Dall'infezione alla malattia. Perché non abbiamo ancora sconfitto il fascismo
- Giovanni Cusenza
- 15 nov 2019
- Tempo di lettura: 60 min
Aggiornamento: 17 mag 2024
Avvertenza: le aggiunte tra parentesi quadre "[...]" sono state effettuate a distanza di cinque anni dalla stesura del presente articolo, ossia nel 2024.
Indice
Introduzione
Un'evidenza di grande rilievo della società italiana contemporanea sembra, a tutti gli effetti, quello della crescente quantità di individui il cui pensiero torna a degenerare drasticamente nei meandri oscuri del fascismo. Esso è, senz’ombra di dubbio, di un peso rilevante e merita ovviamente di aver restituita la necessaria attenzione per condurci al suo superamento. Ma prima di mirare ai fini, bisogna considerare gli ostacoli che si frappongono e che non ci permettono di avanzare.
Uno dei più grandi disagi della condizione attuale è quello di non riuscire a vedere questi disagi e, consequanzialmente, di non curarsi del peso che questa degenerazione possa avere, in breve tempo, su tutto ciò che le sta attorno.
In qualche maniera, tali disagi risiedono entrambi in una categoria molto simile di individui, che possono e devono essere identificati prioritariamente, giacché opposti parimenti a coloro i quali sono stati colpiti dall’infezione fascista. Tuttavia, al solo fine di rendere quest’argomentazione quanto più chiara possibile, sarà forse il caso di denominare questi ultimi con il titolo di malati, dal momento che la malattia può essere intesa come la conseguenza diretta del non aver prestato la dovuta attenzione ad un’infezione; i restanti, invece, verranno denominati con il titolo di sani, per contrapporli ai primi con maggior facilità. Si badi che, però, questi ultimi non hanno niente che risponda al concetto di ciò che è sano. Essi sono solamente dei presunti sani, insomma.
Infatti, se differenziare i primi in sottocategorie è qualcosa, date le incredibili affinità e la mirabile compattezza, di particolarmente complesso e inutile ai fini dell’analisi, differenziare i secondi non è cosa del tutto impossibile ed è eminentemente necessaria alle qui presenti considerazioni.
1. Inapplicabilità della virtù aristotelica alla bipartizione politica dominante
I sani sono una categoria molto pericolosa della società contemporanea. Essi sono rappresentati, il più delle volte, dai moderati, da coloro i quali assumono posizioni – si ritiene – di mezzo, pacifiche, di non belligeranza.
I sani possono essere distinti, almeno in una prima fase, in due grandi sotto categorie. Nulla esclude che taluni individui risultino avere le caratteristiche di entrambe, o piuttosto una parte di une e una delle altre, e così via dicendo. Le due categorie sono caratterizzate da chi, come già osservato, non è in grado di vedere i disagi e da chi, pur essendone in grado, non è capace di oggettivarli, di comprenderne la natura. Chi non vede i disagi, fra i due, è più esente da colpe, poiché non si può accusare un cieco di non vedere, ma si può accusare un vedente di non voler vedere.
I sani non vedenti, i primi insomma, sono quelli che proprio volgendo lo sguardo verso la catena alla cui fine stanno i fascisti, cercano gli ostacoli che si frappongono dinanzi a se stessi, o anche dietro. Essi non hanno prestato la dovuta attenzione e non hanno capito che, tante volte, certe cose che si osservano non si vedono con gli occhi, non si rendono manifeste con facilità alla nostra vista. Gli ostacoli, infatti, risiedono proprio all’interno di noi stessi ed è questo il motivo per cui non si rendono visibili. Devono essere intuiti, in altri termini.
Dall’altra parte, quella dei sani vedenti, stanno tutti quegli individui che, pur avendo visto gli ostacoli, i disagi, non pensano che essi possano risultare lesivi alla vita contemporanea. Essi lo credono, in qualche maniera, poiché sono in parte affetti da una simil forma di cecità. In effetti, sia gli uni che gli altri potrebbero essere assimilati ad un unico gruppo, e difatti lo sono; ma necessitano di una separazione, poiché, pur soffrendo del medesimo problema, ne soffrono dinanzi a diverse questioni.
Non sarebbe troppo difficile, partendo da queste similitudini e differenze, riassumere le posizioni degli uni e degli altri. Infatti, se ai primi il problema non appare nella sua totalità, per i secondi esso c’è, ma non è propriamente un problema.
Sarebbe impossibile astrarsi da riferimenti ideologici, da vessilli politici, seguendo un’argomentazione di questo genere. Tendenzialmente, in opposizione all’estremismo sta la moderazione, ma dal momento che ogni estremismo è l’estremismo di un pensiero più affine alle ideologie di destra o di sinistra, allora il giusto mezzo si trova in un centro dislocato dal solito.
Aristotele parlava della virtù spiegando che essa sia una medietà fra due vizi e che dunque si trovi nel mezzo, fra due estremi. Verrebbe spontaneo, nella guisa di questo discorso, pensare che la moderazione sia dunque la posizione massimamente virtuosa. Nondimeno, sarebbe totalmente erroneo. Nel caso della bipartizione ideologica del pensiero politico, così come ci è stata ereditata dalla storia, infatti, la virtù non sta affatto nel mezzo.
Certo, la posizione di mezzo è quella in grado di rendere destra e sinistra comunicanti, ma questo andrebbe bene se la politica fosse fatta a porte chiuse, fra persone che discutono, scevre dalla contaminazione perenne dell’elettorato che da fuori ringhia e bestemmia senza sosta. Difatti, a queste condizioni, dovendo a questi ultimi render conto, le fazioni non riescono in maniera alcuna a trovare un dialogo. E in maggior misura, dovendo differenziarsi in qualcosa, ciò avviene quando le posizioni delle fazioni opposte sono entrambe troppo vicine al mezzo, alla moderazione, al centrismo.
Per certi aspetti, questo è quanto si verifica in Italia, un paese in cui oggigiorno sinistra e destra sono così vicine nell’operare che l’unica maniera che hanno per differenziarsi è quella di rendere evidente la loro reciproca opposizione, celando la loro unica intenzione, e cioè quella di non perdere la stima dei propri elettori che, a differenza loro, odiano le fazioni opposte con una veemenza del tutto singolare anche rispetto al passato. Questa fase istituzionalmente moderata, quasi d’immobilismo, in Italia, ha luogo grazie alla forte presenza storica della Chiesa cattolica, non tanto intesa come istituzione in senso fisico, come presenza della Città del Vaticano all’interno del territorio in cui si estende lo Stato Italiano, ma piuttosto in quanto costitutiva, fin dal suo principio, della cultura propria del popolo. Se dovessimo cercare il nome di un partito, per spiegare come mai la destra e la sinistra in Italia siano oggi così affini, allora diremmo Democrazia Cristiana.
In effetti, in questa dicitura risuonano le due parole apparentemente più care alla cultura italiana: da un lato, quella della «democrazia», non già nella piena comprensione del suo significato – argomento che verrà ripreso più avanti, nel corso di queste considerazioni; ma nell’idea, comune al popolo, che questo termine legittimi chiunque a dire e fare quel che gli pare e a difendersi da qualunque apostrofo alle loro scelte utilizzando una parola costitutiva del significato di democrazia, e cioè diritto – inteso non in senso prettamente giuridico, ma in quanto legittimazione di un comportamento, come contrapposto al significato di dovere. Il cittadino italiano spesso ama sfidare il prossimo e difendersi affermando di possedere il diritto di farlo.
Dall’altra parte, poi, v’è la parola «cristiana», una parola della quale prendono le difese parimenti i diretti interessati e chi se ne frega di sana pianta, poiché giustifica una provenienza culturale dalla quale non possiamo sottrarci, in quanto costitutiva anch’essa di quel che siamo, che siamo stati, e che dobbiamo essere – termine che evidenzio come accento a un ironico interrogativo.
Con due parole, così, si sottomette un intero popolo. Con due parole decade ogni discussione politica e la si minimizza allo slogan, alle frasi fatte, ai luoghi comuni, da un lato e dall’altro.
«Democrazia Cristiana» è, in verità, una formula paradossale, se si bada. Essa, infatti, non è in grado di mettere in pratica nessuno – sia pure cercandoli con cura – dei presunti lati positivi che possano risiedere in queste due parole. Ed essendo io un sostenitore della democrazia, pongo maggiore accento, rispetto a questo paradosso, sulla seconda parola.
2. Sull’inesistenza della sinistra italiana
Ma perché finire a parlare di democrazia dopo la distinzione dei sani, dei malati, dei vedenti, dei non vedenti, e quant’altro? In realtà, tutte queste cose sono così intrinsecamente correlate che descriverle è qualcosa di segnatamente complesso.
S’è detto al principio che l’infezione è di tipo fascista, quindi è diretta conseguenza che in una tale infezione risieda l’ideologia politica della destra. E con ciò, tuttavia, non si sta annettendo l’intera destra all’erroneo, attenzione. In realtà, l’esclusione della sinistra dall’avere degli estremismi potrebbe sembrare un merito, ma non è così. Sarà da premettere, a mo’ di apologia, che affinché il ragionamento che segue possa essere compreso, bisognerà sempre attenderne la fine, altrimenti qualunque interruzione rischierebbe di incappare nella posizione opposta a quanto sostenuto.
Ancora, in Italia si dice che da un lato stia la destra e dall’altro la sinistra. Storicamente questo è vero, ma oggidì le cose stanno, invero, diversamente. Una delle due, anzitutto, esiste: la destra. Ammetterne l’esistenza non significa escludere l’esistenza concettuale della sinistra, ma significa che, date le circostanze odierne, ciò che appare di quest’ultima non è più in piena conformità con il suo senso concettuale originario. Fin qui è opinione comune e, nella maggior parte dei casi, l’opinione comune può raggiungere pure risultati corretti, ma non sa in che maniera e, quando cerca di spiegarsela, dimostra di non aver compreso assolutamente nulla. Infatti, dietro risultati utili e belli stanno sempre dei ragionamenti ancor più utili e belli; e quando tali ragionamenti sono sottovalutati rispetto ai risultati ha luogo l’incomprensione dei risultati stessi, cosicché le conseguenze da essi derivati, in seguito, risultano incongruenti rispetto alle premesse.
L’esistenza della destra è manifesta non in Parlamento o mediante il più o meno ampio seguito elettorale nelle piazze. Certo, questi parametri non sono da escludere, ma in questa maniera bisognerebbe ammettere che pure la sinistra esista, benché non raggiunga lo stesso seguito, ottemperando a risultati di pari portata. L’esistenza della destra è manifesta, piuttosto, negli estremismi. In altri termini, la destra italiana esiste in quanto il fascismo sta resuscitando. A questo punto sarebbe lecito pensare che l’assenza dell’estremismo comporterebbe, seguendo questa logica, la fine della destra. E senza né destra né sinistra, non rimarrebbe più niente. Le cose, però, stanno diversamente.
Destra e sinistra sono portatrici di ideologie politiche diverse, che trovano un punto d’incontro unicamente nel compromesso politico. Da un lato, la sinistra è rappresentata da: posizioni egualitarie; nazionalizzazione dell’industria, o quantomeno un controllo dell’economia secondo un modello di convivenza tra giustizia sociale e libertà di mercato o, ancora, un’economia pianificata; tendenze anticlericali che pongono a fondamento la divisione fra Chiesa e Stato, soprattutto a partire dal principio della secolarizzazione. Dall’altro, la destra è rappresentata da: posizioni individualiste, con approccio conservatore; un modello economico del libero mercato, diametralmente opposto alla nazionalizzazione dell’industria; un minor interesse verso la questione religiosa e dei suoi rapporti con la politica di Stato e, quando necessario, una visione conservatrice rispetto a cultura e tradizioni.
Questo contrasto basilare è il motivo della divisione ed è pure il principio della lotta sul piano politico. Tale principio, tuttavia, non deve essere inteso sempre nel senso negativo del termine, ma soprattutto e principalmente alla stregua del concetto di confronto, mezzo atto al conseguimento di un certo equilibrio.
La lotta, il conflitto, prevede che le fazioni contendenti dispongano di mezzi se non identici quantomeno simili per fronteggiarsi sul campo. È chiaro che chi disponga di una migliore artiglieria si guadagnerà la vittoria e che, quindi, nel conflitto uno dei due sfidanti possieda tendenzialmente una maggior potenza – a meno che non si dia il caso del pareggio. Con «mezzi simili» s’intende piuttosto affermare che non si darà un conflitto fra una nazione e un cittadino, cosa che tutt’al più sarà chiamata ribellione, sia pure in minima scala: un conflitto, insomma, prevede l’antagonismo fra due parti di natura simile, come ad esempio due uomini, due città, due nazioni, e così via dicendo.
Così, nel caso specifico, se non vi fosse l’estremismo di destra, allora la sinistra tornerebbe a esistere. Dal momento che, tuttavia, esiste l’estremismo di destra, la sinistra non esiste. Infatti, se l’estremismo di destra non fosse presente, allora la sinistra tornerebbe a disporre dei medesimi mezzi per fronteggiare la fazione opposta. Invece, essendo la destra dotata ad oggi di un estremismo, la sinistra non ricopre più una funzione antagonistica nel piano di battaglia, bensì una subordinata. Quando tuttavia un partito politico si trova in una posizione di subordinazione, quel che spesso accade è che esso cerchi appoggio e punti d’incontro con i partiti più potenti, più grandi di lui. Ora, se nei partiti quantomeno affini ai propri per ideologia non si rinviene nulla che abbia un tale potere, l’unica maniera di ripiegare è lo smembramento, la divisione, l’assimilazione a quanto di più vicino possa trovarsi alle proprie idee o ai propri interessi, sia pure non esattamente all’interno delle stesse correnti, delle medesime ideologie.
In Italia ciò accade con molta facilità, poiché le affinità tra le presunte destra e sinistra – presunte poiché ad oggi, personalmente, non ne rilevo una vera e propria differenza, se non in virtù di reminiscenze del passato – coadiuvano all’interno delle posizioni moderate che, poc’anzi, sono finite sotto il nome di «Democrazia Cristiana». Certo, oggi questo nome cade in disuso, è vero. Ma non ha alcuna importanza rispetto alla determinazione della sua esistenza, nei fatti, negli atteggiamenti.
A queste condizioni, quindi, la destra ha il monopolio politico. È chiaro che non si sosterrà che l’estremismo della destra sia controllato dai partiti propri della destra. Esso può pure scaturire da un partito, o dalla somma di più partiti. Come può anche essere il risultato della deriva di alcuni membri. In ogni caso, con estremismo di destra si intende quell’estremismo che fonda le sue idee a partire dall’estremizzazione dell’ideologia propria della destra.
A chi volesse opporre l’idea che, oltre a destra e sinistra, la contemporaneità ha visto l’introduzione di nuove posizioni, talvolta rappresentate da nascenti movimenti che cercano di allontanarsi dalle tradizionali classificazioni, si risponderà osservando che, consciamente o meno, questi sotterfugi altro non sono che la realizzazione delle tentazioni di cogliere al balzo la palla della moderazione italiana, lascito di quella che un tempo si chiamava Democrazia Cristiana, appunto. Che poi abbia convinto chi avesse poca esperienza politica alle spalle o chi fosse stufo di cibarsi della stessa minestra, rivelando a se stesso la sua natura italiota proprio nelle caratteristiche tipiche di questa appena considerata posizione “di mezzo”, quello è un discorso che non ha nulla a che vedere con quanto affrontato in queste righe. Si tratta, in qualche modo, di un fenomeno becero che se merita una parentesi sarà di certo rinviata a un altro momento. Se la meritasse, fra l’altro, sarebbe più per un interesse antropologico culturale che per uno scopo puramente politico. Inoltre, la sua scarsa riuscita è tutta da ascriversi a una mancata considerazione di queste premesse. E se mi venisse obiettato che l’ascesa al governo dimostri il contrario di una scarsa riuscita, osserverò che in questa sede non si analizzano risultati fallaci che non producono cambiamento alcuno, se non in apparenza. Anzi, a queste condizioni una tale deriva rischia addirittura di inasprire questo meccanismo, rendendo le nefaste conseguenze capaci a diffondersi perfino con maggior celerità. Non è un successo, ma piuttosto è l’ausilio al successo di quanto dovrebbe esser contrastato, e sembra che i fatti lo stiano dimostrando a sufficienza.
Per tornare alle considerazioni intorno al disequilibrio rilevato fra destra e sinistra, che vede un sostegno talmente più evidente per la prima da ammutolire quasi del tutto la seconda, sarà ora esposta la ragione per cui s’è definita quest’ultima – la sinistra – come inesistente.
3. L’estremismo a fondamento dell’esistenza
S’è detto che due fazioni esistono quando dispongono di un apparato per fronteggiarsi quantomeno simile, spesso consistente, nella sana politica, in una quantità ben ripartita di elettori. Vista l’attuale situazione, in cui è stato rinvenuto un estremismo di destra, rendendo quest’ultima eminentemente potente, si ha una sorta di monopolio politico e ideologico. Si dirà celermente che l’unico modo che la sinistra avrebbe per tornare ad esistere sarebbe quello di possedere anch’essa, fra i suoi sostenitori, una parte di elettorato con ideologie estremiste.
È chiaro che queste parole non giustifichino in alcuna maniera una qualsivoglia forma di estremismo politico, poiché in esso risiede la massima rappresentazione dell’ignoranza, dal momento che il concetto stesso di estremismo si fonda sull’assenza totale di ascolto rispetto a idee che differiscono, sia pure parzialmente, dalle proprie.
La logica, tuttavia, dimostra che un’auto che corre a una velocità di duecento chilometri orari ha non poche possibilità di battere, in un percorso a tempo, un’auto che può correre al massimo a una velocità di cento. Se, entrando nello specifico si considerasse, com’è notorio, che i neofascisti dispongono di un arsenale da guerra, essi non potranno essere impauriti, né tantomeno sconfitti, da qualcuno che non abbia neppure pistole ad acqua. Diretta conseguenza di ciò è che, in un panorama nel quale nessuno sia in grado di contrapporsi a una nascente autorità, essa disponga di tutti i prerequisiti per avanzare fino ad affermarsi. È necessario, perciò, a queste condizioni, un estremismo di sinistra.
Non si richiede, nella logica di questo discorso, lo scoppio di una guerra fra le fazioni. Quel che accade in questa sede è solo il riconoscimento di un’assenza di sentimento politico. Gli estremi non servono necessariamente per combattersi: essi servono, invece, per bilanciarsi. E si è già sostenuto, d'altronde, che l’assenza dell’estremo vigente tornerebbe a pareggiare la situazione. Tuttavia, dal momento che uno dei due estremi esiste, quel che accade è che il resto, di colpo, soccombe.
Anche le posizioni moderate più vicine alle ideologie dell’estremismo esistente – e dunque i partiti di destra – se non rimboccano le maniche, sono destinate a soccombere. Sicché alla fine lo spazio verrebbe occupato tutto quanto dall’estremismo già esistente e affermato, che abbia operato a sufficienza da inglobare tutto quel che lo circonda. In altri termini, alla destra moderata non resterebbe che fallire, perdendo la fascia di elettori moderati che pian piano inaspriscono i loro animi giungendo tra le file del fascismo; oppure non le resterebbe che scegliere essa stessa di avvicinarsi, gradualmente, magari di soppiatto, a quelle file. I fatti, inoltre, sembra stiano dimostrando a sufficienza che quanto qui è osservato stia già avendo luogo. Così facendo, quel che finirà per accadere, con molta probabilità, è proprio che il fascismo torni in auge.
L’assenza di un estremismo di sinistra non dimostra le buone intenzioni di chi sottende all’ideologia della sinistra, in ogni sua sotto forma: tale assenza dimostra l’inesistenza, oggi, di un vero e proprio sentimento politico di sinistra. Gli stessi sostenitori della sinistra – quelli “sani” di prima, per intenderci, quelli divisi fra vedenti e non vedenti – non sono veri e propri sostenitori di sinistra, ma per lo più sono i rimasugli degli oppositori all’ideologia fascista: questo è il loro punto d’incontro. Questa gente, che sarebbe la prima a fraintendere l’argomento trattato, almeno fin qui, ritenendolo un’assurdità inneggiante a una specie di intolleranza, è quella che, al momento, può ancora salvare la situazione, ma finché non lo farà sarà macchiata di una colpa maggiore di quella dei fascisti stessi: la colpa di non essere intervenuta quando avrebbe potuto.
Essi riterrebbero intollerante quest’argomentazione per il semplice fatto che l’intolleranza, insieme alla democrazia e alla libertà, sono concetti che in verità sconoscono.
Sono le stesse persone che accusano gli oppositori di servirsi di frasi fatte, rispondendo con altrettanti frasi fatte; sono le stesse persone che accusano gli oppositori di promuovere atteggiamenti malsani, promuovendo altrettanti atteggiamenti malsani. A ben vedere, questa gente è la stessa che ad ogni ricorrenza festiva della Liberazione, della nascita della Repubblica, della celebrazione del Lavoro, eccetera, sta in prima fila, inneggiando a coloro i quali ne furono promotori. Essi non sanno che quella gente, se l’avessero conosciuta a loro tempo, così per come sono fatti, l’avrebbero disprezzata. La Liberazione, ad esempio, è avvenuta perché delle persone, quantunque non desiderassero di uccidere nessuno nella vita, uccisero comunque. Questo perché per l’affermazione di un sistema di pace in condizioni opposte, purtroppo, non si può prescindere dalla guerra. E ciò per una ragione molto semplice: in assenza della pace, infatti, v’è la guerra; in assenza di guerra, la pace. Per l’ottenimento dell’una o dell’altra, bisogna logicamente passare attraverso il suo opposto: se voglio ottenere la pace in una situazione di conflitto, devo entrare a combattere nel conflitto per indebolire o persino annientare chi lo sostiene, altrimenti non otterrò che il perpetuarsi di tale conflitto stesso.
Riavvolgiamo il nastro. La sinistra italiana è esistita fintanto che disponesse degli stessi mezzi della destra. E, se si bada, essa ha avuto il suo primato nel momento storico in cui l’estremismo che esisteva – tuttavia altrettanto ingiustificato da un punto di vista etico – scaturiva dall’assolutizzazione della sua ideologia. In quel momento era la destra a trovarsi in una condizione simile a quella in cui oggi si trova la sinistra.
Dunque, per riassumere, la coesistenza dei sistemi politico-ideologici ha luogo o se entrambi dispongono di estremismi, o se nessuno dei due ne dispone.
Tuttavia, a questo proposito, sarà bene tornare al momento in cui si fece il parallelismo con il concetto aristotelico di virtù, poiché fra quelle righe s’è detto che, in questo caso specifico della politica, la posizione di mezzo non è da considerarsi una virtù. Per rendere agevole la comprensione, immaginiamo perciò di avere un segmento che vada dall’estremismo di sinistra alla moderazione e uno che vada dalla moderazione all’estremismo di destra. Sia da un lato che dall’altro estremismo e moderazione sono da intendersi come dei vizi e la virtù sarà la posizione di mezzo. Il motivo per cui la moderazione sia da intendersi come un vizio, però, sarà affrontato più avanti, per necessità dialettica.
4. Elettori di sinistra e incomprensione di tolleranza, democrazia e libertà
A questo punto sarà invece il caso di considerare quei concetti che ho affermato non esser chiari ai sostenitori della sinistra che, in ordine, erano quello di tolleranza, di democrazia e di libertà. Essi risultano, invero, assolutamente interconnessi, al punto che uno stesso discorso potrebbe essere sufficiente a sviscerarli tutti quanti, così come, alla stessa maniera, nessuna argomentazione risulterebbe sufficiente.
Della tolleranza parlò Karl Popper, con il suo famoso e impeccabile paradosso, che spiegava che la tolleranza non può tollerare tutto, poiché se così facesse dovrebbe tollerare l’intolleranza e da essa verrebbe annientata. Quindi, il risultato logicamente più evidente di questa legge è che la tolleranza potrà tollerare tutto meno che l’intolleranza, e quindi meno che ogni cosa che manifesti tratti di intolleranza.
La democrazia, poi, ha come significato etimologico il rinvio al governo del popolo, alla decisione popolare, sebbene i numeri odierni non ne permettano la piena realizzazione, come accade – o meglio, accadeva – all’interno di comunità ridotte.
La libertà, infine, rappresenta la caratteristica di ciò che non è necessitato da null’altro all’infuori di se stesso; ma essendo questa una terminologia impropriamente non familiare ai più, e riferendosi più a un concetto ontologico che politico o sociale, si dirà che la libertà, com’è comunemente intesa, è la condizione di chi non sia schiavo di nessuno e possa agire secondo il suo piacimento, avendo come limite il limite stesso definito dallo spazio di azione di qualcun altro. In sintesi, essa è l’esercizio di uno stato di autonomia rispetto al proprio pensare e agire, che si estende fin dove non si rischi di intaccare quello altrui – luogo, questo, in cui essa smetterebbe di esistere.
Tornando a quelli che sono stati definiti "sani", essi sono quelle persone incapaci ad accorgersi delle caratteristiche che, nelle idee, nelle persone o nei gruppi, costituiscono un rapporto con la tolleranza, la democrazia e la libertà. Un esempio molto banale, particolarmente evidente nella realtà odierna, potrebbe esser questo: molta gente considera che molta altra gente, tendente ad affermare le sue posizioni in assenza di fondamenti logici sufficientemente esaustivi, sia da perdonare, in qualche maniera, dicendo che essa purtroppo sia fatta così e che ci sia poco da fare. In altri termini, nella tipica chiacchierata da bar, il più delle volte, l’interlocutore sano cede a quello malato, non ritenendo di poter condurre oltre la discussione, o meglio, non ritenendo che tale discussione porti a un fine auspicabile. Dinanzi a questa situazione vi sono almeno tre casi da considerare: o chi fa questa considerazione è totalmente disinteressato ai propri diritti e dunque all’affermazione della propria libertà; o chi fa questa considerazione pone se stesso in una condizione di superiorità rispetto all’altro, interrompendo la discussione poiché ritiene l’interlocutore incapace a comprendere; o chi fa questa considerazione ha il problema che affibbia a colui il quale sta riferendosi, ossia quello di non essere poi così intelligente e disposto al confronto. Ognuno di questi casi, in una maniera o nell’altra, condivide con l’altro l’incapacità di vedere le cose nel lungo termine.
Nel primo caso, il problema incorrerebbe nella gravità, riguardo al soggetto, di non partecipare alla vita della comunità privandosi, appunto, di ogni suo diritto. In questo caso egli non sarebbe da meno di un Ponzio Pilato nel lavarsi le mani di ciò che gli succede attorno quotidianamente. Ma ciò che lo renderebbe un Pilato del tutto singolare sarebbe il fatto di non stare mandando a morte soltanto qualcun altro, ma allo stesso modo se stesso. Infatti, questa forma di strafottenza, il più delle volte, ha luogo in quelle persone che non pensano sia possibile ottemperare a un cambiamento, oppure in quelle persone alle quali, data la propria condizione sociale, non interessa affatto. Essi tuttavia non si rendono conto che gli effetti del lungo termine non causerebbero il semplice mantenimento della situazione, ma piuttosto la altererebbero ulteriormente peggiorandola. Solitamente questa gente è molto vicina alla posizione del moderato, del centrista, così per come lo intendiamo comunemente. Questi individui escludono loro stessi a causa del disinteresse verso la comunità di appartenenza. In questa guisa, essi dovrebbero, per coerenza, astenersi dall’emanare qualunque giudizio sulla società, poiché tutto nell’uomo è strettamente correlato alla società in cui nasce e vive. La loro perdita di diritti ha luogo nell’astensione dal difenderli, motivando le ragioni a sostegno delle proprie opinioni. A ben vedere, infatti, nel lungo termine, accade che l’interlocutore infetto ottenga il diritto d’intendere la fine della discussione come il suo trionfo, non essendosi ritirato egli stesso dal dialogo. Avendo lungimiranza, si evince come una somma di condizioni analoghe favorirebbe numericamente la fazione che meglio sintetizzi le idee di un tale interlocutore, rendendo numericamente superiori i malati e restituendo loro, collettivamente, un maggior peso decisionale. Tale peso determinerebbe, infine, la loro vittoria sugli oppositori sani e, consequenzialmente, questa vittoria garantirebbe loro, democraticamente, un primato decisivo. Questi elettori sani, così, si troverebbero a doversi sottomettere alla volontà di quegli altri, dovendo sottoporre le loro opinioni a quelle dei vincitori, senza poter più scegliere.
Il secondo caso è quello che diverte di più per incongruenza logica. Tendenzialmente, infatti, chi è di sinistra lo è proprio sulla base di quegli ideali di libertà, tolleranza e democrazia, di cui s’è accennato. È disgustoso rendersi conto, tuttavia, che queste persone vivano di slogan più di coloro ai quali si oppongono. Infatti, se davvero si desse il caso di considerare il nostro interlocutore inferiore a noi, ciò non sarebbe un problema fintanto che accadesse all’interno del nostro pensiero, poiché gli uomini – come una volta ebbe a scrivere pure Hobbes – possiedono un po’ quella sensazione per la quale ciascuno ritenga se stesso superiore a ogni altro. Ma se, invece, lo si dicesse apertamente – e questo è il caso in esame, poiché, a ben vedere, è il più diffuso nella situazione odierna – allora si starebbe ammettendo, di fatto, di essere superiori all’interlocutore. In questa maniera, per come la logica comanda, la democrazia perisce. L’essenza delle democrazie odierne si basa sulla maggior quantità di diritti da garantire a un cittadino, nel limite del possibile. La più grande conquista, in questo senso, è stato il suffragio universale. Così lo sono i risultati delle lotte per i diritti di chiunque abbia diverse inclinazioni sessuali, diverse confessioni religiose, e quant’altro. Alla base di ognuno di essi, come s’evince chiaramente, v’è dunque la nozione di uguaglianza. Tale nozione, tuttavia, viene meno nel momento in cui si ritenga il nostro interlocutore inferiore a noi, levando mano alla discussione, per il fatto che non si possa giungere a un punto d’accordo. Ciò che accade, infatti, è che io e il mio interlocutore, dal mio punto di vista, non siamo parimenti abili nel condurre ragionamenti logici, non siamo più sullo stesso piano, non siamo più uguali. Benché gli uomini possano, tuttavia, non essere ritenuti tutti uguali in quanto a caratteristiche e intelligenza, qui ci si riferisce ovviamente a un’uguaglianza ontologica, un principio fondamentale affinché non si scada mai nella sottomissione di un uomo da parte di un altro uomo. Questo principio fondamentale è, fra le altre cose, il punto focale di ogni lotta contemporanea per il progresso sociale: l’uguaglianza sotto ogni aspetto, senza alcun limite, unico mezzo per poter mondare la democrazia rendendola sempre più perfetta. Ma la cosa ancor più assurda è che ad innescare questo meccanismo siano coloro le cui posizioni dovrebbero favorire l’opposto. Si è infatti detto che l’ideologia di sinistra si fonda, fra le altre cose, sull’egualitarismo. L’uguaglianza, un sostenitore di tale ideologia, dovrebbe favorirla e non distruggerla.
Il terzo caso è quello di chi, in fin dei conti, non differisca poi molto dalla gente che ha dinanzi – o, almeno, dal modo in cui ritenga che sia. A ben vedere, questo terzo caso non è sempre isolato, ma ad esso spesso conducono i primi due. Anzi, si potrebbe avanzare che l’affermazione dei primi due abbia proprio questo terzo come diretta conseguenza. Infatti, lasciare in mano al proprio interlocutore – che non si ritiene possieda delle idee adatte alla condizione del caso – la discussione e, quindi, la vittoria della stessa diatriba, significa lasciare a questi il governo di se stessi – esattamente per come fu notato nell’analisi del primo caso. Se, in altri termini, io lasciassi una discussione a metà, o perché non mi paia importante (primo caso), o perché non ritenga l’interlocutore all’altezza di comprendere (secondo caso), lascerei, di conseguenza, la vittoria a questi che, a quel punto, avrebbe tutto il diritto di esercitare il suo potere su di me. Infatti, la sua piccola vittoria, intesa nel grande panorama di tante altre, conduce alla grande vittoria di quel tipo di elettorato che incarna, cosicché il risultato conseguente sarebbe l’ascesa dei suoi ideali e, quindi, l’affermarsi del suo potere sulla società. Tale affermazione avrebbe, come logica conseguenza, la sottomissione di chi la pensi diversamente. Non necessariamente una sottomissione forzata – cosa che avrebbe luogo se ad affermarsi fossero le posizioni degli estremisti; ma semplicemente la (democratica) risultante vittoria delle posizioni malate su quelle sane, che per riaffermarsi dovranno aspettare un altro momento. Che la sottomissione vera e propria abbia luogo dinanzi a un’autorità intollerante o meno, insomma, si tratterebbe sempre di sottomissione, anche in questo caso in cui, pur mantenendo la libertà di esprimersi, la propria espressione sarebbe limitata da una rappresentanza notevolmente inferiore rispetto a quella del gruppo opposto.
Tutti questi casi, si presti attenzione, sono stati trattati come isolati. Essi, tuttavia, nella loro grande molteplicità non hanno nulla di isolato e quotidianamente alimentano una crescita esponenziale degli oppositori infetti. Quel che accade, così, è che tali oppositori formino indirettamente una squadra massimamente compatta di persone che, all’apparenza sono più inconsapevoli – e magari sarà anche così – ma che tuttavia dimostrano una maggior consapevolezza rispetto a chi ceda alla loro pazienza nel discutere, scegliendo un’altra strada, non dimostra di possedere.
Così, vengono distrutte parimenti democrazia e libertà: la democrazia viene distrutta dalla disuguaglianza, la libertà oltrepassando i suoi limiti. La prima, infatti, perisce nel momento stesso in cui io non riconosco il mio interlocutore alla mia altezza e la conseguenza è che a perderci sono sempre io, poiché sono colui che cede la tribuna a quelli che, benché possa ritenerlo meno intelligente, abbia avuto più pazienza. La seconda, poi, perisce nel momento stesso in cui abbandono quella tribuna, perché, non ritenendo abbastanza intelligente il mio interlocutore, allora automaticamente lo ritengo innocuo, e così sto deliberatamente lasciando che il mio spazio di pensiero e azione venga calpestato da lui. E, di nuovo, a distruggere questi primi due concetti è stato proprio colui il quale fonda la sua intera assimilazione ideologica su di essi.
5. Gelosia e puerilità dell’elettorato di sinistra
La sinistra, così per come appare, produce una quantità inestimabile di scissioni interne, sia nella linea di quelle dichiarate ufficialmente, ossia quando un membro di un partito si sposti in un altro o addirittura ne fondi uno nuovo, sia per quelle delle chiacchiere da bar – discussioni spesso sottovalutate. È come se avesse smarrito del tutto una coscienza comune.
In questo secondo caso, quello della chiacchiera da bar, la scissione non è dichiarata e, ovviamente, non possiede alcuna ufficialità. Essa si manifesta nel fatto che due interlocutori di questo dominio, pur condividendo opinioni fondamentali, e cioè quelle che li rendono assimilabili a una corrente pressoché analoga, intesa genericamente come ideologia di sinistra, sono in grado di odiarsi vicendevolmente in maniera molto superiore di quanto non siano in grado di odiare i loro oppositori in medesime circostanze. In questo aspetto è da rintracciare, preliminarmente, un fondamento psicologico. Infatti, questi due interlocutori si ritengono, in qualche maniera, dei pari, o in ogni caso qualcosa di molto simile. Benché essi condividano le stesse idee – o almeno, ripeto, per sommi capi, rispetto ai punti fondamentali della dottrina – non riescono a produrre in se stessi la stima necessaria e dovuta verso l’altro. A ben vedere, il motivo è di natura competitiva e, in un certo senso, ha a che fare non soltanto con loro, in quanto elettori con pensieri simili, ma ha a che fare altresì con l’umanità nella sua interezza.
Gli umani, infatti, fondano la loro comunità a partire da una necessità naturale, cioè quella di non poter sopravvivere isolatamente, come riescono a fare molte bestie da preda. Dunque, il motivo della loro aggregazione non è da rintracciarsi nella volontà di aggregarsi, ma nel fatto che non esistono altre possibilità. Essi, in altre parole, non si amano, ma anzi il più delle volte si odiano senza fine, quasi come se una base di misantropia fosse naturalmente insita nell’essere umano; e tuttavia non hanno altra scelta, poiché scegliere di non far parte di una comunità più o meno grande significa morire.
Gli umani, quindi, così come non sopportano che certi individui nella loro società siano talmente inetti da non comprendere certi meccanismi elementari che stanno dietro a diversi punti di vista, allo stesso modo odiano chi li abbia compresi, poiché perdono il primato di essere gli unici detentori di una capacità di questo tipo. Tante volte – e ognuno potrà notarlo in se stesso – capita che smettiamo di interessarci incessantemente a qualcosa quando sappiamo che essa non è più di nicchia come quando l’avevamo scoperta e solo noi ne eravamo a conoscenza, o credevamo di esserlo. La medesima cosa che accade con i contenuti, come in questo caso, accade anche con la forma, e dunque con il metodo per comprendere qualcosa. In questi casi sembrano innescarsi contemporaneamente almeno due meccanismi di auto-isolamento: uno, quello rispetto alla persona che si scopre essere a conoscenza della cosa la cui esclusiva detenzione la rendeva singolare rispetto all’altro e a tutti gli altri; l’altro, quello del non voler essere etichettati mediante dei criteri preconfezionati, come delle ideologie, delle correnti, dei gruppi specifici, e via dicendo.
Ma vi è più di un esempio di auto-isolamento. In altri termini, la maggior parte della gente che senta più grave il peso di doversi differenziare dal suo prossimo – cosa che, s’è visto, accade per lo più in merito al sapere qualcosa – non ama affiancare le proprie idee a delle ideologie predefinite, appunto. In qualche maniera ciò è giusto, poiché esisterebbero innumerevoli motivi per cui rigettare il criterio generico dell’ideologia, ma nel meccanismo della politica è assolutamente necessario, almeno date le attuali condizioni, se non il render conto a qualcuno, quantomeno il render conto a se stessi circa quale sia la propria posizione. È necessario, insomma, esser coscienti e saper riconoscere se le proprie idee affianchino sommariamente la destra o la sinistra. E non vale neppure la pena analizzare l’obiezione di chi definisca queste posizioni anacronistiche, perché questi o non comprende il significato del concetto di anacronismo, oppure non riesce a separare le ideologie politiche dalle azioni degli uomini politici. Sovente accade, difatti, che quando si aprano diatribe becere tra generici fascisti e antifascisti si tendano ad assimilare i secondi ai comunisti, quasi come a voler creare un’analogia con il fascismo: in che maniera, mi sia perdonato, si pensa di stare parlando della stessa cosa con colori diversi? Ripetiamo: si separino le ideologie dalle azioni degli uomini politici. Volendo adempiere a ciò, allora dovremmo dire non che il comunismo sia, come di fatto è stato, perfino peggiore del fascismo; ma bisognerebbe dire che, come al solito, mentre l’estremismo di destra ha saputo ben adempiere ai propri ideali e alla propria ideologia di partenza, quello di sinistra non soltanto non abbia neppure sfiorato per un attimo il suo stesso pensiero, ma nelle azioni lo abbia perfino capovolto, riducendosi a compiere massacri pure peggiori – e i numeri lo hanno mostrato chiaramente – dei fascisti e dei nazisti uniti. Tuttavia, se qualcuno abbia un’infarinatura basilare del concetto di comunismo, si guarderebbe bene dal generare una miscellanea di scemenze servendosi dello stalinismo o di altre circostanze analoghe, come vale tutt’oggi per la Cina, perché saprebbe bene di stare mentendo nel dire che quello sia stato o sia il comunismo nei termini della sua propria ideologia. Possiamo scegliere di chiamare pietra un pezzo di legno e farlo per talmente tanto tempo da cominciare a confondere la parola «pietra» come sinonimo della parola «legno», ma leggendo il vocabolario dovremmo giungere ad accettare di avere torto, perché i due termini non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altro.
Ma tornando a chi usa parole senza saperne il significato, in questa grande bipartizione tra individualismo ed egualitarismo, tra liberismo e statalizzazione, tra conservatorismo e progressismo, dov’è l’«anacronismo»? I gentili lettori, in altri termini, sapranno se dei diritti degli altri freghi loro qualcosa o se preferiscano vedersela con loro come un antagonisti, sapranno se questo libero mercato senza freni li appaghi o se preferirebbero sia pure un minimo controllo dei limiti da parte dello Stato: essi vivranno in una società, immagino, e non nella savana tra i leoni.
Io credo, credo fortemente, che si tratti di una scusa per ovviare a una questione di responsabilità: oggi, appare chiaramente che la gente non sia più in grado di assumersi la responsabilità delle proprie idee e della propria posizione. Oggi, il nichilismo ha colpito la politica in maniera irreparabile, poiché nessuno vive e, dunque, sarebbe in grado di morire, per le proprie idee. Forse per il denaro, ma non più per le idee – non qui da noi, almeno.
Tornando sui passi dell’analisi, è da aggiungere che la maggior parte della gente che si faccia promotrice dei valori di sinistra è distinta da un particolare interesse verso il sapere le cose. Ciò per una ragione molto semplice: e cioè che quei valori sono stati maturati e celebrati da personalità che approdarono ad essi attraverso un uso educato della ragione, educazione che avviene tendenzialmente attraverso lo studio e la conoscenza. Vi sono più di una ragione dietro a una condizione del genere, ma quella principale di solito ha a che fare con ragioni estetiche, in senso filosofico. A questa maggior parte delle persone non piace identificarsi come elettori di sinistra. E quanto sia diffuso il piacere dell’essere un apolide rispetto ad avere una patria ideologica e politica, lo dimostra che questo atteggiamento è divenuto esso stesso un luogo comune. Che esso sia divenuto tale lo dimostra, a sua volta, l’imitazione da parte di gente che se ne serve, inconsapevolmente, soltanto per preservare il suo sacrosanto – quantunque assolutamente curioso – diritto di lamentarsi. La parola “curioso” è stata posta fra parentesi poiché qui si fa riferimento a quella gente di cui bisognerebbe lamentarsi, insomma, e non quella che avrebbe coerentemente diritto alla lamentela.
Nelle schiere della nebbiosa sinistra, proseguendo, nessuno vuole ammettere d’esser di sinistra. Questa gente è affetta da una malattia che li pone in un’incondizionata necessità di differenziarsi dagli altri, ad un punto tale da non riconoscer più fin dove ciò sia utile e dove diventi segnatamente depauperante. È un meccanismo complesso e molto contrastante quel che sta dietro a ciò e nondimeno è quanto vediamo succedere quotidianamente.
In questa maniera, l’elettore di sinistra, molto più legato al sostenimento delle idee da motivi quasi sacri, a differenza dell’elettore medio di destra che è tendenzialmente rivolto per lo più unicamente al proprio benessere, è più tendente a odiare i suoi simili. Si nota spesso quanto queste coscienze di sinistra siano più propense ad apostrofare i loro “compagni” sulle virgole dei discorsi al contrario di quanto non siano sdegnati dall’erroneità dei discorsi dei loro oppositori. Così facendo, essi non riescono quasi mai a trovare un accordo sufficiente a maturare la necessaria compattezza per divenire un vero e proprio gruppo. E in assenza di un gruppo è chiaro che non ci si possa porre come antagonisti di un altro gruppo. Lo si potrebbe fare, diciamo, ma sarebbe quanto mai inutile, poiché numericamente – e quello di numero è un concetto fondamentale nel suffragio universale – non sarebbero in grado di sostenere i colpi dell’avversario. Quel che scaturisce, così, è una quasi totale assenza di coesione all’interno degli attuali gruppi politici uniti dall’ideologia della sinistra.
6. La fenice di sinistra
Prima di analizzare l’altra parte, il concetto di gruppo di sinistra necessita di essere sviscerato ulteriormente.
Se si presta attenzione, infatti, la sinistra ha trovato compattezza quasi sempre nelle più evidenti condizioni di disagio sociale. Ogni volta che si è toccato il fondo, insomma, si è riesumato un gruppo le cui dottrine appartenessero, o comunque si avvicinassero maggiormente, all’ideologia di sinistra. Essa, insomma, si comporta come una fenice, poiché nasce dalle ceneri: dalle ceneri delle macerie, alla fine delle catastrofi, come forma di consapevolezza comunitaria.
L’esempio più vicino, nel caso dell’Italia, è rappresentato dal dopoguerra. Si è sostenuto poc’anzi che molti problemi dell’odierna sinistra italiana sono da ascrivere a una mancata coscienza sociale. A ben vedere tale coscienza ha trovato la sua massima affermazione, al contrario, proprio nel dopoguerra. La guerra, infatti, ha visto la netta distruzione dei valori della tolleranza, della democrazia e della libertà, rendendo ciascuno necessitato da un’autorità, ponendolo in condizioni più o meno critiche, facendo provare a taluni la fame e ad altri esponenziali disagi di altra natura.
Quando l’uomo vive in una condizione di agio egli non pone più attenzione ai motivi che fondano una tale agiatezza, ma piuttosto li relega all’oblìo. Chi nasce in una tale condizione di agiatezza sociale, inoltre, ha maggiori difficoltà a concepire questi motivi e necessita pure che qualcuno lo educhi alla loro comprensione – sia questi la famiglia, la scuola, o l’intera comunità a cui appartiene.
Il disagio provoca, dal canto suo, la necessità del suo superamento. Tale necessità si attua mediante l’uso dell’intelletto e della riflessione, che tornano a considerare quanto era stato posto nel dimenticatoio, o addirittura quanto non si era mai considerato fin lì. Così, si fondano atteggiamenti cooperativi che portano alla nascita di una coscienza comune le cui azioni sono tese al superamento del disagio e alla sua ricostruzione nei termini di una vita dignitosa che, nel tempo, diviene pure agiata. Questa coscienza si manifesta, quindi, nell’affermazione o nella riaffermazione dei valori della tolleranza, della democrazia e della libertà; e, soprattutto, nella comprensione che i singoli non possano prescindere dagli altri per la propria sopravvivenza. Infatti, non soltanto la cooperazione necessaria ha bisogno di tali valori per essere attuata in maniera funzionalmente efficace, ma allo stesso modo la necessità di quei valori si rende esperibile nell’aver vissuto la privazione di essi su se stessi.
Il dopoguerra italiano, quello che ha immediatamente restituito al paese la sua carta fondamentale, la Repubblica, il suffragio universale, eccetera, è la rappresentazione perfetta di una condizione di questo tipo. E sono tali ragioni appena esposte a permetterci oggi di elogiare in ogni maniera gli intellettuali e i politici che quel periodo ci ha regalato. Si toccherebbe un punto estremamente delicato affermando che, con molta probabilità, quelle persone non sarebbero state nulla di diverso dai politici d’oggi se avessero vissuto questa nostra realtà contemporanea. E allo stesso modo quelli d’oggi avrebbero certamente scritto una, se non identica, comunque magnifica Costituzione se fossero stati reduci da una simil condizione di miseria e se, quindi, avessero orientato le proprie vite in tutt’altre direzioni rispetto a quelle verso cui oggi dirigono se stessi.
7. Destra naturale e sinistra artificiale
Un ragionamento del genere inoltre produce un risultato evidente che sdegnerà oltremisura coloro i quali patteggino per la politica di destra in generale. Infatti, quanto fin qui considerato mostra che gli ideali di sinistra sono essenzialmente quelli più coerenti secondo ragione, affinché si possa produrre un’etica che non crei discriminazioni e avversità fra gli individui. Si dirà piuttosto che, a far scaturire i pensieri opposti, sia la crescente misantropia che ne viene emotivamente.
La sinistra si sceglie razionalmente e si abbandona emotivamente. La sinistra sta stretta quando, per un motivo o per un altro, si odia la convivenza con il prossimo. Così per com’è fatto l’essere umano la sinistra non gli è naturale, ma necessaria. La destra, o almeno i punti fondamentali della sua dottrina, sono molto più naturali, e sicuramente molto soddisfacenti nel breve termine: tuttavia, sono estremamente lesivi nel lungo. Infatti, quanto scaturisce da quest’odio verso il prossimo non è più un interesse comunitario, bensì un interesse individuale e, a ben vedere, uno dei principi dottrinali su cui è fondata la dottrina della destra, in generale, è proprio l’individualismo, una ricerca di autonomia rispetto alla collettività.
La destra, in questo senso, intrattiene similitudini molto più marcate con l’utopia anarchica, che se potesse aver luogo sarebbe forse il sistema migliore che possa esistere. Ci si aspetta, in entrambi questi punti di vista, che gli uomini siano in grado di autoregolarsi. La forte differenza, tuttavia, sta nel fatto che l’anarchia promuoverebbe la convivenza sempre su un interesse condiviso ed esteso all’intera comunità, mentre la destra tale interesse lo indirizzerebbe, coerentemente ai suoi ideali, al proprio benessere, alla riuscita del singolo individuo, costi quel che costi. Quest’ultima, insomma, vorrebbe una quieta convivenza in un meccanismo di incessante competizione e il suo lato più negativo, ma al contempo più naturale, sarebbe quello di promuovere un atteggiamento predatorio fra gli uomini. La naturalezza – che ribadisco – di questo atteggiamento, tuttavia, rende la destra più conforme all’umanità così per come essa tende a essere secondo natura: l’umano è spontaneamente di destra. [Come sorga questo atteggiamento predatorio è qualcosa che potrebbe esser rintracciato benissimo nelle riflessioni di Thorstein Veblen, benché esse non abbiano nulla a che vedere con espliciti riferimenti a fazioni politiche, ma per lo più con quanto concerne l’apparato economico della comunità – la conformità con l’argomento qui trattato, tuttavia, sta nel fatto che l’apparato economico dell’Occidente è essenzialmente retaggio della destra].
Il nostro modo più naturale di comportarci, nondimeno, deve essere riequilibrato dall’atteggiamento razionale, che conferisce la consapevolezza comunitaria. La ragione suggerisce che, quantunque la comunità e la condivisione non siano gradevoli emotivamente e non restituiscano dei piaceri immediati evidenti, esse devono essere salvaguardate, poiché nel lungo periodo si renda manifesta una maggiore gradevolezza. In altri termini, in forza di ciò che è stato considerato riguardo al quasi naturale odio – o sarebbe meglio “non amore” – di ogni individuo verso ogni altro, appoggiare la destra sarebbe favorire la fine della comunità, mentre appoggiare la sinistra sarebbe l’unica maniera di tenerla a galla.
Tuttavia, l’elettore di sinistra, umano tanto quanto quello di destra, è caratterizzato parimenti da una certa misantropia costitutiva, che è pure acuita dallo studio e dalla conoscenza. Così, accade sovente che la gente di destra, nella sua strafottenza, sia tendenzialmente più piacevole nei gruppi, più giocosa e simpatica agli altri; mentre, al contrario, a tentare storicamente di salvaguardare l’egualitarismo non siano che coloro i quali si impegnino semplicemente a sopportare gli altri. Il grande paradosso è dunque che colui il quale, di destra, appaia istintivamente più incline allo stare insieme non sia che quelli che si interessi dei propri affari e promuova una visione sociale individualista; mentre il pedante, saccente, talvolta burbero, misantropo di sinistra, che agli altri non dispiacerebbe potergliele dare di santa ragione, risolve i suoi interessi nella promozione dei diritti di tutti. E oggi ciò è estremamente evidente nel rilevare che coloro i quali riesumerebbero volentieri l’autoritarismo, apparentemente attaccati dagli oppositori, sono in realtà da questi difesi: difesi dalla sragione di se stessi. Il malato che invoca con il saluto romano alla dittatura fascista, infatti, sta auto-distruggendo la propria possibilità di esprimere simili opinioni; colui il quale gli si opponga, in realtà sta cercando di aiutarlo a non sabotarsi da solo, a non auto-sabotarsi, potendo perpetuare la sua possibilità di continuare a sostenere le proprie scemenze.
Certo, ciò non avviene per altruismo, ma perché nella visione sinottica dell’elettore di sinistra v’è la comprensione che un diritto per gli altri significhi un diritto per se stessi. Ma queste non sono considerazioni riguardanti l’altruismo e l’amore per il prossimo – o almeno non qui, in questa sede.
8. La naturale compattezza dell’elettorato di destra
Riconnettendoci a quanto rimasto interrotto, dall’altro lato, si diceva, sta poi il gruppo dei malati, quello formato dalla gente che dalla destra sta sempre più accentuando dei tratti fascisti.
La compattezza di questi ultimi si ricava con assoluta semplicità. Notiamo, infatti, soprattutto nel dominio delle discussioni da tastiera nella comunicazione virtuale, che essi non sono quasi mai tendenti a contrapporsi, a dirsele tra loro insomma, quanto non lo siano i partecipanti alla fazione opposta. Il più delle volte essi trionfano uniti, sia pure senza rendersene assolutamente conto, in uno stato di totale inconsapevolezza: eppure, quest’incoscienza raccoglie sempre i suoi frutti. Essi sono, in altri termini, talmente concentrati sui nemici che non hanno né tempo né interesse di prendersela con gli “amici” – o quantomeno con i loro simili. Quel che ne deriva è un’eminente superiorità, una forza notevolmente maggiore.
Poc’anzi ci si è riferiti alla presa di potere di questi ultimi sul cittadino sano, nel momento in cui la trattazione poneva l’attenzione al modo in cui il sano perda, per sua stessa mano, la propria libertà. Ci si potrebbe chiedere in che maniera avvenga una tale perdita, in che maniera, quindi, perisca la libertà del cittadino sano. Se si presta attenzione si riconosce immediatamente quanto la risposta sia, nella sua consequenzialità, altamente tautologica. Infatti, s’è appena discusso di come questi atteggiamenti finiscano con il condurre a una compattezza del gruppo infetto quantomai maggiore rispetto a quella del non infetto. Si è pure detto che non soltanto in termini di compattezza, ma soprattutto nei termini della stessa affermazione del gruppo, tale meccanismo produca risultati efficaci soltanto nelle schiere dei malati. Nel panorama democratico del suffragio universale, e quindi nella circostanza in cui i cittadini sono chiamati a scegliere, la maggioranza sarà composta necessariamente da questi ultimi che, come ovvia conseguenza, non soltanto otterranno una rappresentanza, ma probabilmente saranno così simili nella preferenza che tale preferenza deterrà un vero e proprio monopolio politico. Infatti, perché gli altri elettori evitino non soltanto di perdere ma soprattutto di stra-perdere, non è soltanto necessario che votino contro gli oppositori, ma che conducano i loro voti tutti verso un medesimo partito, senza scindersi ulteriormente in diversi gruppi. Quel che deriva da tutto ciò, a ben vedere, non è altro che l’ascesa dell’infezione, senza che essa getti la benché minima goccia di sudore.
La compattezza del gruppo malato e la deriva fascista considerata in precedenza che, così facendo, assorbirà necessariamente la destra intera, porterà l’estremismo a divenire una vera e propria autorità reale. La piena autorità dell’estremismo, a sua volta, nella maniera in cui è stato presentato fin da principio, altro non è che l’ascesa dell’intolleranza. In altri termini, l’affermazione dell’estremismo coincide con la piena realizzazione dell’intolleranza. Affinché ciò non avvenga, quindi, questo meccanismo dovrà essere evitato alla radice. Tale radice è stata identificata in quell’impazienza dell’elettore sano che si manifesta quasi sempre nel dialogo con l’elettore malato. Allo stesso modo, essa si ritrova nell’incapacità dell’elettore sano di cooperare con altri elettori sani, consapevoli quanto basta per osteggiare gli oppositori.
Quel che avveniva, se si ricorda, è che l’attività politica – che si estende dalla semplice discussione da bar, alla più grande manifestazione, ai vertici istituzionali – viene abbandonata. Benché un tale individuo possa credere infatti di starla preservando, di voler evitare, come si suole dire, egli non sta mettendola da parte per momenti più felici, ma la sta letteralmente annientando del tutto.
Ciò non costringe ognuno a dover vestire i panni del politico dal giorno alla notte pur avendo altre mansioni nella società, si badi. Si evince con chiarezza che basterebbe il semplice sostegno al proprio gruppo, a quello che rappresenta per lo più – non esattamente – le proprie idee, per non lasciare che una tale missione di opposizione politica fallisca. La differenza fra un politico e un qualunque cittadino, infatti, sta nel fatto che il politico non può scegliere a chi render conto, ma dovrebbe parlare indistintamente a ognuno, mentre un normale cittadino, in questo senso, può scegliere quel che gli pare. E ciononostante, per chiudere queste brevi considerazioni che sicuramente troveranno maggior respiro più avanti, questo non vuol dire che il cittadino possa astenersi dalla partecipazione alla politica della sua comunità di appartenenza – a meno che non voglia, dichiaratamente, perdere ogni diritto, cosa che sembrerebbe quantomeno assurda.
Riguardo a questo sostegno al proprio gruppo, specificato nel sostegno non necessariamente verso un gruppo assolutamente convergente con il proprio pensiero ma che rappresenti quanto più possibile le proprie idee, c’è qualcos’altro da dire. Una cosa fondamentale da dover considerare è infatti che le persone hanno una abitudine a definirsi aderenti a un’ideologia finché i partiti che dovrebbero rappresentare quell’ideologia siano conformi alle loro idee. Tuttavia, questa cosa è insensata. Infatti, se così fosse allora a ogni minimo cambio di azione di un partito chiunque si trovi in contrasto con esso dovrebbe cambiare costantemente ideologia. Quel che accade, in una situazione di questo tipo, è invece che sia il partito a uscire dai termini del patto ideologico con il cittadino e, dunque, a estraniarsi dall’ideologia.
Se il partito x che rappresenta la sinistra, ad esempio, promuove una riforma più affine all’idea del partito y di destra, allora non bisognerà dire che chi è di sinistra non si ritrovi più nella sinistra, ma che piuttosto non si ritrovi nel partito x. È infatti quest’ultimo a non trovarsi più, benché possa non volerlo ammettere ad altri o a se stesso, nella sinistra. Questo breve inciso potrebbe sembrare una considerazione superflua, ma meglio aggiungere considerazioni in abbondanza che viceversa. La realtà di ogni giorno, quella con cui queste parole vogliono fare i conti, manifesta in diverse occasioni una condizione di questo tipo. Tante, infatti, sono le volte in cui si sentono persone generalizzare pure rispetto alle proprie opinioni. Altrettante volte capita che si senta dire a qualcuno di non essere più di sinistra, appunto, quando la realtà è semplicemente che egli non sia più ideologicamente congruente con il partito, nato come partito di sinistra, che appoggiava a suo tempo. L’importanza di questa considerazione, infine, sta nel fatto che questo atteggiamento ha come conseguenza quella di affermarsi come oppositori alla dottrina per colpa delle avvenute circostanze – proprio come avviene per la miscellanea trattata poc’anzi tra ideologia e azione politica. Così, per non correre il rischio di esser considerati ipocriti, quel che accade è che un tale elettore, dopo essersi mosso all’interno di altre file, avrà molta più difficoltà ad appoggiare nuovamente lo stesso partito, se esso dovesse ripensarsi, o un altro partito, o ancora un nascente partito che siano di sinistra. È certo che alla base si inneschi pure un meccanismo concernente la fiducia, una lesa fiducia, insomma. Su quello, invece, v’è poco da fare e poco da dire, poiché la fiducia rimane comunque una tensione molto intima e soggettiva con cui ognuno può e deve fare i conti autonomamente.
L’affermazione del gruppo malato, con questa sua tensione odierna, sempre maggiore, verso l’estremismo produce come effetto conseguente l’ascesa di quest’ultimo: il ritorno in auge del fascismo. Se Marx dovesse aver avuto ragione – e, almeno riguardo a questo, pare che la storia gli dia ragione – il nuovo fascismo sarebbe una farsa, non una tragedia. Ma si badi, talvolta una farsa è molto più pesante di una tragedia. È un po’ come scegliere fra morire o vivere in gabbia per una vita intera, insomma.
Tornando quindi sui passi del discorso, l’affermazione del gruppo malato – dicevo – produce l’affermazione dell’autorità dell’estremismo. Quest’ultimo non può esser definito in maniera migliore se non come la perfetta rappresentazione di ciò che s’intende quando si usa il termine “intolleranza”. Ma fra la tolleranza, la democrazia e la libertà non può darsi la fine di una senza che le altre la seguano, smettendo anch’esse di esistere. Esse sono perciò in un rapporto di reciproca legittimazione: se una fra esse sparisse, le altre due crollerebbero inevitabilmente.
È qui che si torna al delicato discorso dell’estremismo di sinistra. La sua assenza giustifica l’inesistenza della sinistra, poiché ne giustifica l’incapacità nel comprendere i suoi valori fondamentali – quelli, appunto, di tolleranza, democrazia e libertà. Si potrebbe obiettare che tale estremismo rappresenti piuttosto l’esatto contrario e cioè che esso stesso sia la fine della tolleranza, della democrazia e della libertà. Infatti, poc’anzi s’era detto che questo estremismo non è giustificato a priori, ma soltanto come diretta conseguenza dell’esistenza di un estremismo antagonista, il quale produce necessariamente un disequilibrio fra le parti. Sarebbe meglio evitare del tutto gli estremismi, questo è chiaro. E tuttavia, in una tale situazione, evitarlo sarebbe arrendersi o fregarsene.
Con queste parole non mi faccio promotore di un’idea estremista, ma riconosco piuttosto che l’inesistenza di essa significhi l’inesistenza del forte peso degli ideali della sinistra sull’elettorato odierno. In altri termini, la gente è diversa in quanto a temperamento: qualcuno è più pazzoide di qualcun altro. Se fra la gente fosse diffusa indistintamente un’idea ognuno la manifesterebbe secondo il suo più naturale temperamento. Avviene ugualmente con i religiosi moderati e i fanatici, si badi. Se, perciò, non si rinvengono come una volta degli scellerati con idee di sinistra non significa che non vi siano cattive persone fra la sinistra, ma che piuttosto nessuno si senta di sinistra come una volta. A maggior ragione essi apparirebbero, se ci fossero, proprio in questo momento storico, in cui l’estremismo opposto muove gradualmente i suoi passi verso la propria affermazione.
Ecco, quindi, perché all’inizio s’è sostenuto che la sinistra non esiste più. Se essa esistesse si renderebbe manifesta immediatamente, date le attuali condizioni, in gruppi di scellerati estremisti. Quel che si vede nelle piazze ultimamente, sebbene non ancora a sufficienza, è l’esasperazione di coloro che sono uniti dal sentimento di odio verso il fascismo e non di amore verso la sinistra e i suoi principi.
I tempi cambiano, questo sì. Ma come la storia dimostra e sta, nello specifico, dimostrandoci adesso, spesse volte molte cose tornano ad aver luogo. Benché il relativismo insegni che non ci si possa rapportare a medesime cose, in diverse circostanze, alla medesima maniera, è pure da considerare che, talvolta, ciò possa essere nondimeno utile. O che almeno possa esser utile attingere da come qualcosa fu affrontata in un determinato tempo storico.
9. Si chiama «ignavia» non «moderazione»
A capo della triade delle belle parole che i sani ritengono di difendere, infatti, v’era proprio la tolleranza. Ripescando il paradosso di Popper s’è detto necessario che la tolleranza non tolleri l’intolleranza e che a essa, piuttosto, si rapporti nella forma dell’intolleranza stessa. D'altra parte, gli studi di storia medievale e, specificamente, sulla guerra della Chiesa cattolica alle eresie – come quella catara – mi hanno insegnato che per distruggere qualcosa il miglior mezzo sia quello dell'emularla. E se esiste una sola cosa della Chiesa cattolica di cui mi fidi ciecamente è sicuramente la sua capacità di distruggere.
Se l’estremismo fascistoide è una perfetta rappresentazione dell’intolleranza, allora chi vi si oppone dovrà per forza incarnare una figura di pari, se non addirittura maggiore, intolleranza. Dal momento che ancora un estremismo del genere non si è affermato, molta gente pensa che non sia dunque il caso di porsi in questa maniera, poiché si rischierebbe al contrario di alimentarlo. C’è chi dice, addirittura, che si scadrebbe nel loro atteggiamento, in quell’atteggiamento al quale ci si vorrebbe opporre. Fra l’altro, ciò accade in maniera smisurata fra le file dei sani, proprio in virtù di quella condizione di rimprovero interno fra i membri di cui si è parlato poco fa. Che dire, hanno tutti ragione e tutti torto, ecco.
Nel momento in cui la maggioranza dovesse diventare autoritaria e quindi dovesse sorgere a tutti gli effetti una nefasta autorità non vi sarebbe più spazio per la protesta, e l’opposizione, sia pure violenta, sarebbe molto più svantaggiata. Combattere l’estremismo vigente – o prossimo all’affermarsi – con le sue stesse armi non significa macchiarsi delle sue colpe, peccare di altrettanta intolleranza. Farlo significa, piuttosto, preservare, in nome della tolleranza, la tolleranza stessa; non farlo significa, invece, lasciare che l’intolleranza dilaghi e si affermi, eliminando ogni traccia restante di tolleranza, ogni possibilità di esprimersi, prima fra tutte quella di protestare. Non farlo significa, in altri termini, sposare l’intolleranza indirettamente, dal momento che non scegliere rimane comunque una forma della scelta.
A un pacifista il conflitto non piace, questo è risaputo. Ma si rinviene la necessità della pace, come osservato a sufficienza, quando la pace manca, quando v’è la sua negazione. Tale negazione della pace, a rigor di logica, si chiama «guerra» e consiste propriamente nell'estensione del conflitto. Perché la pace possa affermarsi, dunque, è necessario che chi voglia portarne il vessillo lo faccia combattendo per essa il clima di guerra stesso, prendendo parte al conflitto, pure se non abbia intenzione alcuna di macchiarsi le mani. D’altronde, neppure i suoi eroi del passato ne avevano, ma dovettero farlo.
L’atteggiamento di chi si astiene dall’approvare queste osservazioni è – adesso è arrivato il momento di analizzarlo – quello del «moderato», così come lo si intende comunemente. La moderazione poco fa è però stata definita un vizio. Per rispolverare l’argomento, si era detto che il concetto aristotelico di virtù pone la stessa nell’esatta metà di un continuum che ha per estremi due vizi opposti. Ma si è detto che, nel caso della moderazione politica, di quello che talvolta è chiamato centrismo, v’è un atteggiamento tanto vizioso quanto quello degli estremi. Sicché, s’è pure detto, bisognerà considerare due segmenti separati: uno che va dall’estremismo di sinistra alla moderazione, l’altro che va dall’estremismo di destra alla moderazione. La metà di ciascuno di questi due segmenti sarebbe, nella politica, la virtù. Ora è il caso, quindi, di spiegare perché la moderazione dev’esser ritenuta un vizio.
La moderazione è tale solo in apparenza. Essa, in realtà, incarna una posizione di strafottenza, disinteresse vero e proprio. Infatti, il discrimine fra la moderazione e la pusillanimità, l’ignavia, è talmente sottile che è molto più possibile che si realizzi quest’ultima piuttosto che la prima. Essere moderati, in altri termini, non significa stare a metà fra le due fazioni favorendone l’incontro. Essere moderati significa non assumere una posizione rispetto ad esse. Si potrebbe perfino affermare che pure rispetto al vizio dell’estremismo la moderazione sia peggio, perché l’estremismo è una scelta, mentre la moderazione non si sceglie: essa è proprio il risultato di non scegliere. D’altronde, i pusillanimi, nella Commedia dantesca, sono sdegnati pure dall’Inferno.
Tale moderazione è proprio quella che è stata definita in precedenza Democrazia Cristiana, la realizzazione di un paradosso massimamente lesivo, ma – c’è da dirlo – culturalmente molto più conforme al popolo italiano di qualsiasi altra forma. Questa conformità culturale, tuttavia, non ne giustifica affatto la giustezza. Se non si scegliesse la moderazione o l’estremismo, ma la posizione di mezzo fra i due, quella posizione rappresenterebbe il vero concetto di moderazione. Tale posizione, infatti, non si trova in conflitto con la fazione opposta, ma in semplice disaccordo, con una tensione costante, tuttavia, al compromesso, unica possibilità di realizzazione della politica.
Il compromesso politico altro non è che il cedere qualcosa all’altro ricevendo, dall’altro, una cessione simile e ha luogo sempre con un peso maggiore dell’una o dell’altra fazione, che è definito da quale delle due, secondo volontà popolare, si trova al governo e quale, invece, per il medesimo motivo, all’opposizione. Approdare a un compromesso è l’unica possibilità di realizzare qualcosa comunemente, nei lunghi termini. Se due partiti in opposizione sapessero raggiungerlo, infatti, quel che si ricaverebbe sarebbe una forma di collaborazione che è pure bilanciata da inclinazioni opposte: questo produrrebbe una vera moderazione, ecco. Moderazione virtuosa, in politica, è dialogo tra opposti, non disposizione a evitare aprioristicamente ogni tipo di incontro con l’avversario.
Inoltre, la realizzazione nei lunghi termini appena considerata non è una bella catena di parole, ma al contrario la possibilità che riforme necessitanti lunghi tempi possano aver luogo anche se le fazioni opposte dovessero alternarsi a oltranza nel governo del paese. Nella condizione attuale, invece, si crea un antagonismo sabotatore.
La forza del compromesso è qualcosa di evidente, tanto da far tremare chi vi si opponga; soprattutto se si presta attenzione al fatto che esso, come massima rappresentanza di moderazione vera e propria, è stato preso di mira a più riprese nella storia. Ognuno ricorda, ad esempio, il compromesso più famoso dell’ultimo secolo, che ebbe luogo in Italia, finito con l’assassinio di uno fra i due compromettenti. È inutile, riguardo a ciò, dilungarsi oltre.
10. La libertà e i suoi vigilanti
Rispetto alla democrazia v’è ancora qualcosa da dire. Chi sostiene la democrazia lo fa perché ha consapevolezza di ciò che essa sia. La maggior parte dei sostenitori di essa, infatti, sono studiosi e personalità che hanno mondato le proprie conoscenze attingendo da una svariata quantità di studi e ragionamenti. Essi riconoscono che non sia un sistema perfetto e tuttavia riconoscono che non vi siano, al momento, alternative migliori – un po' come ebbe a dire pure Churchill.
Quel che accade – e che produce un paradosso – è che tali individui, parallelamente, non facciano che aumentare i dubbi verso il proprio pensiero, una condizione, questa, che si fa sempre più manifesta negli studiosi, nei ricercatori, per almeno due motivi: il primo, che studiando di più scoprono l’esistenza di più cose e si rendono conto di quante poche ne sappiano e di quanto, dunque, siano ignoranti; il secondo, che l’unico modo perché la ricerca non si fermi è quello di mettere in dubbio anche le tesi più salde, perché il superamento può avvenire proprio a partire dalla loro distruzione. In questa maniera, si genera un’ulteriore conseguenza e cioè quella per cui questi individui inizino a disprezzare, più o meno velatamente, tutta quella gente dogmatica e ferma sulle poche idee che ritiene, che solitamente non ha maturato neppure in autonomia e che, a ben vedere, è la maggior parte della cittadinanza. Quindi, il paradosso che ne scaturisce è quello per cui chi sostiene con le dovute ragioni la necessità della democrazia in quanto massima rappresentazione dell’uguaglianza degli uomini rispetto alle istituzioni sociali, è quasi sempre un grande misantropo. Al contrario, colui che non sostiene la democrazia è il più delle volte proprio quel tipo di individuo assimilabile al tipo di persone da cui scaturisce la misantropia dell’individuo volto alla conoscenza. Il paradosso, proprio come evidenziato in precedenza, sta proprio nel fatto che a sostenere la libertà sia colui che la merita in maggior misura, mentre a distruggerla è colui il quale non la meriterebbe affatto: e così il primo prende le difese del secondo che, in fin dei conti, odia per palesi ragioni. Mentre quell’individuo odiato, al contrario, inconsapevolmente, sostiene dei criteri da kamikaze, in quanto per compromettere la vita dell’altro distruggerebbe la propria. Egli, tuttavia, lo fa per mancanza di consapevolezza. Così, la democrazia è distrutta da chi l’ha vissuta non meritandola, cosa che andrebbe pure bene, se tale distruzione colpisse solo lui.
Si è appena parlato, inoltre, di merito rispetto alla libertà, e a buona ragione. Infatti, benché la libertà sia un diritto inalienabile, tuttavia essa, affinché venga rispettata e affinché possa restituire ciò che è in se stessa, deve essere costantemente meritata. Meritare la libertà è qualcosa di molto semplice, se si bada. Meritarla significa preservarla e per preservare la libertà bisogna rifuggire l’ignoranza. L’ignoranza, quantomeno oggigiorno, altro non è che la condizione di chi è povero di nozioni per il fatto di aver ignorato la stessa possibilità di acquisirle, ignorando alla radice la loro stessa esistenza. L’informazione e lo studio sono i mezzi per superare l’ignoranza. Ciò non significa che ognuno debba essere uno studioso, poiché altrimenti si creerebbe uno squilibrio oltre che sociale anche di natura produttiva: significa, tuttavia, che bisogna, nei limiti del possibile, attingere a delle conoscenze, mantenere se stessi informati, almeno riguardo a quelle notizie e a quelle nozioni che sono fondamentali al vivere comune nella società. Io posso non conoscere una legge di fisica, ma non posso non avere idea di come funzioni il sistema elettorale del mio Paese, poiché sono un cittadino e, in quanto tale, partecipo alle elezioni. Questo è un piccolo esempio fra un’innumerevole quantità di altri esempi fattibili.
Sebbene non tutti abbiano agi sufficienti ad accedere alla conoscenza, è anche vero che la maggior parte della gente dimostra di non averne interesse, non di essere deficiente di possibilità. Con gli stessi dispositivi che utilizzano per espletare le proprie becere considerazioni, difatti, potrebbero cercare quantomeno basilari informazioni, per difendere i se stessi del domani e la società a cui appartengono dai se stessi del presente e dai propri simili. Inoltre, quei poveri che non hanno alcuna possibilità di accedere alla conoscenza, coloro i quali vivono in condizioni di vera e propria miseria – diciamocelo una volta per tutte – non hanno neppure il tempo di dibattere intorno a questioni politiche, perché devono trovare quotidianamente una maniera di sopravvivere insieme ai propri cari: così, la maggior parte degli ignoranti con cui sogliamo misurarci nella vita non sono che gente ignorante per propria negligenza, che dispongono di mezzi per informarsi al pari di altri, che hanno avuto accesso all’istruzione scolastica alla medesima maniera. E sì, l’esperienza familiare, la vita del proprio quartiere, la soggettività e tante altre cose concorrono a costituire gli individui; dunque, non tutti crescono con la fortuna di avere esperienze positive alla propria riuscita consapevole. Ma abbiamo visto martiri di mafia rinnegare genitori mafiosi superando in consapevolezza pure chi non avesse avuto alcun contatto diretto con la criminalità organizzata; abbiamo visto figli geniali di ignoranti coatti alle proprie condizioni storico-economiche affermarsi professionalmente, conseguire titoli e premi di successo. Dunque, cerchiamo di mettere da parte le scuse e concentriamoci sulla realtà e le possibilità di mondarla.
Un altro argomento di particolare interesse alla questione dell’informarsi per la partecipazione sociale, per la costituzione di un minimo comune denominatore sufficiente a definirci cittadini, è quello della disciplina. Si suole confondere, tra le altre cose, anche questo concetto. Essere disciplinati non significa svegliarsi la mattina presto per andare a lavoro, poiché in quel caso si tratta di una necessità al cui opposto v’è la povertà e l’impossibilità di andare avanti. Essere disciplinati significa, invece, trattare ciò che potrebbe risultare superfluo al nostro sostentamento con la stessa cura del dovere – e meglio se maggiore. Eliminare un vizio perché il medico ci mette davanti a un ultimatum non è disciplina, è timore: disciplina è farlo al di là di ciò. Ho visto spesso gente lavorare in campagna dalle sei di mattina alle due del pomeriggio riposare un paio d’ore e andare in palestra per allenarsi pesantemente: ciò mi basta per sopire le obiezioni di chi, prendendola sul personale, potrebbe dirmi che sia facile per me parlare disponendo di una buona dose di tempo libero, anche grazie a taluni privilegi di cui dispongo. Tuttavia, avere tanto tempo libero non significa necessariamente sviluppare tante doti: per quello ci vuole non già abbondanza di tempo, ma abbondanza di disciplina. Per questo, difatti, mi piace sostenere che le persone non si misurano sul dovere, sulla necessità, ma su come si servono della propria libertà e del proprio tempo a disposizione. Essere liberi, si badi, è molto più complesso di essere schiavi. Uno schiavo non potrà fare quel che vuole, ma soltanto quel che il padrone gli ordina. Ugualmente, però, non rischierebbe di incombere in quell’angoscia kieerkegardiana che si presenta nella scelta: scegliere è angosciante, poiché significa sempre privarsi di tutte le altre scelte possibili. L’essere liberi, invece, significa dover scegliere di continuo, dover essere i padroni di se stessi e, quindi, vivere l’angoscia con molta più frequenza e probabilità di chiunque non sia libero.
Inoltre, prima di concludere questa considerazione intorno alla natura della libertà, sarà necessaria un’ultima osservazione. È fondamentale ritenere il valore della propria libertà inferiore a quella degli altri per una ragione logica: la libertà di ognuno, in un sistema democratico, è garantita dalla libertà di ogni altro. La legge che ne scaturirebbe sarebbe quella secondo cui l’unico modo per valorizzare la propria libertà in maggior misura rispetto a quella di ogni altro cittadino è quello di valorizzare la libertà di ogni altro cittadino in maggior misura rispetto alla propria. Tale legge, come si nota, suona paradossale. Eppure, se un mio concittadino non è libero io non sono libero, poiché si smarrirebbero interamente i requisiti fondamentali della libertà stessa.
Nel meccanismo appena esposto, per cui ognuno dovrebbe mantenere un esiguo ma assolutamente necessario grado di informazione, nella misura in cui non si volesse ottemperare a questo mantenimento, la scelta è libera in se stessa. Ma affinché non intacchi la libertà dei concittadini e, in larga scala, la libertà della comunità intera, allora sarà una scelta migliore quella di astenersi dallo scegliere, dal partecipare all’elezione stessa, insomma. Perché scegliere senza alcuna cognizione di causa provocherebbe la negativa esternalità, sugli altri, di contaminare le scelte di chi ricerca quotidianamente un miglioramento. Una scelta sbagliata, come dimostra la delicata condizione prossima all’infezione di cui tratta questo scritto, può provocare danni irreparabili alla libertà comune e, quindi, non può essere ammessa. E se è vero che esprimere una scelta elettorale sia un dovere civico, è vero parimenti che non farlo sia legittimo. Dunque, esaminando la ragione alla base di questa seconda possibilità si comprende quando valga la pena esercitare questo diritto.
Tante volte concentriamo l’attenzione sul modo fittizio in cui i governanti sottrarrebbero la libertà al cittadino. Ciò sarà anche vero, va bene. Ma nella maggior parte dei casi la perdita di libertà non è dovuta alle decisioni provenienti dall’apice della piramide, bensì dalle scelte di chi sta alla base, e cioè dalle scelte dei cittadini. Ecco come si rende manifesto il motivo per cui la libertà di ognuno di noi è secondaria rispetto a quella del nostro prossimo: proprio nel fatto che il nostro prossimo, a partire dalle condizioni appena osservate, è in grado di deprivarci del nostro stato di uomini liberi con le più banali scelte quotidiane, con un segno a matita su una scheda elettorale non presa sul serio. Il problema dell’applicabilità di un simile ragionamento sta nel fatto che a fruirne e a considerarlo sarebbero, quasi certamente, coloro i quali avrebbero il diritto di scegliere e, al contrario, esso non sarebbe tenuto in considerazione proprio da quelli che ne avrebbero più bisogno.
Nella guisa di questo discorso, si riallaccia bene quello rispetto alla considerazione che gli elettori sani hanno dei loro interlocutori malati. Così come denigrarli, anche giustificarli è un meccanismo di deficienza che porta ai medesimi tre risultati considerati e analizzati in precedenza. Infatti, accettare il fatto che il malato possa sbagliare, ma non fare lo stesso con chi si ritiene più intelligente, è una forma di discriminazione oltre che dell’altro pure di se stessi. Proprio in virtù delle appena svolte considerazioni sulla libertà di ogni cittadino, bisogna pretendere qualcosa dal nostro prossimo, comunque egli ci appaia, più o meno arguto, più o meno informato, più o meno sapiente, più o meno simpatico.
Si è appena detto, fra l’altro, che non si richiede nulla di impossibile, ma soltanto una esigua fetta di tempo e di sforzo da parte di ognuno. Ancora tendiamo a giustificare ogni persona con il discorso intorno alle possibilità di ognuno, che così come ha un fondamento di verità, allo stesso modo oggi perde di senso. L’accesso all’informazione e alla conoscenza è ormai giunto a livelli unici nella storia. Ma mentre prima con pochi mezzi si ricercava sempre qualcosa di grande, oggi con grandi mezzi non si fa che ignorare la possibilità di diventare dei cittadini migliori. Che l’educazione abbia il suo peso, quello è chiaro. Ma la scuola sufficiente a divenire individui coscienti è obbligatoria e alla portata di tutti. Per non dire che pure alcune università sarebbero alla portata della gente più povera e con minori possibilità. Inoltre, molti dati dimostrano che la parte della popolazione che si trova in una condizione di miseria tale da non poter perdere neppure il tempo a leggere il giornale, almeno qui da noi, è una quantità più esigua di quanto non si pensi e, inoltre, non ha a che fare con coloro che sentiamo lamentarsi ogni giorno della loro condizione. E ciò per una semplice ragione: quella gente, povera com’è, non avrebbe tempo da perdere in una tale lamentela. Quella gente che vive in condizioni così pietose non è gente con la quale ci troviamo, così spesso come crediamo, a dialogare.
Se non si pretendesse qualcosa dal nostro prossimo si starebbe, di nuovo, peccando di disinteresse rispetto ai propri diritti e dunque all’affermazione della propria libertà: ponendo se stessi in una condizione di superiorità rispetto all’altro, accettando le conseguenze solo perché si ritiene l’interlocutore incapace a fare di meglio; affibbiando all’interlocutore il problema che si possiede, ossia quello di non essere poi così intelligente. Quindi, in un sistema democratico che si rispetti, bisogna che ognuno pretenda qualcosa da ogni altro.
11. Politici e cittadinanza: poteri a confronto
L’ultima cosa da considerare che rimane a questa trattazione, affinché non risulti nient’altro che un inutile pot-pourri di disagi ben evidenziati, è quella di cimentarsi nel tentativo di avanzare delle proposte risolutive. Perché ognuna di queste cose venga compresa, tuttavia, è bene tenere a mente una cosa – soprattutto è bene che, visti gli interessi maggiori rispetto all’argomento, siano le posizioni di sinistra a tenere a mente quanto segue.
Si dovrebbe imparare che i pensieri degli intellettuali che lodiamo incessantemente non servono per ammirarne la bellezza, la fluente sintassi, l’impeccabile logica, ma per comprenderne l’utilità, l’importanza che la loro applicazione possa avere nella prassi. Tutto ciò sarebbe da obiettare parimenti agli accademici italiani, ai professori universitari, che con questo loro atteggiamento molle hanno ridotto la gioventù ad un ammasso di moderati, appunto, strafottenti, disinteressati e pronti a entrare in conflitto dinanzi alla più banale delle questioni. Un discorso simile ma non identico potrebbe esser fatto pure per gli insegnanti nelle scuole. Ma questi sono argomenti che non interessano appieno queste considerazioni e che, probabilmente, affronterò in un altro luogo a tempo debito.
Da quanto considerato sembra, in diversi punti, che ci si aspetti una partecipazione talmente alta da sottrarre ciascun cittadino dalle sue quotidiane mansioni. Tuttavia, ritenere ciò sarebbe incredibilmente sbagliato. Nessuno si aspetta che la gente comune, che per scelta o per ripiego non abbia voluto fare della politica il suo mestiere, la sua fonte di sostentamento, si comporti con un irrefrenabile interesse alla politica di ogni giorno. Ma che ognuno, entro il limite delle sue possibilità, faccia la sua parte, questo sì, è necessario.
Il semplice appoggio, anche silenzioso, delle opinioni di chi la pensi più similmente a noi è già un passo. È chiaro che si spererebbe una maggiore congruenza, un incontro totale delle opinioni, ma ciò non può essere dato ontologicamente, né tantomeno risulterebbe necessario a questo momento storico. Anzi, una tale pretesa, o anche sola speranza, dimostra di non esser coscienti dinanzi a quanto, giorno per giorno, sta accadendo attorno a noi. Una volta che tutto sarà tornato al suo posto, solo a quel punto si potrà ritenere adatto il momento per riprendersi sulle virgole, per sviscerare i discorsi, portarli ai minimi termini e, quindi, considerare le più minuziose differenze. Farlo adesso sarebbe come sperare che una platea non abituata all’ironia più banale apprezzi un comico che faccia dell’umorismo nero, della satira che si faccia beffa, in altri termini, di argomenti delicati e tabù. Oggi non è arrivato quel momento e continuare a comportarsi come se il tempo fosse propizio non è altro che rendersi promotori della disfatta, della mancata coesione e perciò dell’ascesa della grande infezione.
Negli ultimi anni vediamo una partecipazione sempre più esigua alle proteste in piazza: manifestazioni contro i governi, manifestazioni contro le posizioni di appoggio o opposizione a questioni estere di importanza globale, come quella climatica, come le guerre di cui sentiamo e di cui dovremmo essere raccapricciati. E quel che vediamo cos’è? Vediamo che quasi tutti, indistintamente sani e malati, non facciano che prendere per cretini coloro i quali cercano attenzione per le questioni ambientali riguardanti il cambiamento climatico; [vediamo che non facciano che ridicolizzare coloro i quali scendano in piazza per prendere posizioni contro Israele, mentre il governo che li rappresenta paia fare l’opposto, contribuendo al massacro dei palestinesi]. Bisognerebbe raggiungerli in quelle piazze, o in alternativa sostenerli virtualmente, appoggiarne le visioni. [Poi, evitiamo di considerare quanto sia ridicolo il luogo comune diffuso di stimare l’interesse sociale dei francesi quando il governo «tocca» loro qualcosa – luogo comune tipico di chi prenda in giro chi abbia ancora il fiato per gridare in strada].
Perfino tacere sarebbe più dignitoso di opporsi a chi protesta. Anche perché, come diretta conseguenza, ciò sta legittimizzndo i governi ad assumere posizioni sempre più autoritarie verso il popolo e, ormai, vediamo sovente squadre di polizia antisommossa cominciare gli scontri, nella maggior parte dei casi pure ai danni di chi non vorrebbe oltrepassare la linea della parola e dei manifesti. A Bologna, ho avuto modo di vedere coi miei occhi tutto ciò, non già attraverso media, giornali, telefoni e via dicendo dal comodo divano di casa: ho visto la polizia, nella quale avevo sempre riposto la mia sicurezza, manganellare a sangue ragazzi che invitavano gli oppositori a studiare, informarsi, frequentare le biblioteche; e quegli oppositori, ben protetti da quei poliziotti, elargire insulti razzisti, xenofobi, autoritari, con tanto di saluto romano, canzoni fasciste e via dicendo. Verrebbe spontaneo, in una simile circostanza violenta, cercare le forze dell'ordine per essere difesi e tutelati: ma se a darle a coloro i quali portavano alte le leggi dello Stato e i valori della Costituzione erano le forze dell'ordine stesse, a chi potevano ricorrere quei poveri manifestanti, a quel punto? Il mondo, quel giorno, mi crollò sulle spalle. Ed era il 2016!
Oggi, tuttavia, cerco di riorganizzare i miei pensieri scrivendo: è dunque il caso di proseguire.
Un altro fattore da tenere in considerazione è quello di non aspettarsi che siano i governanti o anche solo i rappresentanti dei partiti a farsi promotori di un cambiamento. Questa gente non patteggia per l’interesse della comunità, o quantomeno la maggior parte. E sostengo ciò non già a partire da una bella dose di parole già sentite e ripetute fra i vicoli più insulsi delle strade della città in cui vivo. Lo sostengo a partire dal fatto che in politica sopravvive chi della politica ne comprende il senso, locale e globale. Gli altri, quelli con buone intenzioni, gli ingenui, sono destinati a perire e non ad esser dimenticati, ma ad esser ricordati per colpe che non hanno mai neppure avuto. La politica odierna, così come si manifesta di giorno in giorno, sta tutta nell’economia e solo un economista può aver chiaro come essa funzioni. I politici, dal loro canto, si frappongono tra questa realtà economica e il popolo, proprio per nascondere a quest’ultimo questa verità. Non si vuole scadere nel complottismo, si badi. Si vuole piuttosto considerare la pura evidenza.
Il potere è l’assoluta possibilità di qualcuno di esercitare la sua autorità su qualcun altro, secondo il suo piacimento. Esso è l’affermazione della propria libertà nella privazione della libertà altrui e, quindi, nella possibilità di esercitare il controllo sugli altri. Il potere umano, in maggior misura nella società contemporanea, è definito dal potere economico. Si dice che chi sia nei cuori della gente detenga un potere ancor più forte e questo è vero. Ma nella maggior parte dei casi egli consolida la sua certezza di essere nei cuori della gente proprio quanto inizia ad incrementare i suoi stessi guadagni. Se la Chiesa, ad esempio, ha potere sui cuori della gente, le indulgenze sono la constatazione di questo fatto. E questo è solo un misero e banale esempio per restituire l’idea. È palese, dunque, che il potere sia detenuto da chi è economicamente più forte e alla volontà di chi è smisuratamente ricco ogni valore si piega e cede a questi il suo posto. I politici, chi per libera volontà chi per necessità, hanno dovuto piegarsi a questo meccanismo, soprattutto dal momento che gli ultimi secoli hanno esteso la comunicazione a un tale livello che è necessario garantirne il funzionamento. E tale funzionamento è garantito dalla ricchezza che sovrasta, quando necessario, ogni convenzione o accordo internazionale, come la realtà ci dimostra quasi ogni giorno.
A frenare infatti certe personalità dal commettere azioni scellerate è la forza del loro elettorato e non la quantità di capitale. I politici sono schiavi di quell’elettorato, per questo possono contenere i loro pensieri folli senza che si tramutino in azioni. Inoltre, affinché siano chiari i motivi per cui questa argomentazione stia volgendo l’attenzione così tanto ai comportamenti dei cittadini piuttosto che cercare le soluzioni all’apice della piramide necessitano di esser chiariti, visto che questa parte del discorso affronta questo argomento.
Anzitutto, il motivo più logico sta nel fatto che i governanti non sono alieni alla società o alla cittadinanza; magari lo divengono, ma quando nascono, crescono e vengono eletti sono cittadini che condividono con tutti gli altri i medesimi problemi e le medesime condizioni. Poi, le cose potranno pure cambiare, ma fino al momento in cui non vengono eletti e, per forza di cose anche dopo, i disagi che stanno nell’intera società risiedono ugualmente dentro di essi. Che ogni popolo abbia il governo che si merita è assolutamente vero, infatti. Ogni lamentela verso il comportamento di chi detiene il potere dovrebbe essere rivolta, alla medesima maniera e in egual quantità, ai concittadini. Fra concittadini ci si contamina vicendevolmente e, come disse qualcuno, le diverse abitudini culturali che albergano nella società in cui si vive “agiscono su” e “sono agite da” ognuno di noi. È un meccanismo incessante di reciproca contaminazione, insomma. Quindi, se quella gente occupa quella posizione è semplicemente perché, a queste condizioni sociali, definite dalla comunità di appartenenza, essi hanno saputo rispondere con un adattamento più conforme. Così, lungi dall’essere gli esseri peggiori della società essi, nel loro essere così degni di scherno, sono quelli più in linea e adatti alla società, altrimenti, in un sistema democratico, non la rappresenterebbero. E si specifica in un sistema democratico, poiché se non fossero conformi perfettamente alla cittadinanza che rappresentano essi non sarebbero stati eletti e l’unica maniera per acquisire quel potere sarebbe stata quella di conquistarlo con la forza.
Se poi questi governanti, come taluni sostengono, agiscono di testa propria e surclassano le proprie decisioni a quelle popolari, anche quello è un problema del popolo, poiché significa che esso sia talmente molle da lasciarsi modellare e calpestare in qualunque maniera.
I governanti non fanno che rispecchiare il comportamento dei cittadini: essi sono quei politici che più fra tutti sono riusciti in una tale impresa, quella di rassomigliarli. Quando li si osserva bisognerebbe rapportarsi a ciò alla medesima maniera di quando ci si guarda a uno specchio: in altri termini, essi riflettono tutti noi. Lo stesso meccanismo della lamentela a oltranza è uno dei motivi a fondamento dell’immobilismo che essi promuovono di giorno in giorno. Infatti, se un popolo è tanto bravo a lamentarsi, non ci si potrà aspettare che sia altrettanto bravo a trovare soluzioni. Se i governanti, com’è stato sostenuto, appartengono al popolo, allora essi sono vittime di una tale mancanza di bravura.
Infine, a queste condizioni, attendere passivamente che dall’alto accada qualcosa è inutile quanto lo è il concetto di speranza. Nella vita bisogna prender posizione e agire attivamente, non aspettare che qualcuno o qualcosa lo faccia al nostro posto. La soluzione a questa stagnazione va dunque cercata non nei governanti, ma altrove. E l’appena discussa forza dell’elettorato insieme alla sua capacità di condizionare le scelte dei politici, poi, dovrebbero rendere evidente quale sia il luogo in cui cercare questa soluzione.
A ben vedere, infatti, i cittadini sarebbero in grado di mettere tanto alle strette i politici che essi dovrebbero: o piegarsi alla comune volontà e modificare il loro quotidiano operare, o altresì cedere il loro posto, secondo volontà popolare, a qualcuno che più rispecchierebbe una nuova cittadinanza. Una tale presa di consapevolezza, unita alla capacità di costituire una comunità in un vero e proprio gruppo, infatti, avrebbe come risultato proprio dei cittadini nuovi, consapevoli, partecipi, attivi.
Così come s’è sostenuto che il politico sia tuttavia schiavo della cittadinanza, può anche darsi il caso che l’elettorato diventi schiavo dei politici e la realtà odierna, soprattutto grazie a questi meccanismi di contorsione psicologica molto più semplici da utilizzare, effetti dell’estesa comunicazione che ci troviamo a vivere, dimostra che ciò possa avvenire con estrema facilità. Ma se la schiavitù dei politici è schiavitù in essenza, quella del popolo lo è in apparenza, si badi. Non perché un uomo comune non possa essere essenzialmente reverente a un politico e alla posizione che rappresenta. Lo è in apparenza nel senso che pure da schiavo detiene un potere, ma semplicemente quel potere si trova in letargo. I politici lo hanno ben chiaro, motivo per cui mentre comandano l’elettorato che gli è schiavo gli fanno credere che, tuttavia, lo stiano facendo per loro, in loro nome. Soprattutto i politici che si servono di quella retorica che è comunemente nominata “populista” lo sanno. Essi comprendono meglio di chiunque altro che potrebbero restare sulla tribuna per la vita intera senza mai far nulla se sono in grado di lasciar credere a chi li ascolti che ogni azione da loro promossa risponda alla volontà comune. Possono addirittura manovrare pian piano questa stessa volontà, nella retorica di una ripetuta ma celata captatio benevolentiae. Cosa che di fatto fanno giornalmente, in maggior misura oggi che la realtà offre loro la realizzazione di tali manovre con una celerità disarmante. Fino a poco tempo fa, infatti, solo i giornali potevano riuscire in una tale impresa, e tuttavia i tempi di realizzazione erano piuttosto lunghi, generazionali. Poi, la televisione ha consolidato questa possibilità e, in Italia, ha dimostrato d’esserci riuscita nella maniera più palese a chiunque faccia mente locale e ripercorra lo sviluppo storico degli ultimi trent’anni.
È chiaro, rispetto a quest’ultima faccenda, che ad esserci riusciti siano coloro i quali la televisione la controllavano e la controllano, non i televisori in sé. Oggi, con l’estesa comunicazione virtuale, quel che prima necessitava anni riesce ad affermarsi in giorni. Ma c’è un punto a sfavore di ciò: gli anni che prima erano necessari riuscivano a scolpire in profondità i caratteri delle persone, mentre questa odierna comunicazione, benché raggiunga risultati in brevissimo tempo, non modifica così profondamente gli individui. Anche al tempo della manovra televisiva, ad esempio, intere popolazioni nascevano e crescevano costrette all’interno di modi di pensare che avrebbero avuto effetti per le loro intere vite. La comunicazione virtuale, invece, fa tutto con una tale velocità che crea più confusione nei loro animi che vero e proprio controllo.
Ma non si sottovaluti il tutto, perché c’è dell’altro. Dal canto suo, infatti, una tale comunicazione dà una maggior sensazione di potere al cittadino, perché rispetto al meccanismo unidirezionale della televisione, in cui il cittadino è spettatore e, per forza di cose, ricettore passivo, essa è in grado altresì di far sentire ognuno partecipe attivamente e, in qualche maniera, ciò lo legittima a ritenersi un tassello essenziale della lotta che conduce. Con la comunicazione virtuale la gente si ritiene più importante: da seduta al di sotto del palcoscenico nel mezzo di una enorme platea, si ritrova essa stessa sul palcoscenico, ancorché la platea sia divenuta totalmente vuota.
12. Conclusione. L'unico vero colpevole
Per andare alle possibili soluzioni, è necessario premettere che non bisognerà aspettarsi nulla di assolutamente risolutivo. Non esistono soluzioni in politica, ma atteggiamenti tesi alla raggiungimento di una soluzione.
Non si può realizzare la politica in sé, in altri termini. Si può tendere alla politica. E in ogni caso ciò è la cosa migliore che si possa fare per la comunità. Anzi, questa tensione è un dovere morale. Quando la politica è intesa come qualcosa che serve unicamente a risolvere qualcos’altro, quel che accade è che, con un ritmo sinusoidale e tuttavia incostante, si raggiunga un obiettivo per poi tornare nella miseria. Se invece la politica fosse presa per ciò che essa realmente è, allora questa tensione costante non lascerebbe il tempo per festeggiare i suoi risultati, perché appagarsi dinanzi a piccole vittorie significa affievolire la potenza degli animi dei partecipanti, buttarli nuovamente nell’ozio, perderli di nuovo e, quindi, dover riesumare tutto con una grande perdita in appendice.
Oggi, la situazione si manifesta in maniera smodatamente drastica. Alla fine di questo discorso, chi lo abbia letto con pregiudizi, si sarebbe forse aspettato un invito alle armi, una ribellione violenta. Quanto invece si vuol sostenere è che prender coscienza di una tale situazione adesso significa evitare il ricorso alle armi, che avverrebbe inevitabilmente se la situazione dovesse degenerare ai massimi termini. È invece necessario tornare a collaborare e accettare di unirsi per il bene di se stessi, anche se fosse la cosa che può apparirci più riluttante. È necessario pretendere da ognuno di noi e non perder tempo a prendere in giro il prossimo che, così facendo, comanderà chi lo prendeva in giro, non permettendogli più neppure di dilettarsi per qualcosa.
L’educazione è fondamentale, ma necessita di una forte lungimiranza. In effetti, per come sono state considerate molte cose in questa riflessione pare che la lungimiranza sia necessaria per la realizzazione di qualunque cosa. È come pensare di mettersi fisicamente in forma senza considerare questa un’impresa nel lungo termine, ma sperando che la si possa realizzare, in qualche maniera, in breve tempo.
Ogni cambiamento repentino produce effetti negativi smisurati, poiché il cambiamento, per aver luogo nel migliore dei modi, necessita di una condizione di adattamento, altrimenti creerebbe uno shock talmente grande da apportare più danni che benefici. In altri termini, non bisognerebbe crucciarsi dei disagi del breve periodo se essi sono necessari alla realizzazione di un miglioramento futuro. Così come compiacersi della riuscita di qualcosa nel breve periodo sarà quasi certamente la matrice di un effetto negativo nel futuro. Bisogna allenarsi un po’ ogni giorno, insomma, se ci si vuol mettere veramente in forma. Ma se con un fisico non impeccabile possiamo vivere, con una comunità non impeccabile non si può. Essa produrrebbe prima o poi degli effetti irreparabili.
La collaborazione necessaria si realizza con il dialogo, con la condivisione di informazioni e con la formazione di legami. Se i cittadini sani cercassero di entrare davvero in contatto con quelli infetti sarebbe molto più semplice di quanto non sembri. Se facessero ciò, piuttosto che sbeffeggiare i loro simili che hanno pazienza di farlo, qualcosa potrebbe accadere. Se al posto che degenerare in diatribe concernenti quegli argomenti che sappiamo non possano essere risolti in quattro e quattr’otto si tentasse di aggirare la situazione, instaurando una propedeutica fiducia, allora si potrebbero convincere molto più facilmente di quanto non si pensi e, a quel punto, si avrebbe tutto il diritto di ritenersi superiori – sia pure senza manifestarlo apertamente, altrimenti si tornerebbe alla condizione d’origine. I cittadini più integri stessi sanno che quanto qui è sostenuto sia cosa fattibile, perché nella circostanza serale, festiva, in cui lo stato psicofisico è alterato dal bere e dal divertirsi, sono in grado di parlare con chiunque essendo piacevoli e convincenti.
Altrimenti, non resta che piangere le conseguenze e aspettare che le cose si risolvano da sole. Sì, aspettare che si risolvano da sole: perché esse arriverebbero a risolversi, ma potrebbero farlo soltanto nel peggiore dei modi. Si è trattato del dopoguerra come momento di presa di coscienza comune. Basterebbe quindi che avesse luogo, nuovamente, un simile clima perché le cose rinascano. Ma è chiaro che non si possa sperare in una disgrazia per legittimare una presa di consapevolezza.
Eppure, forse una necessità storica preme perché si ripetano le condizioni del dopoguerra affinché i gruppi si rendano conto di questa realtà e riescano finalmente a unirsi e collaborare. Il problema, tuttavia, si ripresenterebbe comunque prima o poi, proprio come si sta ripresentando oggigiorno. E ciò per il semplice fatto che se lasciamo a se stessa la coda dell’effetto di una circostanziale presa di coscienza, piuttosto che mantenere accesa la fiamma del ricordo, attraverso non soltanto la memoria, ma la comprensione dei meccanismi infami che un clima degenere può avere, allora è ovvio che prima o poi tutto si ripresenti. Lasciare che la storia faccia il suo corso senza intercedere in essa attivamente significa questo: un clima pacifico che si alterna ad una tragedia, che si alterna ad un clima pacifico, e così via. Significherebbe, dunque, subirla e non modificarla, costruirla attivamente.
Abbiamo bisogno di consapevolezza, oggi più che mai. È necessario che si torni a comunicare, tutti quanti indistintamente. È necessario che lo faccia chi possieda ancora un briciolo di quella consapevolezza di cui tutti hanno bisogno. Altrimenti, l’unico vero colpevole, sarà quest’ultimo e nessun altro.
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