno vaccinati! – ma pure che oggettivare la situazione in questa maniera equivalesse a smaccare tanto la storia, quanto altri luoghi del mondo: la prima, poiché vederla a quella maniera significava depauperare il passato, schernirlo come se la sua infanzia tecnologica significasse la sua insignificanza etica; i secondi, infine, perché, proprio come per il passato, altro non voleva dire se non che ritenessero quei popoli esserci inferiori e non contingentemente sciagurati, quali erano, visti i momenti storici che stessero vivendo.
Insomma, anche questa volta ebbero torto, anche questa volta non furono in grado di ammetterlo, anche questa volta non impararono nulla. E la cosa assurda è che, benché sia tutt’oggi cosciente del fatto che, a sentire tali parole potessi risultare presuntuoso, non facevo che ripetere, visti pure gli avvenimenti passati, che fosse più grande il mio desiderio di aver torto, su questo genere di previsioni, che ragione. Tuttavia, datemi del superbo, non si trattava di profezie, ma di giochetti previsionali molto semplici per chi sappia contarsi le dita delle mani. Ingenui.
Non possiedo una risposta per questa ingenuità costitutiva e, forse, non mi sento neppure, vista la vicinanza affettiva, di volerla cercare. Tuttavia, sono gremito di domande.
Mi chiedo se, a fronte della considerazione che essi avevano dei sostenitori di quel politico, la loro ingenuità non fosse da considerarsi una colpa. D’altronde, se non fossero stati ingenui magari un piccolo gruppetto non avrebbe sventato la sua ascesa, ma tanti altri ingenui della stessa loro specie, collaborando e comportandosi diversamente, forse sì. La cosa che fa riflettere, inoltre, è che quei sostenitori, ancorché venissero considerati dei minorati mentali, sapessero bene – e tutt’oggi sappiano – come collaborare, al contrario di chi descrivesse e continui a descrivere la loro inadempienza mentale con fare da superiore.
Mi chiedo, pure, se possedere la loro ingenuità a seguito di tanto studio e, soprattutto, a seguito di studi prevalentemente umanistici, economici, storici, non sia da considerarsi una colpa. D’altronde, studiare la storia non serve ad altro se non a comprendere le dinamiche della vita umana nelle epoche, la possibilità che certi meccanismi si ripetano. Quindi, misurare il passato con il futuro per, in fin dei conti, schernirlo altro non significa, a mio vedere, che sputare incoscientemente sul piatto in cui s’è mangiato; anzi, su ciò a cui, in questo caso, avevano dedicato anni delle loro vite.
Mi chiedo, poi, se il trascorso fervore politico che investì i miei amici da giovani, e che oggi almeno in me continua fieramente a sopravvivere, oltre ai loro studi diplomatici e via dicendo, fosse servito a permettergli di giudicare la realtà con lenti consapevoli e non come un cristiano-capitalista film escatologico della Disney, con il suo riprovevole lieto fine.
Ho paura.
Ho paura che l’adornarsi di titoli, il conseguire posizioni, lo sfruttare il sapere per occupare una posizione sociale, il vestirsi di conoscenze per decantarle e tutte queste cose a cui ci ha condotto la società capitalista e che, paradossalmente, si notano maggiormente in coloro i quali portano i vessilli critici del capitalismo, quelli demolitori, abbiano colpito a tappeto tutti quanti, come un plotone di esecuzione.
Ho paura perché a scadere in una così banale ingenuità siano coloro i quali abbiano accesso – oltre che intrinseco interesse – alla conoscenza senza limitazioni, senza necessari pregiudizi. Pensare che persone così intellettualmente raffinate e intelligenti ricadano ripetutamente in conclusioni così irreali e fantastiche, così infantili e speranzose, manifesta una debolezza logica enorme, con ricadute pesanti sul mantenimento del corpo sociale: un rischio che la società democratica non può permettersi di correre.
Vivere in una comunità significa doversi assumere delle responsabilità. Ci si potrebbe chiedere per quale ragione, dal momento che in una società siamo nati, senza che ci venisse chiesto preventivamente il consenso a farne parte: questo sì. D'altronde, è possibile pure estraniarsi dalla società, scappando e andando a vivere lontano, dove niente, neppure ciò che possa agevolarci del vivere sociale, potrà raggiungerci.
Ma, bando alle fantasticherie, il motivo con cui vanno intese queste responsabilità non ha a che fare col nostro gusto personale. Ciò che risulta etico non è necessariamente conforme alla legge, e viceversa. Partecipare della comunità, tuttavia, significa combattere quotidianamente, con piccoli gesti, per raggiungere sempre più questa conformità. Bisogna cercare, a mio vedere, di fare qualcosa ogni giorno, nel nostro piccolo, per avvicinare queste due cose.
Essere ingenui avendo avuto abbondanti mezzi per evitarlo è forse sintomo di una mancata partecipazione attiva. Non valutare analiticamente, secondo le proprie possibilità, cercando di ricavare effetti plausibili da dati presupposti, è una forma di diserzione sociale. Risultare frangibili alla disillusione, benché teoreticamente ed esistenzialmente possa essere accettabile, se non doveroso, non è tuttavia uno stato contemplato nel perimetro dell'azione politica.
Quest'ingenuità è motore di quel climax di disinteresse crescente verso la partecipazione sociale, della teatrale alienazione individuale e fiera auto esclusione da gruppi, partiti, categorie e quant'altro. Ma bisogna scindere quella tipologia di singolarità che va ricercata, il nietzschano diventare ciò che si è, dalla capacità di riconoscersi, sul piano generale, con gli altri: la società ne ha bisogno. Se a fare gruppo rimangono gli elettori bestiali a cui si alludeva varie righe fa e, al contrario, non siano affatto capaci di riconoscersi tra loro, addirittura tendendo a redarguirsi sull'apposizione di accenti, coloro i quali ritengono bestiali, appunto, i sopracitati elettori, allora viene da chiedersi chi sia il minorato mentale.
E se le cose dovessero stare così, allora, per certi versi, tutti quanti dobbiamo curarci di non scivolare sulle nostre volizioni quando guardiamo ai movimenti della realtà, per non correre e non lasciare che gli altri corrano i rischi che derivano dalla nostra colpevolezza: colpevoli di essere ingenui.
.png)