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Eterni sconosciuti, o gli amici storici

  • Immagine del redattore: Giovanni Cusenza
    Giovanni Cusenza
  • 25 mar 2024
  • Tempo di lettura: 11 min

Aggiornamento: 22 mag 2024

Gli amici storici sono le liete zavorre delle nostre vite. Sono liete poiché rinnovano sempre un ricordo piacevolmente nostalgico dei tempi passati, del nostro passato stesso, dell’infanzia, dell’adolescenza. Sono zavorre perché sovente abbiamo necessità di domandarci se sia meglio stare loro vicini in perpetuo, come sogliamo spontaneamente fare; o, piuttosto, allontanarci da loro, tanto fisicamente quanto psicologicamente, per non soffrire i tanti mali che solo gli amici storici sono in grado di recarci.

Gli amici storici sono quelli che ci portiamo da quando eravamo bambini, chi dall’asilo, chi dalle elementari, dalle medie, dal liceo. Di lì in poi nessuno è un nostro amico storico.

Molti di noi sono legati a quella che, almeno dalle mie parti, è definita col termine «compagnia», laddove con essa si intenda qualcosa di molto diverso da ciò che essa, di fatto, sia: qui, con compagnia si definisce quel gruppo di persone talmente intime da essere quasi intercambiabili ai parenti, a chi con noi intrattiene un legame di sangue. Sì, perché nella società a cui appartengo, soprattutto nelle zone meridionali di essa, alcuni gruppi – o, se vi piace definirli mediante l’impiego di un inglesismo, diremmo clusters – sono per definizione perfetti, intoccabili, esattamente come vale per Dio e per tante altre malattie umane, deleterie e apparentemente impossibili da sradicare. 

La famiglia, a cui potrei dedicare altre argomentazioni in futuro, è uno di questi e la maniera di considerarla più diffusa è quanto di necessario da spiegare per tornare sulla compagnia: essa, per ragioni eminentemente culturali, è considerata sacra. D’altronde, la dicitura «Dio, Patria, Famiglia», tipica di chi tradirebbe ciascuna di queste cose all’occorrenza dell’utile, è quanto di più diffuso si senta venir fuori dalle bocche dei più. Il nucleo familiare, insomma, è qualcosa di inamovibile. Non importa che tuo padre sia un criminale, tua madre una velenosa, tuo fratello e tua sorella degli evasori e chi più ne ha più ne metta: il giustificazionismo su di loro avrà sempre un primato ineccepibile. Denunceresti forse tuo figlio o tua figlia? Faresti arrestare tuo padre? Diresti forse che tua madre sia una persona da non frequentare?

Il concetto forse più interessante a riguardo è quello di queer family, che è stato ben spiegato dalla Murgia in diverse occasioni – non fosse che in contesti scritti abbia forzato, come si suole fare nel disperato e vano tentativo di conciliare la razionalità alla nostra più intima volontà, al nostro necessario gusto, con quanto di più difforme e inconciliabile vi sia con essa. 

In Germania, spiegava la scrittrice, durante il periodo pandemico non si dava per assiomatico che i cosiddetti congiunti dovessero necessariamente essere i propri familiari, unicamente per questioni di linearità sanguigna, per l’assioma che a vivere in una casa debbano essere per forza gente legata dalla natura (o, se fossimo capaci di ammettere le nostre pecche, proprio per quella sacralità della famiglia ereditataci dalla più grande infezione dell’Occidente intero), come accadeva in Italia. Lì, invece, i tedeschi potevano scegliere chi fosse la propria famiglia, eludendo ciascuna delle regole precitate, potendo scegliere con chi convivere durante la quarantena, da chi rientrare a seguito del coprifuoco stabilito, purché quelli che fossero definiti congiunti rimanessero comunque le uniche persone con cui incontrarsi.

Questo, per la famiglia, è un passo non da poco, perché consente il superamento o, se preferiamo, una terapia per la guarigione da una concezione familiare che reitera il moltiplicarsi di innumerevoli piaghe sociali. Be’, a ben vedere, in quali contesti troviamo coesione familiare indiscutibile, se non soprattutto all’interno dei mandamenti siciliani di Cosa Nostra, o nell’organizzazione della ‘Ndrangheta calabrese, nella Camorra napoletana e via dicendo, che se voleste prendere un’organizzazione criminale qualunque da qualunque luogo del mondo, al novantanove per cento condividerebbe la stessa logica? Dunque, la queer family, esaltandola senza tuttavia necessariamente doverla sposare smodatamente a qualcosa che non le appartiene, è il passo di pregio sopra il gradino del progresso, della razionalità, della buona condotta per come dovrebbe intendersi e, ancor più, dell’onestà individuale. Personalmente, ad esempio, sono sempre stato considerato un po’ fuori dal gregge all’interno di certi luoghi della mia famiglia, essendo io non soltanto un individuo che odia profondamente la coesione familiare, quantomai falsa e di facciata, ma pure mostrandomi enormemente più severo nei confronti dei miei consanguinei laddove trovassi in loro delle maniere di pensare fortemente deleterie o inguaribilmente infantili.

La compagnia soffre di analoghi difetti, perché pur non provenendo dal nostro sempre ci costringe, attraverso il meccanismo dell’abitudine, a trattarla in maniera analoga. Certo, in questa cultura infetta nessuno si permetterebbe mai di anteporre un amico a un fratello: non sia mai che il prete, o perfino Dio in persona, veda che la signora con cui scambiamo piacevoli chiacchierate al bar si anteponga, potendo occupare un luogo speciale del nostro pensiero, a quella madre che ci abbia cresciuto nel disinteresse, violando così il suo comandamento di onorarla – o, meglio ancora, di onorare l’adoratrice, appendice di tuo padre.

Gli amici storici si inseriscono, difatti, all’interno di un sistema tribale, di matrice primitiva, dove tutto ciò che sia esterno intrattenga legami più con il concetto di inimicizia che di mero disinteresse. La tribù possiede confini invalicabili, oltre i quali chiunque esca rischi di trasformarsi in nemico, di tramare qualcosa contro il gruppo. Altrimenti che motivo ci sarebbe di venirne fuori, sia pure momentaneamente, quando si potrebbe condividere la stessa scelta di muoversi tutti insieme? 

La tribù possiede prede, trofei, sovente donne, che come ebbe a notare opportunamente Veblen non furono altro che gli oggetti della prima istituzione di una proprietà privata, attraverso l’istituzione del matrimonio. E se qualcuno si avvicinasse a queste donne, a questi trofei predati con fatica, scoppierebbe una faida, che potrebbe protrarsi in una guerra interminabile.

Tutto ciò sembra forse primitivo ed estremamente assurdo, eh? Non lo è affatto. Anzi, le dinamiche sono perfettamente identiche oggigiorno. Il problema è che questo, come tante altre cose che ci riguardano, è un atteggiamento che ci piace non notare e mettere volutamente a tacere nascondendoci dietro i nostri vestiti moderni, le nostre mode contemporanee, la grande tecnologia di cui ci serviamo quotidianamente. Ma io posso assicurarvi che queste cose, lette nei libri di antropologia, di storia, persino di economia, le ho viste nel presente e le continuo a constatare di continuo, svelandole dalle maschere apposte su ogni cosa che riguardi gli umani.

Nel paese in cui sono cresciuto, per esempio, bastava guardare un povero idiota insicuro, con il contorno psicologico perfettamente sovrapponibile a quello del bullo scolastico, per cominciare un litigio, una rissa: un incrocio di sguardi, nient’altro che il più piccolo esercizio di quella cosa bellissima che si chiama curiosità. Quello sguardo, però, violava la zona della sua compagnia, lo spazio territoriale appannaggio del loro controllo. Volete sapere cosa succedeva se guardavate una delle loro ragazze?

Vi racconto questa. Da piccolo fui un anticipatario, ossia feci la cosiddetta primina (o anticipo scolastico): all’ultimo anno delle scuole materne, mentre la mattina frequentavo la scuola spettante alla mia età, il pomeriggio frequentavo un corso in cui studiavo, con un’insegnante, il programma scolastico della prima elementare. Così facendo, alla fine dell’anno, avendo in qualche maniera studiato il materiale di due anni in uno, entrai direttamente in seconda elementare. Ciò significava, in altre parole, che tutti i miei “coetanei” non erano mai miei coetanei, ma almeno più grandi di me di un anno. Questa è una diversità che non si percepisce quando sei molto piccolo, ma che diviene evidente, quantomeno dal punto di vista fisico, agli albori della pubertà. Arriva poi un momento, quello del liceo, in cui quella differenza di anno diviene estremamente evidente: tu, minuto, in mezzo a ragazzi corpulenti gradualmente sempre più pelosi; tu, minuta, a camminare tra quei seni di giorno in giorno più prosperosi.

Quando frequentavo la prima superiore ebbi un brutto incidente in motorino. Vi domanderete come, visto che, se siete stati attenti, avrete capito che a quell’età avevo soltanto tredici anni e non potevo ancora guidare un motorino: difatti, ero seduto dietro a un’altra persona. Per fortuna, oltre a escoriazioni varie, ustioni di primo e secondo grado sparse per tutto il corpo, compresa la faccia, e una brutta frattura scomposta di radio e ulna, di quelle in cui il braccio forma un’evidente zeta, il casco mi salvò la vita, lacerandosi lui al posto del mio scalpo, e restituendomi soltanto un trauma cranico minore. Questa non è la storia del mio incidente, quanto piuttosto di quel che successe la settimana dopo che mi tolsi quel gesso che tenne bloccato il mio braccio fino al bicipite, costringendolo ad angolo retto per un mese intero e, quindi, ancora privo di totale mobilità in flessione, atrofico come se avessi potuto lasciarlo a digiuno separatamente dal resto del corpo, ed estremamente debole. 

Un giorno suonò la ricreazione, così andai nello spiazzale sotto quella vergognosa catapecchia che solevamo chiamare liceo, per mangiare un panino. A un certo punto, mi sentii chiamare da dietro da un ragazzo del terzo anno. Ricordate il discorso di cui sopra? Io frequentavo la prima superiore, ma per l’anticipo scolastico ero di fatto uno di terza media, quindi potrete capire quanta pubertà passasse dalla diga frapposta tra me e quel tipo. Per farla breve, questo tizio mi chiese di andare un attimo con lui dietro la struttura della palestra, insieme a un suo coetaneo che, almeno all’epoca vestiva i panni del suo scagnozzello, e io lo seguii senza remore e anzi curioso di sapere cosa dovesse farmi vedere. Girato l’angolo, trovandomi avanti, mi voltai verso i due chiedendo quale fosse la ragione di quel colloquio, ma non feci in tempo a pronunciarmi che quello mi tirò un pugno dritto sulla guancia sinistra, in prossimità della bocca, di quella stessa bocca già da anni e ancora martoriata dalle più disparate forme di apparecchi che portai. Naturalmente, vista quest’ultima considerazione, neanche a dire che cominciò a uscirmi un fiume di sangue e, vedendomi davanti quei due giganti, essendo da solo, ancora molto debole pure per svincolarmi e con un braccio del tutto inutile, cominciai a chiedere piangendo cosa fosse successo e cosa avessi dovuto fare, pregandoli, perché mi lasciassero andare. Quello mi rispose che io, in seconda media, a una gita scolastica a cui partecipò la sua ragazza, mi sedetti sul pullman con lei ad ascoltare la musica condividendo una cuffia ciascuno. Tutto qui.

Per togliermi lo sfizio di raccontare questo avvenimento fino in fondo, racconterò che portai un rancore degno della terapia verso questo ragazzo per quasi tredici anni, ossia il doppio dell’età dell’epoca, quando una sera, essendo non soltanto ormai ben cresciuto ma pure molto sicuro di me ed estremamente in forma, mi avvicinai a lui, gli misi una mano sulla spalla ed esordii dicendo che avrei avuto una gran voglia di tirargli un pugno in faccia. Quella sera parlammo e lui, che oltre ad aver aggredito me, che dovetti risolvere seguendo la linea tribale, visto il contesto primitivo della società a cui appartengo, dovendo chiedere a un amico più grande di minacciarlo di non provare più a toccarmi, in quel periodo aveva aggredito anche altra gente, beccandosi alcune denunce – sebbene, a suo dire, oltre che di me, non si fosse mai sentito in colpa per nessun altro degli aggrediti.

Ora, tornando sui passi dell’argomentazione, quel che si desiderava sottolineare non fu tanto il trattamento riservato a me, quanto il modo primitivo di intendere quel possedimento che era la sua ragazza e che non vale o valeva soltanto per lui, ma praticamente per la maggior parte della gente che tutt’oggi viva nel mondo, almeno quello occidentale. E questa non è neppure una digressione sul patriarcato, come si capirà: qui si tratta del retaggio tribale e primitivo, barbaro, che ritroviamo in tante dinamiche e tanti contesti contemporanei e che, in questa analisi, riguarda specificamente la comitiva, la compagnia, il gruppo degli amici storici, anche nel volersi bene.

Tornando a loro, dunque, almeno nel mio caso, anche lì come per la famiglia sono sempre stato un po’ la pecora nera. E questo non per vantarmi di una qualche peculiarità, ma perché di fatto è evidente tanto dal trattamento secondario che ricevo da parte loro, soprattutto se riuniti e non incontrati singolarmente o a porzioni, così come pure banalmente nel peso decisionale che possano avere le mie opinioni, o ancor più banalmente nello spazio liminare riservatomi in una semplice foto di gruppo, nelle quali spesso appaio quasi come un fantasma sullo sfondo. Tutto ciò perché nella vita sono un nomade, sovversivo alla cultura che mi appartiene e che, in dose certamente più moderata, colpisce me proprio come ogni altro. Già da adolescente solevo uscire senza contattare gli amici, ché vivendo in un paesino, alla fine, avrei comunque incontrato qualche conoscente e, perché no, avrei avuto modo di scoprire che si trattasse di gente con cui poter stringere legami. Dovete pensare, addirittura, che alcuni amici miei solevano riunirsi, quasi, per stabilire se una persona fosse o meno degna di uscire insieme a noi: capirete, quindi, da dove derivasse, visto il mio carattere, la mia voglia di evadere.

Nel tempo, avendo amici comunque abbastanza raffinati tanto socialmente quanto intellettualmente, atteggiamenti come quest’ultimo sono andati sfumando; e, ciononostante, le dinamiche rimangono tutt’oggi le stesse: loro insieme, imprescindibili gli uni dagli altri, mentre io parte del gruppo, appunto, per abitudine.

Ma il più grande male  degli amici storici – e qui arriviamo alla zavorra iniziale – è che essi credano di conoscerti meglio degli altri e spesso lo affermano pure. Quanto ciò sia falso sarà evidente a breve.

La compagnia si regge sul sistema del tempo, della solidità acquisita, della sua mai avvenuta disgregazione totale. Per questa ragione, il legame col tempo è qualcosa di estremamente preponderante in ogni cosa che la riguardi. Così, conoscersi da più tempo è considerato un conoscersi meglio. Tuttavia, noi umani siamo esseri mutevoli, a tal punto che, come lessi una volta di Erwin Schrödinger nell’epilogo di un suo fantastico libro intitolato Che cos’è la vita?, il nostro io del passato è a noi un estraneo, con cui talvolta non intratteniamo semplici differenze, ma pure avversità, quasi disconoscendoci del tutto da esso. 

Ecco, gli amici storici conoscono, e forse neppure così tanto bene, quell’«io» passato che eravamo un tempo. Da allora in poi non fanno quasi mai, per la maggior parte, conoscenza del nostro «io» presente. Per loro noi siamo «sempre stati» in un modo ed è questo il perché a giustificazione dei nostri atteggiamenti di oggi. Anche io lo faccio, forse sbagliando, o talvolta azzeccandoci.

Nondimeno, questa maniera d’intendere è non soltanto deleteria a loro, dal momento che non sanno veramente con chi hanno a che fare oggi; lo è pure per noi stessi, perché tende a incatenarci, ai loro occhi, a qualcosa di preconfezionato, stabile e non soggetto a mutevolezza. Ciò significa, pure, che se nel tempo abbiamo sviluppato delle abilità, degli interessi, delle nuove idee e quant’altro, per loro tutto ciò non è mai avvenuto. E siccome ciascuno di noi, esseri sociali, che lo voglia o meno è condizionato dal giudizio altrui, specie se quel giudizio provenga da qualcuno a cui, anche per le stesse ragioni storiche, si voglia bene un po’ come a un fratello o una sorella. Sì, perché attraverso quel meccanismo abitudinario, nel tempo, come spiegato sopra, gli amici storici divengono una seconda famiglia: seconda poiché mai, in questa cultura, è permesso anteporre un legame non sanguino a quello familiare; famiglia perché, proprio come per essa, si vengono a creare delle dinamiche inviolabili e altrettanto malsane.

È così che gli amici storici divengono deleterei, divengono involontariamente demolitori: delle vere e proprie zavorre. Se io in passato ero bravo a suonare la chitarra e oggi, magari, abbia sviluppato qualche altra abilità, perfino più notevole, e andassi da loro a chiedere un parere su di un progetto specifico o checché sia, è molto probabile che da loro, al posto che incoraggiamenti, provengano parole involontarie di sconforto, come il fatto che non possa riuscirci perché, nella loro visione di me, io non sia adatto, abituato, formato per quella cosa lì. Così, accade che il loro reciproco dare per scontato di conoscersi diviene quanto di più atroce vi sia per l’amicizia. 

D’altro canto, molte persone conosciute negli anni successivi, tra università, lavoro, viaggi e via dicendo, sono invece i nostri amici, seppure non ci piaccia ammetterlo. Non ci piace perché non sono storici e, se queste considerazioni intrattengano un qualche legame con la plausibilità, anche qui tendiamo a pensare di non poter essere considerati così tanto amici da parte loro, avendo anch’essi, da un’altra parte, degli amici storici. 

Loro, però, conoscono un noi più recente. A loro ci siamo raccontati e spiegati in un momento più vicino al presente: conoscono i nostri gusti, i nostri pensieri, i nostri sentimenti, i nostri traumi restituiteci dal tempo, pure da quel tempo che si è dispiegato dopo gli anni trascorsi con gli amici storici, che questi ultimi, per il non averci mai più chiesto di noi, sconoscono. Conoscono un sacco di cose sul nostro conto: un sacco di cose che i nostri amici storici, invece, non sanno. Gli amici storici, così, dovrebbero darsi del “lei”, non conoscendosi affatto tanto a fondo quanto ritengono.

Sia chiaro, io amo i miei amici storici: o meglio, li amo se presi individualmente, ma ammetto di odiarli in gruppo.

Questa mia riflessione, quindi, non vuole intendere che essi siano da ripudiare. Semmai, è da ripudiare tutto ciò che non mettiamo in dubbio, insieme a tutti coloro i quali non mettano in dubbio le cose. E poi, purtroppo, non siamo capaci di scegliere a chi voler bene, o chi amare. Ma dovremmo essere capaci, sforzandoci, di comprendere certe dinamiche, scindendo sempre ciò che desideriamo col cuore da ciò che la realtà ci presenta. 

Un po’ come avrebbe dovuto fare la Murgia con la queer family e il suo cristianesimo. Ma questa è un’altra storia.


 
 

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