Una sana violenza. Il dovere di demolirsi per ricomporsi
- Giovanni Cusenza
- 2 ott 2023
- Tempo di lettura: 61 min
Aggiornamento: 28 giu 2024
Indice
Introduzione
Tutti gli uomini pensano, ma pochissimi sanno pensare.
L’attività del pensiero, al contrario che il passivo fluire delle immagini, delle parole, dei concetti, nella nostra mente, è probabilmente quanto di più complesso e faticoso vi sia per l’umano. Essa, più propriamente, consiste in un processo logorante, che arreca parecchi disturbi, nonché gravi psicologici. In altre parole, pensare attivamente non è bello, non è piacevole e, tuttavia, è quanto di più necessario possa essere richiesto a chi del pensiero ne faccia un vero e proprio mestiere, o in chi si arroghi il diritto di sostenere di sapersene servire elargendo opinioni con la pretesa che queste possiedano un certo valore.
La mansione del pensare attivamente patisce una grande sfortuna rispetto a ogni altra: trattandosi di qualcosa di intangibile, di qualcosa che, presuntuosamente, tutti credono di ottenere per via della sola natura di esseri umani, non soltanto è considerata priva di sforzi, soprattutto quando paragonata a mansioni di evidente fatica, come quelle manuali, ma è pure culturalmente ritenuto un atteggiamento pigro, appannagio di chi, probabilmente agiato, possa permettersi di non destinare il proprio tempo alla schiavitù del lavoro per ottenere il necessario al proprio sostentamento. Insomma, nella maggior parte dei casi, pensare ed esercitarsi a farlo sono ritenuti privilegi di chi disponga di tempo e risorse. La ragione di ciò si può rintracciare, coerentemente, nei retaggi passati che manifestano, effettivamente, come l’ozio sia stato, nella storia tutta, quasi esclusivamente appannaggio di nobili e individui agiati.
Non di minore importanza è poi l’atteggiamento di chi presuma, per assunte innate doti naturali, di essere in grado di servirsi del pensiero senza educazione alcuna. Così, chi di questa attività ne abbia fatto una ragione di vita, o finanche un mestiere, in seguito a tanto allenamento, è come se avesse acquisito delle capacità inutili all’altrui vista. E, nel lungo andare, quelle capacità risultano pure a se stessi altrettanto inutili, se non perfino deleterie, dovendo spartirsi il mondo con il resto delle persone, la cui maggioranza non è disposta a sottoporsi allo sforzo di imparare a pensare.
Oggigiorno, l’accesso all’istruzione superiore è stato esteso a livelli che un tempo sarebbero stati difficili pure da immaginare. Questa è stata indubbiamente una delle più grande conquiste sociali che la storia abbia riservato all’essere umano contemporaneo e, tuttavia, essa non ha mancato di produrre un’ingente quantità di problemi proprio rispetto alla comprensione dell’attività di pensare. Anzi, conferendo eguali riconoscimenti a tutti quanti, oggi è più probabile che chiunque si ritenga presuntuosamente capace a pensare.
In altre parole, alla conoscenza vera e propria, oggi è stata sostituita la certificazione della conoscenza, cosicché, in un mondo che corre veloce come una folata di vento, non si consideri più la sostanza della sapienza individuale, quanto piuttosto l’apparire in elenco dei titoli e dei meriti che dovrebbero certificarne il possesso. Purtroppo, quanto ciò abbia leso al sapere umano è tanto evidente quanto di difficile cattura se immersi, così come si suole, nella vita di tutti i giorni.
L’attività del pensare adeguatamente è, da sempre, riconosciuta propria di ciò che va sotto il nome generico di «filosofia» e coloro i quali la praticherebbero in perpetuo sono definiti «filosofi». È coerente, d'altronde, che chi ami il sapere debba, per lo meno, esercitare la propria capacità di pensare.
Espletando una tale considerazione non si vuole né lodare la filosofia in sé, né tantomeno sottoporre i lettori a una pedante argomentazione sulla storia della filosofia, o checché sia. Infatti, in un tempo in cui sono le medaglie a definire il valore degli uomini, piuttosto che le loro opere, di filosofi ce ne sono troppi e, al contempo, non ce ne sono quasi per niente. Questa è forse una delle ragioni che mi portarono a ritrovare e leggere, tra i miei appunti privati, in un probabile momento di sconforto, che se è certo che la filosofia esista non è tuttavia detto che esistano i filosofi. Allo stesso modo, questa è la ragione per cui, nel corso del tempo, il termine «filosofo» sia finito per essere usato alla stregua di un insulto; così come la dicitura «fare filosofia» sia considerata, oggigiorno, una maniera per dire a qualcuno che i suoi discorsi siano privi di fondamenti logici, legami con la realtà e, in ultima analisi, non risultino che inutili.
Pensare, nondimeno, è qualcosa che avviene naturalmente in ciascun uomo. E tuttavia una siffatta osservazione risulta valida per il pensare passivamente: l’essere travolti dal pensiero.
Pensare, per così dire, attivamente, invece, pone a fondamento una certa forma di fastidio ed è questa la ragione per cui è difficile trovare uomini veramente capaci in questa attività. Pensare, per com’è richiesto dalla vera filosofia, è una immediata forma di autolesionismo che si risolve, nel lungo termine, nella realizzazione di un utile superiore. In questa guisa, però, «maneggiare» il pensiero sembrerebbe essere quanto di più faticoso vi sia per l’umano.
1. Cecità dell'intelligenza
Alla base del pensiero attivo, della conoscenza, della scoperta, della conquista di una certa sapienza v’è lo scandalo. E, si badi, non lo scandalo per come siamo soliti intenderlo e cioè come qualcosa che solo in apparenza costituisca un capovolgimento degli usi e dei costumi di un popolo: scandalizzarsi significa, invece, porsi dinanzi a qualcosa che è capace di farci mettere in discussione l’intera nostra vita, insieme alle nostre opinioni e credenze, sì da privarla di senso e da renderci smarriti in un attimo fugace: l'attimo in cui si partecipa all'evento del proprio scandalo, appunto.
La vita umana parrebbe essere, per lo più, una vita edonistica. Tutti mostrano, a loro modo, di fuggire il dolore e ricercare il piacere. Tutti quanti. Persino chi assolva compiti pesantissimi. Persino chi sia disposto a provare il più grande dolore fisico non faccia che ricercare, in fin dei conti, un certo piacere: cediamo al compromesso di un lavoro estenuante perché sappiamo che ci concederà anche un brevissimo attimo di pace di cui poter godere; facciamo uso di sostanze che potrebbero ucciderci perché ci arrecano un immediato piacere; siamo perfino disposti a farci uccidere in pubblica piazza perché sappiamo che il nostro nome, un giorno, verrà onorato da qualcuno: la sola idea che ciò possa avvenire ci reca già un senso di piacere. La ricerca del piacere, volendolo declinare in soddisfazione, gloria, e quant’altro, è in grado quindi di lasciarci disfare interamente della nostra natura, della nostra stessa vita, pur di ottenerlo.
Quel che varia, dunque, non pare essere la ricerca del piacere in sé, ma la concezione eminentemente soggettiva che ciascuno abbia del proprio piacere.
Come per ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è bello e ciò che è brutto, il piacere viene oggettivato in maniera eminentemente relativa da ciascun individuo. Questo vuol dire che ogni nostro gesto potrebbe esser stato vano, poiché la nostra ricerca del piacere poggiava su premesse errate; ma dal momento in cui, nel percorso per la sua realizzazione, trovassimo un motivo, un significato per una singola azione o per l’intera nostra vita, allora staremmo già concedendoci una porzione del piacere stesso, così per come individualmente sogliamo intenderlo.
V’è da aggiungersi che l'essere umano è essenzialmente un essere pigro, che rifugge lunghi percorsi, poiché poco incline all’esser paziente, nell’ottenimento di un risultato. Questa è spesso la ragione per cui gli umani sono portati alla concezione errata anche rispetto al proprio piacere. Parimenti, questa è la ragione per cui si suole confondere il tollerabile con l’intollerabile, la salvaguardia della pace con la guerra, un culto depauperante con una grazia divina e molte altre cose che concernono la vita quotidiana.
Ne abbiamo ampia dimostrazione con gli odierni mezzi di comunicazione. Difatti, il raggiungimento di un risultato immediato viene anteposto di continuo all’ottenimento di un risultato nel lungo termine. Un individuo che voglia mettersi in forma sarà più facilmente abbindolato da un cultore del movimento che gli prometta una linea invidiabile in breve tempo, al contrario che da qualcuno che gli dica che per raggiungere quell’obiettivo saranno necessari anni, studio, pazienza e fatica.
Nel caso della comunicazione, così come nello studio e nella comprensione dei concetti, s’è passati dall’analisi puntigliosa di argomenti, attraverso libri di diversi chili, ai riassunti; da questi, poi, s’è passato agli audiolibri e, poi, al video. Il video, inoltre, diviene oggigiorno uno strumento di fruizione sempre più breve: così, da lunghi documentari si è giunti a quelle che vengono definite pillole di conoscenza, consigli, principi cardine e via dicendo. Se un giorno venisse creata una sostanza in grado di indurre una grande sapienza, nessuno più faticherebbe cimentandosi in letture chilometriche, in sforzi immani, ma quasi tutti sceglierebbero di iniettarsi il farmaco miracoloso.
E ciò per la semplice ragione che il sapere, oggigiorno, serve agli uomini per addobbarsi, per etichettarsi agli occhi della società e, in maniera pregiudizievole, in questa guisa, essere riconosciuti dagli altri sotto qualche titolo che definisca aprioristicamente il proprio pregio sociale e lavorativo. Il sapere, in questo mondo contemporaneo, è un mezzo di ostentazione al pari di un bene di lusso, poiché viene usato ai fini del posizionamento sociale.
Ciononostante, per costruire un edificio è possibile utilizzare pietre di alta fattura, di grande solidità e di difficile lavorazione, oppure è possibile scegliere materiali fragili ma di comoda modellazione. Costruire con la prima tipologia di pietra sarà indubbiamente più arduo e dispendioso, tanto in termini economici che temporali. Il materiale fragile, al contrario, consentirà di completare la struttura in un men che non si dica. Ma è evidente a chiunque quale edificio, a fine corsa, sarà più solido e duraturo. La stessa cosa vale per lo sviluppo della prestanza fisica e, parimenti, si consideri la conoscenza, lo studio e l'attività del pensare adeguatamente.
Così, ricercando la via più breve e comoda, assecondando la pigrizia, compiamo delle scelte errate che, tuttavia, ci illudono di aver ottenuto il risultato sperato. D’altronde, se un individuo volesse imparare qualcosa ma raggiungesse soltanto un livello intermedio di conoscenza, quanto sarebbe in grado di rendersi conto di non essere ancora un professionista, un esperto di siffatta conoscenza? Questo meccanismo circa la consapevolezza della nostra conoscenza è ben espresso dall’effetto Dunning-Kruger (EDK), secondo cui i meno esperti tendono a stimare il proprio sapere come superiore alla media, risolvendo la propria percezione soltanto in una distorsione cognitiva.
Sapere ed essere in grado di servirsi del proprio intelletto, tuttavia, sono faccende singolari rispetto a molte altre di nostro quotidiano interesse. Quando scaliamo una montagna, solitamente ne scorgiamo la vetta e, dunque, abbiamo la possibilità di comprendere quando la nostra scalata sia conclusa. Ma si immagini di scalare una montagna da ciechi: non avendo la possibilità di vedere la cima, potremmo illuderci a qualunque altezza di averla raggiunta e, quindi, saremo legittimati a fermarci, piantare la nostra bandiera e festeggiare l'arrivo.
Si potrà obiettare che, tuttavia, le cose non stiano così. Se io, per esempio, volessi imparare a suonare uno strumento musicale e mi illudessi di essere divenuto un musicista in poco tempo mi basterebbe confrontarmi con altri musicisti per rendermene conto del mio livello. Difatti, benché non tutti siano in grado di rendersene conto, per tante cose questa possibilità esiste: è dunque possibile scorgere la vetta e rendersi conto di non essere giunti in cima.
Quello del pensiero, tuttavia, è un caso a sé.
Quasi tutte le persone sono convinte di possedere una certa sapienza, di conoscere la risposta a molti interrogativi, di sapersi servire della propria intelligenza, di esser capaci a pensare, di avere compreso il senso di ogni cosa. Mi sia concesso il bisticcio di parole: la maggior parte di queste, non sapendo più di ciò che sanno, non possono sapere che vi sia tanto altro da sapere e che la loro sapienza si risolva, in realtà, in una grande ignoranza. Alcune personalità, più contenute e incline al dubbio, dispongono della capacità, misurandosi con qualcun altro, di capire che vi sono tante lacune da colmare, proprio come per il musicista: questa gente è socratica a se stessa. Ma troppi sono quegli individui che si comportano come lo scalatore cieco.
Questo, lungi dall’essere un male per il loro vivere, è invece un male per chi dovrà confrontarsi con loro o, addirittura, dovrà scendere a compromessi, trovare accordi. Come dar torto a chi per primo osservò che esser stupidi sia come essere morti, ossia una sofferenza per gli altri!
Così, gli incoscienti rimangono fermi nelle loro solide convinzioni e bloccano tutti quei processi che consentirebbero un rinnovo e che coincidono pure con le necessità di quei pochi che sono costretti a sopportare il vivere nella loro stessa comunità, giacché rivoltisi a sforzi maggiori e alla conquista di una maggiore consapevolezza. In altri termini, nella nostra società gli incoscienti riescono a esercitare la propria libertà di non-pensiero, privando i più consapevoli di esercitare la propria libertà di pensare. E, così, l’uguaglianza e le pari soddisfazioni periscono nel piegarsi di questi ultimi.
Una nota è importante, affinché ciascuno sia messo in guardia prima di proseguire. Siamo soliti scorgere questi difetti negli altri e quasi mai in noi stessi. Sarà dunque facile, per i gentili lettori, trovare accordo con queste parole e, tuttavia, escludere se stessi dalla cerchia degli incoscienti. Ma, si badi, non v’è errore più grande, per la attività del pensare, che quello di rivolgersi unicamente all’infuori di se stessi, misurando le sole capacità altrui e dando le proprie per scontate.
Il superamento dell’ignoranza, infatti, non avviene in altra maniera che in quella di avere come bersaglio le proprie convinzioni, le proprie credenze, le proprie idee. E questo scritto cercherà quindi di orientare il tiro dei lettori verso tale superamento, verso un’auto analisi e, infine, verso il proprio scandalo.
2. L’arte di non delirare
Sarebbe auspicabile un mondo in cui gli individui spostassero i propri sforzi verso l’esercizio della ricerca, la propensione alla conoscenza e allo studio. Con ciò non si chiederebbe comunque un mondo di scienziati, intellettuali, filosofi: si pretende, semplicemente, un mondo capace di definire un sistema di priorità, mediante una certa consapevolezza. E la pretesa deriva, in ultima analisi, dal riconoscimento e il sostenimento dell'uguaglianza negli odierni sistemi democratici.
La scienza contemporanea mostra, oggi più di prima, quanto ciò che esiste sia decisamente più mirabile e interessante di ciò che l’umana fantasia, o quella condivisa da millenni con vasti gruppi di umani, siano in grado di congetturare. D’altronde, la fantasia può creare qualcosa di inesistente, sia anche soltanto nel pensiero dell’essere umano, ma essa non può che servirsi di elementi conosciuti: il cavallo e il corno possono produrre l’unicorno; senza l’uno o l’altro tale figura non potrebbe, tuttavia, esser neppure immaginata.
La scoperta, così, ha il potere di fornire nuovi elementi e questi nuovi elementi sono fondamentali alla produzione immaginativa, la quale è motore di ogni processo creativo.
Vedete bene che l’immaginazione della natura è molto, molto più grande di quella dell’uomo. Non ci fosse stata l’osservazione a insospettire gli scienziati, a fare intravedere uno spiraglio, chi mai avrebbe immaginato una meraviglia come questa? (1)
Ogniqualvolta avvengano nuove scoperte, difatti, è possibile all’essere umano ampliare i propri orizzonti conoscitivi e, con quelli, pure l’immaginazione stessa, innescando un meccanismo in cui questi due elementi del pensiero siano in grado di mescolarsi e nutrirsi vicendevolmente, dando vita a un circolo di inestimabile valore.
Estraniarsi dal riconoscimento di questa «meraviglia», significa invece estraniarsi dal nostro tempo, quasi non meritarlo affatto e, come osservò Richard Feynman, «se non capite questo, non avete capito niente […] Non potete dirvi cittadini del nostro tempo se non sentite quanto è meravigliosa ed esaltante questa avventura» (2).
Tuttavia, non soltanto chi non abbia l’audacia e il coraggio di vivere si allontana da questa avventura, ma con grande incoerenza rispetto pure ai moniti che la cultura di provenienza afferma di avergli restituito – come quello di non giudicare gli altri (Mt. 7,1-5) – pretende che la propria paura sia un motivo sufficiente perché gli altri vivano come lui; pretende l’estensione del suo stato asinino al suo prossimo, giungendo perfino a schernirlo per il solo fatto di comportarsi diversamente da lui, ossia come un vero essere umano: come richiede la ragione.
Ma esiste un modo di ridimensionare questa condizione? Da cosa deriva questa paura?
Ebbene sì, esiste. Una tale paura deriva dall’ignoranza, la qual cosa produce deliri, spesso deliri neppure autonomi, ma veicolati da culture e religioni nelle quali gli umani vengono allevati alla stregua del bestiame, a solo scopo utilitaristico, fino al punto che l'utilità di tale allevamento venga dimenticata pure da chi lo promuova. E questo delirio, a sua volta, è una conseguenza dell’incapacità di saper leggere le immagini del mondo, discernendo ciò che è plausibile da ciò che non lo è.
Per questa ragione, nonostante me ne sia occupato già altrove, pare opportuno partire dall’immaginazione. E ciò perché, come osservò puntualmente Cristofolini, «anche il sonno dell'immaginazione produce mostri» (3).
L’immaginazione umana è una facoltà produttrice di immagini (come suggerisce la sua radice etimologica): una capacità del pensiero di rappresentare e operare attraverso di esse.
Mediante la memoria, e dunque la ritenzione di queste immagini stesse, può aver luogo quel meccanismo capace di innescare il ragionamento, laddove tali immagini non rimangano allo sbaraglio della sola immaginazione, ma passino al setaccio della ragione, divenendo elementi stessi del calcolo.
Nel caso in cui ciò non avesse luogo si darebbe infatti un’oggettivazione del mondo a partire dalle nostre fantasie, nella quale vengono riflesse le nostre personali disposizioni sugli oggetti della conoscenza, la nostra maniera abitudinaria di intendere il mondo circostante.
La mente, così, servendosi di associazioni, deduce degli elementi minimi per facilitare siffatto processo e tali elementi sono inevitabilmente scelti a partire dalla frequenza delle immagini a cui essa è sottoposta abitualmente.
Durante una conferenza a Selinunte, alla quale fui spettatore, Umberto Galimberti osservò che se mandassimo all’interno di una foresta un poeta e un falegname il primo scorgerebbe poesia, mentre il secondo vedrebbe dei mobili. Questo esempio appare, invero, adeguato a spiegare siffatte associazioni: infatti, è chiaro che le esperienze passate di ciascun individuo, così come la sua maniera più usuale di affrontare i giorni, lo indurranno a interpretare le cose secondo gli scopi a cui egli è usualmente impegnato.
Partendo da una considerazione di questo tipo intorno al funzionamento abituale della nostra capacità immaginativa, è facile comprendere che, per esempio, da un punto di vista politico, controllare le volizioni di un popolo sia un obiettivo raggiungibile attraverso una buona politica dell’immaginazione. Una siffatta politica, peraltro, non si esaurisce solamente nel dominio delle teocrazie, o dei poteri istituiti attraverso l’uso di immagini e moniti religiosi: ciò vale, infatti, pure per l’uso frequente degli slogan, mezzi comunicativi comuni soprattutto alle tribune populiste, molto diffuse nella contemporaneità.
Benché quanto fin qui considerato mostri, di primo acchito, il lato più oscuro dell’immaginazione umana, esso dimostra già, nondimeno, che esiste una maniera di servirsi coscientemente e utilmente dell’immaginazione.
Laddove l’attività della ragione appaia essere un processo attivo che richieda tanto sforzo quanto impegno, quando gli umani immaginano sembrano invece inclini alla passività. Sarebbe così possibile considerare l’immaginazione alla stregua di un ricettore passivo, inconscio, un contenitore magnetico di idee e formulazioni che non seguono alcuna legge specifica, se non quella di questo associazionismo spontaneo.
Certo è, d’altro canto, che sia possibile immaginare volutamente, si badi. Un esercizio mentale potrebbe pure in questo istante dare ai gentili lettori dimostrazione di ciò: scegliendo di visualizzare qualcosa e, successivamente, di volerla scomporre o ricomporre secondo il proprio piacimento, ciò appare infatti possibile. Ma il corso dell’immaginazione, se essa non venisse domata, sarebbe libero, unicamente necessitato da se stessa e dalle leggi del caso in maniera del tutto passiva – o meglio, dall’incameramento dell’esperienza soggettiva nel corso della vita dell’individuo, organizzato in maniera inconscia.
Al contrario, la ragione appare seguire dei percorsi organizzati e meglio definiti, che consentono la definizione di una conoscenza che possa dirsi, almeno approssimativamente, vera.
Baruch Spinoza sosteneva che quando un’idea giunge all’immaginazione senza proseguire al successivo livello della ragione si ottiene un «ente di immaginazione», un’idea che può esser vera, ma che molto probabilmente sarà contraffatta dei nostri pregiudizi, dalle nostre abitudini e quindi, il più delle volte, come mostrato dagli esempi precedenti, sarà falsa. Al contrario, la certezza avverrebbe, secondo il filosofo olandese, quando un’idea viene passata all’esame della ragione: così, è possibile ottenere una conoscenza più adeguata, una conoscenza che René Descartes avrebbe definito «clara et distinta».
Ecco quindi che l’immaginazione diviene una facoltà fondamentale al pensiero, un livello necessario alla conoscenza, un gradino a fondamento del sapere umano stesso. E ciò perché quant’è vero che essa sarebbe l’unica facoltà produttrice di errore e falsità, data la sua spontanea passività, tant’è vero che essa sia una facoltà, forse l’unica, in grado di procurarci delle idee e, dunque, delle componenti utili, fondamento imprescindibile del nostro processo conoscitivo.
Alla domanda da dove vengano le idee Richard Feynman rispose infatti che la loro «origine vera è sconosciuta, la chiamiamo “immaginazione”», per poi stupirsi del fatto che «molti non credono che nella scienza ci sia posto solo per la fantasia» (4); fece lo stesso Edward Wilson, in un passaggio della sua Biofilia, osservando che «la scienza non è soltanto analitica, ma sintetica. Fa uso dell’intuizione e dell’immaginazione proprio come fa l’arte» (5).
Esercitare l’immaginazione, considerarne la capacità e l’importanza è dunque qualcosa di fondamentale non tanto ai fini di una incondizionata e immotivata esaltazione del delirio, quanto invece proprio per apprendere l’arte di non delirare.
Perfino per la produzione tecnologica, artistica, o di qualunque altra tipologia, l’immaginare è imprescindibile alla mente umana. L’uccello vola, dunque volare sembra possibile: concepiamo i velivoli. Certo è che la realizzazione non segue i tempi dell’immaginare; ma è altrettanto vero che dall’immaginare ha inizio la genesi del percorso atto alla sua realizzazione, il processo mediante il quale ciò che è fattibile viene tradotto, laddove possibile, dall’essenza, nel pensiero, all’esistenza, nella realtà.
Quantunque siamo soliti considerare l’immaginazione in termini infantili, quasi come se essa fosse un gioco per bambini, una maniera di estraniarsi dalla realtà, l’immaginazione pare trovarsi altresì a fondamento delle idee più razionali, così come della pura emotività, del suo esercizio e del suo controllo. Essa permette di entrare in contatto con gli elementi primari attraverso cui l’intelletto possa operare attivamente. Tali elementi sono quanto necessiti di essere riletto, letto all’interno di noi stessi, la qual cosa espleta il significato vero di ciò che intendiamo per intelligenza (intus-legere), ossia la capacità di «leggere dentro».
L’immaginazione si trova pure a fondamento del servirsi adeguatamente della memoria. Da Simonide di Ceo a Cicerone, da Pietro da Ravenna a Giordano Bruno, e così via dicendo, tutte le tecniche mnemoniche più funzionali alla mente umana poggiano sulla fantasia, sulla capacità di immaginare. Dall’associazione mnemonica, ai loci ciceroniani, alla conversione fonetica: più immaginazione si possiede, più la si esercita (giacché esercitarla è infatti possibile), più è possibile aumentare la capacità umana di memorizzare facilmente.
Da giovane ebbi la fortuna di venire a conoscenza di siffatte tecniche mnemoniche partecipando a un corso sull'uso delle mnemotecniche. Un giorno il nostro insegnante ci lasciò un compito da svolgere a casa: per la lezione successiva ciascuno di noi alunni avrebbe difatti dovuto trovare cento maniere assurde per svuotare una bottiglietta d’acqua. Se bere dalla bottiglia parrebbe quanto di più ovvio possa venirci in mente, con maniere assurde si intendono modi fantastici attraverso cui farlo. Un esempio fornitoci poteva essere quello di immaginare di rimpicciolire noi stessi, attraverso l’uso di uno strumento fantascientifico, e cominciare a svuotare, mediante l’impiego di minuscoli secchielli, l’acqua della bottiglia, nella guisa di un avanti e rivieni assimilabile a quello di alcuni minatori nell’atto di svuotare una cava.
Ciò, agli occhi dei gentili lettori, risulterà forse assurdo. Ma sta proprio nell’ordine dell’assurdo il punto focale dell’esercizio della capacità immaginativa. Parrebbe, difatti, che il nostro cervello sia in grado di immagazzinare informazioni e di ritenerle con maggior solidità quando tali informazioni vengano associate a immagini capaci di indurre in noi un certo stupore, come vale per i paradossi, per le immagini macabre, per quelle erotiche e quant’altro. In termini mnemonici, questo tipo di associazione è definita attraverso l’acronimo P.A.V., che starebbe a significare: «Paradosso, Azione, Vivido».
L’implementazione delle tecniche, ossia la possibilità di farle funzionare in simbiosi tra loro, consente poi di immagazzinare sempre più informazioni in maniera di volta in volta più solida. Ciò è quanto avviene quando tali associazionismi vengano sposati ad altre tecniche, come quella dei loci ciceroniani, e cioè quella che unisce le informazioni a degli ambienti o a degli oggetti di cui conosciamo caratteristiche e ubicazione, o di cui inventiamo tali caratteristiche purché siamo in grado di ricordarcene a oltranza; o quando vengano utilizzati unitamente alla conversione fonetica, attraverso la quale si può creare un legame tra i suoni consonantici e i numeri, sì da poter ricordare facilmente anche serie numeriche, formule e quant’altro.
Tuttavia, quanto è di interesse a questa argomentazione non ha a che fare con una spiegazione circa l’uso delle mnemotecniche, ma ha lo scopo di evidenziare piuttosto come la facoltà immaginativa possa risultare di singolare utilità per scopi che esulano dall’utilizzo ludico che di essa ne farebbe un bambino. L’immaginazione, così, parrebbe essere utilissima al nostro processo conoscitivo, al punto tale che in sua assenza sarebbe forse impossibile dar luogo a conoscenza alcuna.
Attraverso questi esempi, naturalmente, non si vuole determinare la maniera in cui funzioni esattamente l’immaginazione umana, né tantomeno si vuole assumere una comprensione definitiva dell’intero nostro processo conoscitivo – dinanzi alle grandi scoperte della scienza contemporanea queste considerazioni sono ormai tenui.
Qui non si trattano argomenti fisiologici, ma si promuove un’educazione del pensiero, qualcosa che si tende erroneamente a credere, in un mondo sì specializzato, che possa essere lasciata a ciascuno per se stesso in totale autonomia.
Scopo di questa fase argomentativa è quindi osservare come la fantasia, che pare essere così distante dall’odierna idea di concretezza, sia altresì uno strumento segnatamente pragmatico, utile, attinente alla realtà e alla manipolazione di essa. Inoltre, la sua potenza non può soltanto essere controllata, ma pure accresciuta, esercitata. E non soltanto può essere: essa deve essere controllata.
Si suole attribuire l’atteggiamento fantasioso all’infante, laddove la di questi fantasia sia l’unica veramente utile alla vita umana, tale che non dovremmo mai rischiare di smarrirla nel corso della nostra crescita e formazione. Se ne prova vergogna, crescendo. Al contrario, vengono accettati, istituzionalizzati e, più o meno direttamente, imposti i deliri dell’immaginazione comune, dalle religioni istituzionali che hanno ammutolito individui audaci per millenni, con politiche povere d’intelletto che tutt’oggi continuano a giocare sulle debolezze volgari, che in Occidente hanno assunto ormai le sembianze un’infezione culturale impossibile da sradicare, ereditata millenni addietro e perpetuata talmente adeguatamente da aver soltanto irrobustito la sua statura, digerita la sua credibilità.
Perfino volerla definire «immaginazione comune» sarebbe un’offesa al senso fin qui esposto dell’immaginazione umana. Immaginare implica una certa libertà, non già la disposizione di una necessità impostasi inconsciamente in ognuno di noi. Definire una così intrinseca contaminazione intellettuale, nella quale vengano date per assiomatiche le visioni metafisiche ed etiche che concernono la vita di tutti i giorni, nostra e altrui, come un esercizio comune dell’immaginazione è oltremodo depauperante per il significato della fantasia stessa. Quest’ultima può essere esercitata anteponendole la libertà e non rendendola coatta a delle immagini preconfezionate e mai messe in discussione, poiché reiteratamente accettate da chiunque nel corso dei secoli. Anzi, avendo abituato a chiunque provi a uscire fuori dal perimetro di tali sciocchezze – nel migliore dei casi – alla propria derisione.
L’intera vita umana è fatta prevalentemente di immagini. Tralasciare alcuni argomenti, come questo dell’immaginazione, alla stregua di superflui non permette all’umano contemporaneo di concentrarsi a pieno titolo su quanto egli consideri apparentemente più concreto e, dunque, utile alla vita di ogni giorno, ma al contrario rischia di allontanarlo dalla comprensione di ciò che viene dinanzi a ogni sua conoscenza, a ogni comprensione del mondo, a ogni scoperta, ragionamento, giudizio: e cioè se stesso.
Ripensando al motto dell’Illuminismo e premettendo un invito a rifiutare la passività e, dunque, a promuovere un uso corretto e misurato dell’immaginazione, bisognerebbe dire a ogni essere umano: «abbi il coraggio di servirti della tua immaginazione».
Perché immaginare è spontaneo, non delirare un’arte.
3. I vizi della conoscenza sensibile
Affinché l’immaginazione non lasci l’essere umano nella sola condizione di produrre idee e conclusioni false è necessario che le sue immagini vengano esaminate da un punto di vista logico. Un tale punto di vista implica, tuttavia, una certa considerazione di cosa sia, o sembri essere, la logica.
La logica, in questo panorama di cose, si presenta come un sistema di regole; meglio, come l’esemplificazione delle dinamiche di calcolo proprie dell’intelletto umano. Essa, insomma, ne descriverebbe la forma.
Se volessimo essere ancora più puntuali, osserveremmo che essa è la descrizione del funzionamento dell’intelletto stesso, la sua lingua. Se infatti contassimo due oggetti dinanzi a noi, essi non sarebbero né «due» né «oggetti»: tali appellativi servono, dunque, a nient’altro che al nostro intelletto per organizzarli in maniera ordinata e potersene servire per i suoi fini. Con i termini «due» e «oggetti» noi non parliamo la lingua della natura, ma descriviamo il funzionamento del nostro intelletto, la sua forma, attraverso l’uso dei suoi termini.
Benché il termine «logica» tenda, quasi fosse una sineddoche, a essere assimilato con una sua componente, ossia la logica matematica, essa si estende nondimeno ad altre tipologie di fattori – come nel caso della logica proposizionale, per esempio. Ciononostante, qui per logica si vuole intendere, in maniera sinottica e certamente più generale, un insieme di regole e comportamenti di calcolo che consentono all’intelletto di costituire una concatenazione dotata di senso, così come sogliamo intenderlo, che si serve degli oggetti della nostra esperienza quotidiana – laddove con oggetti non si intenda, com’è uso comune, qualcosa di necessariamente concreto, ma se ne prenda il suo senso etimologico, ossia ci si riferisca a qualcosa che è posto al centro della conoscenza del soggetto, come pure un concetto astratto.
Per riuscire nell’esercizio adeguato dell’immaginazione è quindi necessario parlare questa lingua.
Tuttavia, come già osservato, il cervello umano è contraddistinto da una costitutiva pigrizia: ogni volta che un processo atto al raggiungimento di un fine venga migliorato, accelerato, semplificato, esso sceglierà spontaneamente il nuovo e più immediato meccanismo. È dunque necessario opporsi a questa pigrizia e, proseguendo, vedremo come.
Altrove ho trattato dell'estetica di Alexander Baumgarten, dunque non spenderò nuovamente troppe parole in merito. Tuttavia, trattandosi di uno scritto sul metodo, è necessario quantomeno accennarne.
Baumgarten, con il suo manuale Aesthetica, definisce lo scopo di questa omonima disciplina filosofica a partire dall’origine del termine stesso, rintracciabile nel latino aesthesis, ossia «sensibilità». Secondo la definizione del filosofo tedesco, l’estetica sarebbe dunque «la scienza della conoscenza sensibile» (6).
Ancorché il termine «scienza» nell’uso del suo fondatore debba essere declassato, o comunque considerato con cautela rispetto a ciò che intendiamo con esso ai giorni nostri, vista l’impossibilità di condurci all’esattezza del calcolo, l’estetica si occuperebbe di analizzare il modo in cui il mondo, imprimendosi in noi attraverso i sensi, produca le nostre reazioni di natura emotiva, assertiva, e via dicendo. Essa, dunque, indaga le affezioni che riceviamo dagli oggetti che ci circondano, smascherando i pregiudizi nei nostri giudizi conoscitivi e nei comportamenti che, consequenzialmente, ne scaturiscono.
La descrizione che scaturisce dall’estetica è, diversamente dalla scienza, di natura qualitativa: essa, infatti, non giunge a un’esattezza, ma produce utili punti di vista. Se nel caso della scienza, per esempio della fisica, avviene infatti una descrizione quantitativa (ragion per cui è possibile ottenere risultati molto più affidabili), nel caso delle descrizioni qualitative non è possibile giungere a una forma di esattezza, ma vi è comunque la possibilità di moltiplicare i punti di vista, potendo così concepire i nostri giudizi in maniera più peregrina e adeguata.
Ciò potrà sembrare cosa da poco, ma quanto seguirà potrebbe dimostrare il contrario. Rimane infatti aperto l’interrogativo: a cosa dovrebbe servire una descrizione inesatta? Partiamo da un esempio.
Se immaginassimo di trovarci davanti a un mammifero e a un insetto, ci renderemmo conto di come la nostra maniera più spontanea di rapportarci ai due differirebbe enormemente. Pensiamo ad alcune ragioni che potremmo addurre: il mammifero, essendo un nostro parente più prossimo, ci risulterebbe più bello alla vista, più piacevole al contatto, più familiare alla comprensione; l'insetto, invece, essendo notevolmente più distante da noi in termini specifici, non soltanto ci restituirebbe il contrario di quanto non accadrebbe col mammifero, ma probabilmente produrrebbe in noi un'azione di spontanea avversità nei suoi confronti.
Inutile dire che entrambe queste condizioni sarebbero spontanee presunzioni, non già validi giudizi intorno ai due animali. E ciò che è importante tenere a mente al momento è proprio che tali maniere di presumere gli oggetti della nostra conoscenza, considerandoci soggetti conoscenti, vengono contaminate istintivamente dalla nostra natura e dalle nostre individuali disposizioni.
Tornando all’esempio, se ben si nota, essi differiscono per caratteristiche formali e costitutive. In nessun modo, tuttavia, appare logico concludere che l’uno sarebbe migliore dell’altro; che l’uno possiederebbe un primato sull’altro.
Tali conclusioni qualitative avrebbero infatti a che fare unicamente con il nostro gusto: le cose, infatti, «non sono più o meno perfette perché dilettano o offendono i sensi degli uomini, perché si accordano con la natura umana o le ripugnano» (7).
Non riuscire ad accorgersi di questo fatto è sovente causa di una grande incoscienza tanto verso la vita nostra e altrui. È causa di molti mali e violenza, dal momento che nella maggior parte dei casi quest’ultima non è altro che l’effetto di siffatto stato di istintiva pochezza rispetto al nostro conoscere e, di conseguenza, agire. La violenza è, nella maggior parte dei casi, un prodotto dell’ignoranza, non già dell’intenzione stessa di ricercarla e compierla.
A partire da ciò è possibile comprendere che l’importanza dell’estetica non stia unicamente nel mondare il nostro processo conoscitivo, il nostro approccio al mondo in termini descrittivi: essa intrattiene altresì un legame indissolubile con l’etica, dal momento che le nostre considerazioni sul mondo divengono i moventi a partire da cui hanno luogo i nostri comportamenti, le nostre reazioni, le nostre azioni verso ciò che ci circonda. Ecco, dunque, a cosa serve l’estetica.
Estetica ed etica sono uno (8).
Il problema estetico preso in esame, tuttavia, non è certamente isolato. A ben vedere, esso richiama all’attenzione anche il concetto di antropocentrismo, termine con il quale si può intendere una concezione della vita in cui l’uomo risulti al centro di ogni cosa. L’atteggiamento antropocentrico pone inoltre l’essere umano nella condizione di ritenere le cose del mondo come disposte per il suo utilizzo, per la soddisfazione delle proprie necessità.
Laddove dovremmo ritenere che i nostri organismi esistano in quanto adattatisi alle condizioni del mondo, al contrario, spesse volte pensiamo infatti che sia il mondo a essersi adattato a noi. Così, avendo la necessità di respirare per vivere, pensiamo che l’ossigeno esista per permettere la nostra respirazione, piuttosto che la nostra esistenza sia possibile in quanto esseri dotati della capacità di respirare l’ossigeno già presente nell'ambiente. Allo stesso modo, notando che il dissetarci è necessario alla nostra sopravvivenza, non pensiamo di esistere perché il nostro organismo è costituito in maniera tale da adattarsi al bere acqua, ma pensiamo piuttosto che l’acqua esista per soddisfare la nostra necessità di bere.
Così, siamo inclini a concepire il mondo come se ogni cosa fosse disposta per noi, come se tutto non fosse che un insieme di mezzi per soddisfare la nostra vita. Ed è questo atteggiamento egocentrico e megalomane, che conduce gli umani a ritenersi i protagonisti, se vogliamo, della vita.
Ciò non è che l’espletamento della visione antropocentrica. E talvolta, in base al contesto sociale in cui un individuo umano cresce, siffatta visione è accompagnata e irrobustita da una concezione egocentrica, che porta il soggetto a ritenersi al centro dell’esistenza.
A questo atteggiamento se ne affianca, in maniera del tutto indissolubile, un altro: l’antropomorfismo, e cioè il conferire alle idee e alle immagini delle caratteristiche, sembianze e facoltà affini a quelle umane.
Spinoza osservò, opportunamente, che l’umano giudica le cose secondo le disposizioni del proprio cervello e che, dunque, piuttosto che comprenderle, alla fine, le immagina. Così, considerò pure come il popolo suole spiegare la natura con nozioni che sono tutte modi dell’immaginazione e che non rivelano niente rispetto alla natura, ma solo come sia fatta la loro immaginazione stessa. Egli condusse i suoi ragionamenti prima della nascita ufficiale dell’estetica di Baumgarten e, nondimeno, parrebbe essere uno dei pensatori che più si servirono, spontaneamente, dell’applicazione di un metodo gnoseologico che seguisse dei parametri propri dell’estetica.
Questo meccanismo di proiezione dell’immaginazione personale è naturale ed è spesso derivato dalle nostre emozioni, dalle nostre paure, da una necessità di riunire tutto sotto il nostro controllo. Questo esercizio del controllo non è che un modo per rassicurare l’essere umano nella sua vita e per aiutarlo a dipingere quest’ultima su una tela circoscritta da una cornice di suo gradimento.
Proviamo a servirci di un altro esempio. Quando vediamo un gatto strusciarci alla nostra gamba, istintivamente siamo indotti a pensare che si tratti di un gesto affettuoso. Diversi studi hanno tuttavia mostrato che un tale gesto possa essere sì una dimostrazione affettiva, ma principalmente una maniera dell’animale di marcare il proprio territorio, di sentirsi sicuro (9). Quale sia la ragione assolutamente esatta per cui ciò accada non è, in ogni caso, d’interesse a questo argomento. Quel che è utile a esso è invece il fatto che noi, vedendolo strusciarci, siamo istintivamente indotti a pensare che si tratti di un gesto di affetto.
Il perché formuliamo un’ipotesi di questo tipo è molto semplice: non si tratta, infatti, che di una maniera di trasporre per analogia un nostro comportamento su quello dell’animale: lo struscìo tra due esseri umani, infatti, quasi sicuramente avrebbe l’intenzione del coccolarsi affettuosamente. È vero che non siamo soliti vedere individui umani strusciare la propria testa, o una spalla; ma in fin dei conti la carezza non è che un corrispettivo adeguato, dal momento che il gatto non è solito utilizzare le zampe alla maniera in cui noi siamo soliti utilizzare le nostre mani.
In ogni caso, il meccanismo alla base espleta chiaramente che la nostra ipotesi per rispondere alla domanda intorno al suo comportamento, quello cioè dello strusciarsi, non sia che il risultato di una maniera in cui siamo soliti concepire quel comportamento se fossimo noi, al posto del gatto, a compierlo.
Così avviene per tanti altri plausibili esempi. Quel che conta, per tirare le somme, è sempre il meccanismo alla base: è tutta una questione di metodo e, nello specifico, una questione di estetica.
Il nostro metro di giudizio per comprendere le cose che ci stanno attorno siamo sempre noi stessi e, nella guisa dell’antropomorfismo, non facciamo che attribuire le nostre caratteristiche, le nostre facoltà, i nostri comportamenti, la nostra forma alle cose che ci circondano.
L’antropocentrismo e l’antropomorfismo, così come i tanti concetti che siamo soliti assolutizzare, dal momento che ci appaiono come preesistenti rispetto a noi stessi e insiti nella natura delle cose, sono la sintesi degli errori a cui si è appena fatto riferimento.
L’umano pensa, come si è detto con l’esempio dell’ossigeno e dell’acqua, che il mondo sia stato creato al fine di servirlo. Così, le cose della natura appaiono quasi tutte come mezzi per soddisfare le sue necessità. Ognuno di questi pensieri è tuttavia incredibilmente falso, nonché intellettualmente infantile. Le cose, infatti, non esistono per soddisfare l’essere umano; semmai l’essere umano esiste in quanto organismo in grado di adattarsi a tali cose e alle diverse possibili circostanze esistenti.
Nel rapporto con la natura, l’essere umano è inoltre un manipolatore – non un creatore. E questa sua inclinazione manipolatrice egli la ripropone non soltanto nel crearsi un’idea di se stesso, ma anche degli altri esseri umani, degli altri individui della Terra, animali e piante, e così anche di ciò che è invisibile ma che gli appare eminentemente necessario al vivere.
Così, l’umano sarebbe incapace a vivere senza crearsi una seconda natura, ossia quel surrogato di mondo prodotto artificialmente a cui alluse Arnold Gehlen. Ed è quasi impossibile che gli uomini non modifichino artificialmente le cose in senso favorevole alla loro vita.
Gli esseri umani sono come condannati biologicamente a dominare la natura attraverso mezzi che ne contaminano, giorno per giorno, l’adeguata comprensione. Per questo si fa necessario trovare un metodo adeguato per la conoscenza, prima che una vuota memorizzazione di nozioni: per non inciampare sui vizi della conoscenza sensibile.
4. Un po' di dolore
S'è detto che gli esseri umani tendano a conoscere le cose mediante l'impiego involontario di metodi conoscitivi antropocentrici e antropomorfi. Ugualmente, s'è considerato come ciascun individuo produca degli associazionismi spontanei eminentemente individuali in quanto connessi alla propria personale esperienza.
Il servirsi inevitabilmente di se stessi, tanto come agenti quanto come mezzi del conoscere, produce almeno due corruzioni sui nostri giudizi: una prima, come discusso in precedenza, è quella che riflette l’estensione del proprio modo di essere agli oggetti circostanti, cosicché le cose vengono concepite come se fossero affette e operassero alla medesima maniera in cui il soggetto conoscente è affetto e opera; una seconda, che non possiamo mai garantire a noi stessi una conoscenza completa di ciò che ci circonda e dobbiamo considerare sempre che conoscere le cose significa conoscerle attraverso noi stessi.
Abbiamo pure considerato come un problema di estetica produca un fallace giudizio conoscitivo e, come conseguenza di quest’ultimo, un comportamento etico inadeguato. D’altronde, una reazione avviene come prodotto di un’azione: l’impressione del mondo che ci procuriamo, così, ha come effetto il comportamento che scegliamo di praticare.
Quest’ultimo fattore è uno dei motivi per cui, al contrario di com’è diffusa opinione, gli studi umanistici possiedono un’importanza preliminare e propedeutica alla vita. Ugualmente, la scarsa considerazione di questi ultimi mostra come una società così tecnologica continui tuttavia a essere così banalmente violenta e inconsapevole.
Siffatta importanza della sapienza umanistica, infatti, della cui funzione si va smarrendo sempre più la consapevolezza, è necessaria per imparare come siamo fatti, come funzionino i nostri stati d’animo, il nostro modo di essere, di pensare e di agire. Benché la storiella di un romanzo possa apparire come qualcosa di accessorio alla vita, soprattutto se confrontato allo studio della medicina che ha come fine quello di salvarla nel suo senso più pratico, è nondimeno fondamentale alla comprensione di noi stessi e, allo stesso modo, quindi, anch'essa ha lo scopo salvarci.
Se leggo delle pene d’amore di un personaggio, sia pure frutto della fantasia dell’autore, conosco il decorso naturale di queste: sperimento i suoi stati d’animo, i suoi sentimenti, le sue passioni, le sue emozioni, la qual cosa significa conoscere come tutte queste cose abbiano luogo nella natura umana, quali siano i danni e i benefici che possono apportare e, pure, quale sia il modo più adeguato di rapportarci a essi.
C’è chi affermò che le emozioni si imparano e che non siano innate alla nostra natura. Se infatti esistesse in noi una conoscenza innata di cosa sia la depressione, allora dovrebbe esserci dentro di noi, parimenti, la soluzione a un tale stato di sconforto. Se così fosse, quindi, non vedremmo mai taluni suicidarsi per essa, irarsi per nervosismo e via dicendo, poiché ciascuno avrebbe dentro di sé, come s’è detto, tanto il problema quanto la soluzione adeguata ad affrontarlo.
Quel che notiamo, invece, è che tali cose devono essere apprese nella vita e solo così possiamo imparare a gestirle senza che siano esse a gestire noi. Non nasciamo con una completa e preliminare concezione di noi stessi: è nostro dovere, invece, vivere allo scopo di ottenerla.
Spostandoci su termini etici penso che un film come Oppenheimer (2023), diretto da Christopher Nolan, sia riuscito a gettar luce su questo argomento e sulla necessità della sua comprensione. Dobbiamo ricordarci che siamo umani, non infallibili macchine di calcolo, e che la nostra conoscenza ha uno scopo benefico soltanto se alla sua applicazione sottende altrettanta consapevolezza, una consapevolezza umana e, quindi, appannaggio dello studio umanistico.
Insieme a questo potere di fare nuove cose non abbiamo ricevuto un libretto di istruzioni che ci dica come usarlo, se per il bene o per il male; il risultato sarà buono o cattivo a seconda di come verrà usato […] Il più noto di questi squilibri è lo sviluppo dell’energia nucleare e i problemi che ovviamente comporta (10).
Feynman osserva che manchi un «libretto di istruzioni»: sicuramente un tale libretto manca di risposte, e tuttavia non si potrà dire che manchi di esempi, questioni, e interrogativi. Non posso entrare nel merito della formazione professionale statunitense, ma per lo meno posso affermare che gli italiani, nei loro programmi scolastici, hanno ricevuto il loro libretto di istruzioni: il problema è che non n’è mai stata spiegata l’utilità.
Sovente, difatti, sentiamo giovani domandarsi che scopo abbia studiare lingue “morte”; così come neppure i letterati stessi paiono in grado di saper definire il valore della letteratura in termini di pratica utilità, senza scadere in vuoti esercizi di romanticismo.
Ora, mi si potrebbe chiedere come il punto di vista umanistico possa arrogarsi il diritto di esprimere giudizi in merito alla scienza e nondimeno risponderei con Feynman stesso:
Secondo me, dire che si tratta di questioni scientifiche è una forzatura: sono più che altro problemi di natura umanitaria. Il fatto è che come far funzionare questo potere è chiaro, ma come controllarlo non è affatto ovvio, è un problema non proprio scientifico, e non è una cosa su cui gli scienziati sappiano molto (11).
Anche un genio della tecnica, se prima non comprendesse di essere umano, non soltanto sarebbe manchevole, inutile, ma perfino estremamente dannoso alla vita umana stessa. Egli potrebbe avere la cautela espressa da queste parole, nel riconoscimento della propria incapacità di esulare dal dominio delle questioni unicamente scientifiche, ma potrebbe anche non averla: potrebbe avere, all’opposto, una grande presunzione in merito, mutuata dalla sua grande capacità di spiccare nella disciplina di suo interesse, comportandosi secondo la sua impressione di essere nel giusto.
Per la conoscenza, l’importanza non è totalmente identica al superamento di un disagio o al saper godere di uno stato d’animo entusiasta, ma non è neppure così diversa. Esistono circostanze nelle quali non siamo inclini ad ammettere che le nostre opinioni in merito a qualcosa siano sbagliate, tante volte, non già per il solo orgoglio del non voler riconoscerci in torto, ma pure perché siamo, in qualche maniera, affezionati all’argomento.
Pensiamo a una persona che abbia speso l’intera sua vita nella devozione a una divinità e, un giorno, chiacchierando con qualcuno, dovesse rendersi conto di aver gettato tutte le sue attenzioni in qualcosa di falso: vogliamo credere che sia facile per costui abbandonare la sua idea in favore del nuovo punto di vista? Vogliamo forse pensare che questi non si scontri con l’eventuale ammissione a se stesso di aver vissuto nell’errore, con l’idea di aver sprecato la sua intera vita? Come potrebbe costui, dunque, scendere al compromesso di riconoscere il suo aver avuto sempre torto?
Pensiamo, pure, a un adulto che nella tradizione religiosa del luogo in cui è cresciuto ritrovi i ricordi della sua infanzia: sarebbe questi disposto, sia pure dovesse rendersi un giorno conto del fatto che tale tradizione perpetui uno stato di cose eticamente inaccettabile, a rinunciare all’egoistico senso infantile e di protezione che quello sfondo gli restituisce?
Se gli umani non sono tutt’ora capaci di avere atteggiamenti ecologici pur avendo figli che dovranno vivere le conseguenze di queste loro spregevoli scelte, pensiamo forse interessi loro qualcosa di tutto quanto appena chiesto?
Nonostante possa sembrare che una tale condizione si riferisca unicamente ad argomenti del genere, chi frequenta gli ambienti di studio sa bene che, talvolta, anche rispetto a teorie scientifiche e congetture filosofiche avviene lo stesso. Tante scuole di pensiero nella storia hanno lottato per salvaguardare i propri assunti, anche nel dominio della scienza, ove la di loro falsità era pure empiricamente dimostrabile, in maniera per nulla differente che nelle circostanze relative alla fede religiosa e a questioni analoghe. Molte teorie scientifiche hanno impiegato parecchio tempo a entrare nella comune concezione, a causa delle avversioni di studiosi a loro contemporanei, conservatori di teorie più storicamente radicate. Parimenti, abbiamo memoria di molti filosofi, soprattutto negli ultimi secoli, che non fecero altro che difendere le medesime cause con nomi differenti, facendo così un miscuglio di nuovi e vecchi nominalismi, per cui tra loro non si dissero veramente nulla.
Nel caso della scienza, ovviamente, il supporto del calcolo matematico concede più facilmente punti di incontro e cessioni rispetto ai propri pregiudizi; ugualmente, le constatazioni e le analisi empiriche permettono di conseguire lo scopo. Ciò non vuol dire, tuttavia, che non siano esistite e non esistano ancora diatribe di identica natura. E il motivo alla base è che non sia l’argomento a creare il discrimine tra la passione soggettiva e la comprensione oggettiva dei fenomeni, quanto piuttosto il mezzo necessario alla conoscenza dell’una e dell’altra, e cioè l’umano.
Così, è evidente che lo spirito che ci conduce nelle opinioni non è tanto diverso da quello che ci rapporta alla scienza: siamo umani nelle une e nelle altre circostanze. Ecco perché dobbiamo curarci, prima di essere scienziati, insegnanti, avvocati e quant'altro, preliminarmente, del nostro essere umani.
In altri termini, essendo tali dobbiamo sempre avere a mente il fatto che, a prescindere dall’oggetto in esame, saremo inevitabilmente contaminati, più o meno intensamente, dai nostri preconcetti, i quali non sono unicamente di natura culturale, ma sono ugualmente di natura costitutiva, frutto di disposizioni proprie della nostra natura più primitiva, che ha una tendenza conservatrice e avversa all'ignoto, per pure ragioni di sopravvivenza.
Per formare uno specialista a tutto tondo è sempre necessario costruire prima un umano consapevole. Anzi, la velocità della tecnica della contemporaneità ci impone, pena la nostra fine, di educare umani a pieno titolo. Galimberti nota bene quando ribadisce che «la nostra capacità di fare [abbia] superato la nostra capacità di comprendere gli effetti del nostro fare».
L’esempio dello struscìo del gatto offerto in precedenza dimostra adeguatamente quanto qui è inteso. Non si sta trattando, in un tale esempio, di un oggetto inintelligibile, di astrusa comprensione, infatti. Si sta trattando, piuttosto, dell’analisi del comportamento di un individuo che fisicamente è presente e può essere osservato, studiato. Tuttavia, come appare chiaramente, in entrambi i casi avvengono simili meccanismi. Il gatto si struscia e, dal momento che quando io accarezzo qualcuno sottintendo un gesto affettuoso, allora penserò, prima di tutto, che anche il gatto stia coccolando ciò a cui si struscia. Ciononostante, vedendo che il gatto si struscia tanto agli esseri senzienti quanto agli oggetti inanimati, mi rendo conto che questa mia opinione è alquanto improbabile o che, quantomeno, non può essere l’unico motivo alla base di un tale comportamento. Per superare questo giudizio fallace, dunque, ho bisogno di astrarmi, per quel che mi è possibile, dal mio modo di essere, di pensare e di agire usuale, cercando di immedesimarmi il più possibile nell’animale e privandomi delle mie naturali disposizioni. Parimenti, è necessario che io abbandoni la mia necessità edonistica di vedere l’atteggiamento del gatto come un gesto di gradito affetto, per quanto ciò demistifichi la piacevole immagine che possa farmi di lui e del suo comportamento. Così facendo, gradualmente, quantunque mai con una rigorosa esattezza, mi avvicinerò a una comprensione del fenomeno sempre più plausibile.
Mi preme aggiungere, a questo punto, alcune altre considerazioni riguardo a come dovrebbe condursi un adeguato metodo della conoscenza.
Ogni forma di miglioramento, quando a che fare con noi stessi, passa necessariamente per il dolore. Uno dei grossi problemi dell’individuo medio, sia esso più o meno scolarizzato e per quanto possa piacergli pensarsi intellettivamente superiore ai suoi simili, sta proprio nel rifuggire, per ragioni evoluzionistiche e del tutto fisiologiche, il dolore e cercare, spontaneamente, il piacere.
L'umano è naturalmente indisciplinato.
Abbiamo già puntualizzato, sia pur brevemente, circa la pigrizia del nostro cervello: nel momento in cui un meccanismo viene – per così dire – digerito, esso, pur essendo capace di modificare il suo metodo, in quanto capace di apprendimento, tenderà a riproporre quella che, una volta compresa, si configuri come la maniera più semplice per il raggiungimento del fine preposto. Basti pensare, in proposito, che evitare atteggiamenti sedentari richiede maggiori risorse corticali che scegliere, per esempio, di evitare l’attività fisica (12). Così, gli umani siamo strutturalmente avversi allo sforzo e inclini a rifuggirlo.
E così come due individui possono apparentemente seguire un medesimo percorso ginnico e tuttavia non raggiungere i medesimi risultati estetico-funzionali, in misura perfino maggiore accade con lo sviluppo delle capacità intellettive.
È il caso di sottolineare, a questo proposito, che in questa sede non verranno valutate le difformità di natura genetica, ma soltanto quelle derivate dall’apparenza di seguire medesimi percorsi e, tuttavia, conseguire diversi risultati.
Nel primo caso, quello della ginnastica, si usa infatti appellarsi alla genetica, laddove nella maggior parte dei casi si tratti semplicemente di un’incapacità di ascoltare il proprio corpo, di un’immaturità nella comprensione di se stessi e, dunque, di non riuscire a compiere le dovute attivazioni muscolari in specifici movimenti corporei. V'è da aggiungersi che nessuno si interessi, sia pure genericamente, della biomeccanica e, dunque, di come funzionino i movimenti corporei; né di comprendere le dinamiche basilari dell'alimentazione, quali i concetti di surplus e deficit calorico, affiancati da un'infarinatura sinottica dell'utilità dei macronutrienti.
Oltre ciò, in virtù di questa costitutiva pigrizia cerebrale, la difficoltà sta proprio nel contrastare la nostra naturale ricerca della comodità, che va a sfavore di quell'attivazione muscolare la quale, quando ben condotta e correttamente adempiuta, aumenta enormemente la quantità di dolore – o per lo meno di fastidio – piuttosto che ridurla. Gli individui che imparino a governare questa sopportazione allo svantaggio meccanico, infatti, raggiungono sempre grandi risultati. Molti, inoltre, dimostrano quanto sia più la disciplina che l'ausilio di carichi esterni o macchinari a sottoporre il muscolo alla sua crescita estetica e all'incremento della sua forza.
Il secondo caso, ovvero quello dello sviluppo dell'intelligenza, è ancor più complesso. L'equivalente dello stress muscolare per il pensiero è presentargli qualcosa che esso non gradirebbe. Il modo più immediato è allenarlo quantitativamente, in termini logico-matematici, che sarebbe un po' come aprire la porta di casa e costringersi a correre. Scegliere di allenare il proprio intelletto qualitativamente equivale invece a scandalizzarlo reiteratamente, a porlo in condizioni di disagio, soprattutto in termini estetici (aesthesis), e dunque sensibili, ed emotivi: per diventare più intelligenti e capaci a pensare è necessario sperimentare, quanto più possibile, disagio.
Cercare di capire in che modo funziona la natura mette a dura prova le capacità della mente (13).
Al di là della pigrizia costitutiva, a estinguere la necessità soggettiva di esporsi a questo disagio è la convinzione di essere intellettivamente superiori agli altri, o per lo meno dotati a sufficienza da non dover compiere altro sforzo. Questi sono effetti dell’antropocentrismo e, in maggior misura, dell’egocentrismo costitutivo dei singoli esseri umani.
A complicare questo processo quando si tratta del pensiero è inoltre l’astrattezza, l’intangibilità. L’individuo allenato, ha modo di fruire dei propri miglioramenti e di riconoscerli; così, un individuo fuori forma riesce perfettamente a riconoscere quando un altro individuo sia più in forma di lui.
Con l’individuo intelligente le cose cambiano. L’intelligenza ha infatti il limite di non poter riconoscere ciò che la supera, ciò che si trova oltre i suoi stessi confini e, come effetto, produce quello di ritenere se stessa al capolinea del proprio sviluppo: un individuo poco intelligente, difatti, non può comprendere un altro intellettivamente più allenato e capace; anzi, la sua tendenza sarà, molto spesso, quella di concepirlo come più sciocco di se stesso, spesso per il solo fatto di non comprenderlo. Ciò vale nel giudizio degli altri, ovviamente, e vale pure nel giudizio del nostro stesso intelletto.
Quel che tuttavia pare accadere con l’allenamento dell’intelletto sembrerebbe seguire dinamiche simili a quanto accade con il corpo, sicché due individui possono leggere le medesime informazioni, ma processarle in misura diversa, in base a quanto l’uno, più dell’altro, sia portato a cercare un’interpretazione di siffatta lettura in termini edonistici, e dunque rileggendo in un concetto la riprova del proprio pensiero al solo fine di compiacere la propria vana gloria, o disagianti, ossia cercando in ogni maniera di porre la propria visione del mondo in scacco.
E così com’è complesso cercare un’adeguata attivazione muscolare, poiché comporta una dose maggiore di dolore, ugualmente è complesso cercare un’adeguata ricerca del disagio per lo sviluppo della propria mente.
Seguendo sviluppi biologici del tutto coerenti, il cervello umano tende a manifestare il suo adattamento attraverso la capacità di rendere sempre più semplici e spontanee le sue applicazioni quotidiane. È chiaro, dunque, che nell’esecuzione di un movimento ginnico, il corpo venga indirizzato tanto a compensare attraverso l’uso di muscoli più allenati di altri, così come a cercare il metodo più comodo per portarsi a casa il movimento da eseguire e dire a se stesso di averlo compiuto. Dimostrazione quotidiana di ciò è come siano più gli individui a ricercare i sovraccarichi esterni nell’allenamento che a servirsi unicamente delle leve, sempre più complesse, che il proprio corpo può eseguire. Ancora, è possibile notare come gli individui meno allenati ricerchino sempre più macchinari od oggetti ausiliari all’infuori di ciò che il proprio corpo possa offrirgli per convincersi a entrare in una palestra. Basti pensare, infatti, che tutto il marketing su allenamento e diete non faccia che riproporre sempre ulteriori e assurdi modelli ginnici e alimentari, potendo ottenere, per via della mancata disciplina dei consumatori, profitti sempre maggiori: vengono pubblicizzate le diete più difformi, partorite discipline sempre più assurde, venduti esercizi sempre più strani, quando il problema alla base abbia quasi sempre a che fare con la volontà di concentrarsi, comprendere e sforzarsi.
Così, minore è la quantità di informazioni possedute, che nel caso dell’esercizio ginnico si tradurrebbe nella capacità di autonoma attivazione muscolare, maggiore è la necessità di cercare ausilio in qualcosa di esterno a noi.
Tutte queste, a ben vedere, sono dimostrazioni di quanto sia istintivo cercare una cura al fastidio perpetuando la speranza di poter, attraverso metodi più comodi, ottemperare allo stesso risultato. Ma ciò conduce sempre a una deficienza. Un esempio banale è quello della capacità di calcolo matematico, che dall’introduzione della calcolatrice è andata perdendosi sempre più, fino a diffondere un’incapacità di esecuzione pure dei calcoli elementari.
In questa guisa, l’unica maniera per promuovere un miglioramento di noi stessi è dunque l’esercizio di una vera e propria costrizione su noi stessi, una forzatura a scegliere quanto di più scomodo possa darsi, sia in termini fisici per il miglioramento della nostra fisicità, che in termini mentali per il miglioramento del nostro pensiero.
Nel primo caso, dunque, non rifuggire il fastidio di una buona attivazione muscolare dilungando inutilmente i tempi sotto fallace sforzo, bensì ricercare un’attivazione che rasenti l’insopportabile per un brevissimo periodo e mantenere, con il dovuto incremento, questa costanza nel tempo e nelle varie sedute di allenamento.
Nel secondo caso, infine, non rifuggire quanto alla nostra mente appaia non già poco plausibile, bensì perfino fastidioso: se leggere un libro ci sembra uno sforzo noioso da compiere, tuttavia è necessario sottoporsi alla disciplina di leggerlo; se un concetto è incapace di restituirci la costante riprova delle nostre convinzioni, è necessario domandarsi se queste ultime siano corrette o se ci faccia semplicemente più comodo credere che lo siano per non esporci all’idea di aver torto. E affinché questo domandarsi abbia luogo propriamente, esso deve avere come obiettivo primario quello di sconfiggerci, non di provarci e riconfermarci, cedendo alla prima obiezione in cui le nostre previe convinzioni paiono più solide e plausibili.
5. Il dubbio metodico e il piacere di scandalizzarsi
Come esposto in precedenza, ciò che è fondamentale tenere a mente ogniqualvolta vogliamo conoscere qualcosa nel migliore dei modi, è che ognuno di noi sia contraffatto dalla natura umana che ci è comune e, contemporaneamente, da tanti altri fattori più o meno individuali che derivano dalla nostra esperienza di vita individuale e comunitaria. In altri termini, così come gli umani pensiamo nella maniera che è usuale alla specie umana, allo stesso tempo siamo costantemente infetti e corrotti da abiti culturali, da esperienze acquisite, in comune ad altri così come individualmente, dagli ambienti in cui siamo cresciuti, dalle diverse circostanze con cui siamo entrati in contatto, e via dicendo.
Avere coscienza di ciò è fondamentale soprattutto quando vogliamo cercare di comprendere il mondo per come esso potrebbe essere e non per come ci sembri più congeniale osservarlo. Se storicamente gli esseri umani non fossero usciti dal proprio punto di vista, mettendolo in dubbio, essi continuerebbero ad affermare che il Sole giri intorno alla Terra, per esempio, o che la Luna sia propriamente una fonte di luce.
L’atteggiamento scientifico e filosofico trae gaudio proprio dall’incertezza; meglio ancora: esso è appagato dalla possibilità di dimostrare, tramite osservazioni empiriche o ragionamenti deduttivi, l’errore di una vecchia maniera di pensare e concepire qualcosa.
Lo scienziato cerca altre eccezioni e determina le loro caratteristiche, in un gioco che diventa sempre più emozionante. Non fa di tutto per evitare la caduta delle vecchie regole: il progresso sta nell’esatto opposto, è li che ci si diverte, perciò paradossalmente tenta il più in fretta possibile di dimostrare che stava sbagliando (14).
Così, appare evidente, da una considerazione di questo tipo, che il metodo più adatto da estendere all’intera vita di ognuno di noi, come suggerirono molteplici studiosi, da Leopardi a Feynman, è quello del dubitare. Il primo, per esempio, nel suo mirabile Zibaldone (1898), scriveva:
Il mio sistema introduce non solo uno Scetticismo ragionato e dimostrato, ma tale che, secondo il mio sistema, la ragione umana per qualsivoglia progresso possibile, non potrà mai spogliarsi di questo scetticismo; anzi esso contiene il vero, e si dimostra che la nostra ragione, non può assolutamente trovare il vero se non dubitando; ch’ella si allontana dal vero ogni volta che giudica con certezza; e che non solo il dubbio giova a scoprire il vero (secondo il principio di Cartesio ec. v. Dutens, par. 1, c. 2., §. 10), ma il vero consiste essenzialmente nel dubbio, e chi dubita, sa, e sa il più che si possa sapere (15).
E dopo, ma soltanto dopo, aver imparato a dubitare di noi stessi e delle nostre convinzioni, cominciare a dubitare pure di ciò che sacralizziamo: da un precetto religioso a una legge scientifica, da una concezione etica a una legge stessa.
Partendo dal presupposto di avere delle opinioni, ma essendo coscienti che tali opinioni non siano sicuramente vere, allora stiamo mettendo in pratica ciò che intendiamo con «dubbio».
È certo che dubitare sia qualcosa a cui è il caso di porre dei limiti, poiché se non si assumesse nulla come plausibile non si farebbe mai un passo avanti nella propria vita. Contemporaneamente, tuttavia, dubitare è necessario poiché i pregiudizi, e dunque la nostra irremovibilità rispetto a certe opinioni, creano il medesimo immobilismo.
Assumendo il dubbio a fondamento del metodo di un adeguato processo conoscitivo, accogliere lo scandalo diviene decisamente più facile.
Un’osservazione di pregio rispetto allo scandalizzarsi fu espressa da Pier Paolo Pasolini, durante la sua ultima intervista, realizzata in occasione della presentazione in Francia dell’ultimo film, Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975):
Io penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere e chi rifiuta il piacere di essere scandalizzato è un moralista, il cosiddetto moralista (16).
Cerchiamo di leggere questa affermazione al di là del romanticismo poetico che le genti sono solite sovrapporre ai significati delle cose.
Scandalizzare sarebbe un diritto poiché è tale, senza ledere alla vita altrui, l’esercizio libero dell’espressione, sia pure in maniera estrema, soprattutto se v’è l’intenzione di promuovere qualcosa di nuovo e conveniente al miglioramento. Essere scandalizzati sarebbe un piacere, poiché nella guisa di quanto detto fin qui, ancorché lo scandalo possa risultare disagiante nel breve termine, esso è quanto sia in grado di renderci più forti intellettualmente nel lungo. E che chi si opponga e rifiuti questo piacere, quello di essere scandalizzato, non sia che un moralista è quanto possa sovrapporsi perfettamente al modo di procedere dogmatico e deleterio usuale della società stagnante in cui viviamo, oggetto delle mie principali invettive.
È nella comprensione di un simile passaggio, come quello pasoliniano, che potrebbe essere data una risposta all'esistenza di certe opere, le quali taluni ritengono esser frutto unicamente di psicosi e instabilità dei propri autori, ma che in realtà, al di là del fatto che ciò possa anche esser vero, racchiudono in se stesse una profonda utilità.
Un famoso esempio è quanto ci riporta a pensare al prigioniero della Bastiglia di Parigi, François De Sade, il quale scrisse un’opera molto famosa e cruenta: Le centoventi giornate di Sodoma (1785) – peraltro libro al quale Pasolini si ispirò per il film appena citato. In quel libro l’analisi del potere viene fatta passare per scene truci e comportamenti di uomini alla stregua di macellai, psicopatici e tanto altro di raccapricciante.
Ci si potrebbe domandare che utilità abbia la sola esistenza di un simile romanzo, prima ancora del perché esso debba essere letto, ed è proprio in virtù delle suddette considerazioni che risulta possibile ricavare una risposta a questi interrogativi.
Una siffatta opera, infatti, non servirà né a dilettare il lettore, né a indurlo a trasformarsi in un pericoloso assassino: essa ha la profonda utilità, nondimeno, di porre l’essere umano di fronte a se stesso, presentandogli un estremo che, a prescindere dal fatto che si realizzi, rimane comunque sempre possibile.
Questa è certamente la motivazione a fondamento del primato che Bataille conferisce all'opera di De Sade, notando che «questo libro domina, in un certo senso, tutti i libri, poiché contiene la verità di quello scatenamento che l’uomo è nella sua essenza, ma che è obbligato a frenare e tacere».
Soltanto scoprendo la natura più cruda e violenta del nostro essere, in altri termini, possiamo imparare a comprenderla dapprima, ad accettarla poi e, infine, a domarla.
La crudeltà non è altro che la negazione di sé, portata a tali conseguenza che si trasforma in un’esplosione distruttrice (17).
Non è attraverso un imperativo che dica all’umano di «comportarsi bene», non dicendo di fatto nulla dal momento che non spiega neppure cosa il bene stesso sia; e neanche attraverso la soppressione aprioristica della propria natura, la quale comprende tanta luce quanta oscurità: abbracciando gli estremi del nostro essere possiamo, invece, riunirli in unica cosa, permettendogli di convivere in noi secondo virtù. Questa, per inciso, è pure una delle ragioni per cui spesso gli individui più violenti provengano dalle culture delle religioni rivelate: esse, difatti, non danno mai spiegazioni, ma dispensano regole dogmatiche. E, nondimeno, per non disperdermi rimanderò quest'altra analisi a un altro momento.
Tutto coadiuva, in ogni caso, nell'obiettivo di allenare la nostra intelligenza. Come ogni parte e ogni facoltà dei nostri umani corpi essa necessita, infatti, di allenamento. E come possiamo allenare il nostro corpo in svariati modi, così possiamo fare con la nostra intelligenza.
Possiamo stimolare un’ipertrofia muscolare parimenti con e in assenza dell’ausilio di pesi, e dunque di sovraccarichi esterni a noi. Tutto ciò dipende dalle nostre conoscenze motorie, anatomiche e alimentari. Lo studio, potremmo dire in modo un po’ riduttivo, fa le veci dei pesi, essendo uno dei modi più semplici e veloci – se sappiamo ben servircene – di allenare il nostro intelletto, la nostra memoria. Esso nondimeno alimenta la nostra immaginazione, parte fondamentale del nostro processo conoscitivo. Esso, infine, ci insegna come servirci adeguatamente della nostra ragione.
Cosa che, si badi, possiamo pure fare in sua assenza, “a corpo libero”, ma dobbiamo comunque già possedere delle conoscenze preliminari che ci mettano nelle condizioni di saper come fare, senza cadere nell’illusione di essere protagonisti della vita, e dunque dotati di qualche dono che ci renda aprioristicamente superiori agli altri.
Al di là dei benefici individuali che possiamo trarne, se vogliamo godere di una vita sana dobbiamo sottoporci tutti quanti a un po’ di dolore.
6. Interdisciplinarità, o immobilismo intellettuale
Quasi a voler fare uno sgambetto a chi pensasse di essersela risparmiata, in questo paragrafo è necessaria una breve trattazione riguardo la filosofia. La ragione di ciò, tuttavia, sarà chiara a breve.
Tale digressione potrebbe giovare, invero, a tanti addetti ai lavori, dal momento che spesso mostri più carenze chi dia talune cose per assiomatiche, più di chi non ne possieda conoscenza alcuna.
È tendenza diffusa quella di intendere, mediante l’impiego del termine «filosofia», qualcosa che si trovi in equilibrio tra il confine labile dell’utile e dell’inutile. E probabilmente è soltanto questa incomprensione la ragione per cui appare necessario fissare un perimetro di circoscrizione, capace di spiegare il suo posizionamento su uno delle due regioni stabilite dal suddetto discrimine.
La necessità di sbrogliare questa matassa non è dettata dal voler restituire alla filosofia un qualche posizionamento all’uopo di conseguire un certo primato, bensì ha lo scopo opposto di mostrare come l’utilità possa essere derivata anche da quella che, in maniera pregiudizievole, tendiamo a considerare come qualcosa di secondaria e poco importante.
Se bisognasse necessariamente trovare un colpevole per questa maniera così depauperante di intendere la filosofia, ritengo che bisognerebbe cercare pure tra i possessori delle medaglie accademiche e i conduttori degli studi cosiddetti filosofici. Non stenterei a credere, inoltre, che questi stessi sarebbero i più grandi polemici rispetto a quanto seguirà da qui in poi, poiché si tratta sovente di persone incapaci a comprendere il discrimine tra la ricerca e la divulgazione, tra la scienza contemporanea e il procedere della consapevolezza della società, tra l’indagine e l’utilità pragmatica del loro stesso pane quotidiano.
La parola «filosofia» deriva dalla parola greca philosophia, formata dai termini amore (philein) e sapienza (sophia), e viene tradotta usualmente con «amore per il sapere».
Anzitutto, è da rilevare la doppia accezione che questa dicitura conferisce al termine «sapere», poiché la derivazione greca non rimanda a esso in quanto verbo, ma in quanto nome: sapienza, abbiamo detto. Poi, è da ammettere la seconda accezione in cui, nella comune maniera di concepirlo, il sapere è inteso in quanto verbo, in senso propensivo. Con io so s’intende ammettere, infatti, di possedere una sapienza in merito a qualcosa, laddove io saprò è invece un tendere verso una sapienza: è proprio questa seconda maniera d’intendere che opera attivamente nell’individuo in cui si dovrebbe riconoscere un uso attivo della filosofia, dell’amore verso il sapere.
Questa attività sottintende, infatti, una «propensione», una tensione verso la conoscenza, e conferisce all’individuo lo stimolo della sua stessa curiosità: egli passa a incarnare l’umano che cerca, avido di conoscenza, che non si ferma all’opinione di quanto si dice o di quanto egli stesso crede, ma che si pone in un meccanismo di acquisizione di opinioni lontane nel tempo e nello spazio, così come di nuovi punti di vista intorno al mondo, alla natura delle cose, anche – e soprattutto – a costo di trarre quella forma di disagio che deriva dallo sforzo intellettuale e, sovente, dal piacere di scandalizzarsi.
Aristotele osservava che la filosofia nasca dalla meraviglia. In altri termini, secondo il filosofo stagirita, quest’ultima avrebbe luogo per via dello stupore derivato dal constatare la maniera in cui stanno le cose. Essa, a sua volta, sarebbe poi il motore della conoscenza, della brama di scoprire come queste cose, appunto, stiano veramente.
Proviamo però a giungere a trattare della filosofia non già mediante romanticismi aprioristici, bensì attraverso una breve digressione storica, servendoci di esempi di connessione tra il sapere prematuro dell’antichità e quello tecnologico contemporaneo. Si badi, tuttavia, che questa forma primitiva dell’antichità è rivolta all’attenzione verso il sapere, non già alla consapevolezza dell’essere umano.
Nell’antichità il sapere era povero, dunque più raccolto, più riunito. Un singolo essere umano poteva attivamente operare creando collegamenti fra le conoscenze in diversi campi d’indagine e quanto ciò fosse in grado tanto di giovare quanto di interrompere il processo della ricerca appare limpidamente già di per sé.
Immanuel Kant, nella prefazione alla sua Fondazione della metafisica dei costumi, descrisse suddivisione e struttura dell’antica filosofia greca:
L’antica filosofia greca si suddivideva in tre scienze: la fisica, l’etica e la logica […] Ogni conoscenza di ragione è o materiale e considera un qualche oggetto; o formale, e s’occupa semplicemente della forma dell’intelletto e della ragione stessa, e delle regole universali del pensare in generale, senza distinzione di oggetti. La filosofia formale si chiama logica, ma la materiale, che ha a che fare con oggetti determinati e con le leggi a cui essi sono sottoposti, si divide ancora in due parti. Infatti queste leggi sono o leggi della natura o della libertà. La scienza delle prime si chiama fisica, delle seconde etica; la prima viene anche chiamata dottrina della natura, la seconda dottrina dei costumi […] Ogni filosofia, in quanto poggi su fondamenti di esperienza, si può chiamare empirica; quella, invece che tragga le sue dottrine esclusivamente da principi a priori, si può chiamarla filosofia pura. Quest’ultima, se è semplicemente formale, si chiama logica; se invece è limitata a certi oggetti dell’intelletto si chiama metafisica (18).
Com’è possibile notare e intuire, siffatta partizione possiede un’intrinseca coerenza, ancorché non sia rinvenibile nella contemporaneità, data la quantità spropositata di studi e, ancora, l’estrema specificità degli stessi. Man mano che la sapienza, e dunque la collezione degli studi, andò accrescendosi, adempiere alla realizzazione della filosofia in senso ultimo cominciò, insomma, a divenire sempre più complesso.
Si provi a pensare, in qualche maniera, la filosofia come un rovo: durante la sua nascita e la sua giovinezza è facile scorgere tanto la sua provenienza sul terreno quanto le sue ramificazioni; tuttavia, a seguito della crescita, l’infoltimento delle ramificazioni rende quasi impossibile definire il punto del terreno dal quale la pianta sorga e, inoltre, diviene altrettanto difficile scorgere e riconoscere il fusto originario, dal quale sarebbero sorte tali ramificazioni: ecco, la filosofia funziona in maniera molto simile. E, per intendere al meglio la similitudine, si cercherà non già di partire dalla citazione kantiana, bensì di giungervi brevemente a ritroso.
Se si partisse dal considerare qualunque materia che abbia a suo fondamento il calcolo matematico, si giungerebbe, ovviamente, alla matematica stessa. Essa si occuperebbe, com’è noto, di quantità, di stime numeriche, di indagare i possibili percorsi logici formulabili tra diversi elementi. Tali percorsi logici non sono da confondere come fossero intrinseci alla realtà stessa, bensì da intendere – come già osservato – come una maniera di adeguare la conoscenza di siffatta realtà al modo di procedere naturale del nostro pensiero, “addomesticandolo”. Così, spogliando la matematica dei numeri e lasciandovi unicamente le dinamiche del calcolo, è possibile comprendere che essa non faccia altro che espletare possibili maniere di intendere la concatenazione di elementi propri del pensiero. Essa, infine, si risolverebbe nella logica, così come declinata dalla citazione kantiana, descrivendo la «forma dell’intelletto e della ragione stessa, e delle regole universali del pensare in generale».
Si pensi ora alla giurisprudenza, lo studio del diritto e della sua interpretazione. Volendo tuttavia intendere il diritto come una sintesi dei punti derivati dal comune accordo rispetto alle regole morali di una comunità: si giungerebbe, a ritroso, allo spettro di azioni conformi a valori universali propriamente intesi e, quindi, all’etica, e cioè al governo della libertà. Infatti, chi fosse schiavo, quindi necessitato – o coatto – da una guida che imponesse dei limiti al comportamento, non abbisognerebbe di curarsi del governo di se stesso, ma soltanto di adempiere ai limiti impostigli per scongiurare un’eventuale pena. Dunque, soltanto chi sia libero avrà bisogno di definire da sé i limiti del proprio comportamento. In una società civile e democratica, tuttavia, non è possibile lasciare in senso anarchico a ciascuno la possibilità di autoregolarsi (o, almeno, non a determinate condizioni); così, la definizione di queste regole diviene appannaggio delle istituzioni, che si occupano di interpretare e applicare le regole stabilite in un dato momento storico, cercando il più possibile di parlare per voce della maggioranza popolare. In questa guisa, dunque, l’etica diviene la «dottrina dei costumi», ovvero l’insieme dei discrimini che definiscono quanto sia considerabile giusto e utile e quanto, viceversa, sbagliato e dannoso; e, come osservato, ciò non sarebbe altro che la definizione delle leggi della libertà.
Infine, si pensi allo studio del comportamento degli eventi naturali. Che si tratti di micro o macrocosmo, che si parli del movimento di piccole particelle o degli astri, che si affrontino le dinamiche dei minimi o dei massimi sistemi del mondo e dell’universo: in ognuno di questi casi, vista pure la sua definizione etimologica, ci si starebbe riferendo alla fisica (φύσις, ossia “natura”). L’argomento in questione sarebbe, quindi, «la dottrina della natura» e lo scopo dell’indagine quello di comprenderne, della natura, le sue leggi.
Quando Isaac Newton formulò i suoi Principia, non lo fece da fisico, poiché non si era soliti definire chi studiasse la scienza della natura come «fisico». Il titolo della sua opera, difatti, è Philosophiae Naturalis Principia Mathematica (1687), mostrando di intendere tale indagine come lo studio dei principi matematici della filosofia naturale. Ugualmente, chi si fosse occupato, in generale, a quel tempo, di quelli che oggi verrebbero intesi come studi fisici, dal suo canto, stava occupandosi di filosofia naturale.
Così, per chiudere celermente il cerchio, diviene evidente che, volendo partire anche dalla disciplina più contemporanea, dalla più apparentemente isolata e autonoma, è possibile comprendere che quest’ultima non sia altro che un intreccio di queste alternative, in cui magari possa esservene più di una, o una distribuzione differente del peso di tutte quante insieme.
Il termine «biologia», per esempio, fu introdotto nel 1802 dal naturalista tedesco G.R. Treviranus; stessa cosa potrebbe dirsi per l’«antropologia», sviluppata pure nel diciannovesimo secolo; e così potrebbe osservarsi per molto altro, specialmente per la maggior parte di quelle discipline che appaiono esistere da sempre e che, invece, non sono che di recentissimo concepimento.
Fino a pochi secoli addietro la ramificazione del sapere era così snella che a un solo individuo sarebbe stato possibile occuparsi contemporaneamente di questioni di diversa natura. Pensiamo a René Descartes, per esempio, il quale ebbe modo di occuparsi di matematica, fisica, metafisica, etica. Nel suo Discorso sul metodo (1637), egli accennò a ognuna di queste cose, avvertendo:
Se questo discorso sembra troppo lungo, perché possa leggersi tutto in una volta, lo si potrà dividere in sei parti. Nella prima, si troveranno diverse considerazioni riguardanti le scienze. Nella seconda, le principali regole del metodo che l’autore ha cercato. Nella terza, alcune delle regole della morale che ha ricavato da tale metodo. Nella quarta, le ragioni grazie alle quali egli prova l’esistenza di Dio e dell’anima umana, che sono i fondamenti della sua metafisica. Nella quinta, l’ordine delle questioni di fisica da lui ricercate, e in particolare la spiegazione del movimento del cuore e di alcune altre difficoltà che riguardano la medicina, e inoltre la differenza che intercorre tra la nostra anima e quella degli animali. Nell’ultima, quali cose egli considera necessarie per progredire nella ricerca della natura più di quanto sinora è stato fatto, e quali le ragioni che lo hanno spinto a scrivere (19).
È innegabile per qualunque studioso che questo autore sia stato incommensurabilmente prolifero e che, tutt’oggi, le sue ricerche siano motivo di giovamento per lo studio. Si pensi, tra le varie cose, agli assi cartesiani, un sistema di riferimento bidimensionale che ha consentito e che, ancora, consente a tanti studiosi, da scienziati a economisti, e via dicendo, di sviluppare leggi e comprendere dinamiche di ogni tipologia. Oltre che per Cartesio, la stessa cosa potrebbe dirsi per tanti altri, ma non è questo il punto focale del discorso in esame.
Potendo così un solo individuo interessarsi di diverse discipline appare lui evidente l’importanza che ciascuna di esse possieda all’interno del sistema del sapere.
Oggi, invece, quest’importanza è lasciata al buon senso, e tuttavia tende a essere manifesta, il più delle volte, soltanto in maniera compassionevole e pietosa. In altre parole, un medico, il cui mestiere sia volto al tentativo costante di mantenere in sana costituzione l’organismo, e dunque la vita stessa di un individuo, non sarebbe facilmente incline a pensare che un letterato sia parimenti utile alla comunità.
Perché subito ti si potrebbero presentare davanti gli artefici di tutti quei beni […], il medico e il maestro di ginnastica e l’uomo d’affari, e direbbe prima il medico: «O Socrate, Gorgia t’inganna; non è la sua arte quella che ha come oggetto il maggior bene per gli uomini, ma la mia». E se io allora gli domandassi: «Ma tu chi sei per dir questo?», mi risponderebbe, immagino: «Sono medico». «O che dici? L’opera che la tua arte produce è il più grande dei beni?». «E come no, o Socrate, – replicherebbe – se è la salute? Qual bene c’è per gli uomini più grande della salute?». Se poi dopo di lui ill maestro di ginnastica dicesse: «Mi meraviglierei davvero anch’io, o Socrate, se Gorgia fosse in grado di dimostrarti che la sua arte produce un bene maggiore della mia», ecco che io domanderei anche a costui: «Ma tu chi sei, o buon uomo, e quale è mai l’opera tua?». «Maestro di ginnastica, – risponderebbe – e l’opera mia è di rendere gli uomini belli e forti nel corpo». Dopo il maestro di ginnastica l’uomo d’affari direbbe alla sua volta, come io credo, disprezzando tutti gli altri: «Ma guarda, o Socrate, se ti pare di poter trovare un bene che sia o presso Gorgia o presso chiunque altro più grande della ricchezza». Noi allora gli chiederemmo: «Perché mai? Di questo bene sei tu il produttore?». Risponderebbe di sì. «E tu quindi chi sei?». «Uomo d’affari». «Ma come? – diremmo noi – tu giudichi esser la ricchezza il più gran bene per gli uomini?». «E come no?», egli direbbe (20).
In una contemporaneità in cui tali differenze vengono infittite dalla necessità, imposta dalle nuove discipline, della specificità e, consequenzialmente, dalla richiesta allo studioso di approfondire un aspetto estremamente specifico della vita a discapito della conoscenza di tanto altro, il problema dei primati disciplinari si fa evidente e manifesto. E, con esso, manifeste divengono pure le sventurate conseguenze, che spesso assumono le sembianze dell’immobilismo nella ricerca o dell’incapacità di sperimentare la potenza del confronto.
Il sapere, tra le altre cose, possiede un’enorme capacità seducente e avviene che quando una persona acquisisca sempre più conoscenze di una disciplina se ne innamori al punto da confonderla come migliore, più importante, superiore alle altre, sminuendole, spesso nell’ordine che procede da quelle più distanti tematicamente dalla propria fino a quelle più vicine.
Lo studio della filosofia, così, dovrebbe avere l’utilità di comprendere l’importanza preliminare di ciascuna branca del sapere e, ugualmente, il motivo della sua stessa esistenza. La storia della filosofia, oltre che mostrare le diverse opinioni di tanti studiosi vissuti dall’antichità fino a oggi, dovrebbe avere l’utilità di mostrare come la conoscenza del mondo si sia ramificata, cercando di imporre agli odierni rovi le caratteristiche altresì più chiare di una rete. Soltanto così sarebbe, quindi, possibile restituire l’odierna utilità della filosofia; non già promuovendo in maniera quasi ecclesiastica il reiterarsi di antagonismi derivati dal sostenimento di diverse scuole di pensiero, in maniera peraltro estremamente anacronistica e pedante.
Quel che è fisiologicamente accaduto alla filosofia e ai filosofi stessi, ovvero agli studiosi dei diversi aspetti di cui la filosofia si interessasse, non è stato altro che un evento moltiplicatore. Un tale evento ha avuto come conseguenza la settorializzazione, sicché le varie discipline sorte per la necessità dell’approfondimento abbiano preso a funzionare in maniera autonoma e, di contro, a non essere più in grado di riconoscere l’utilità derivante dall’esistenza di tutte le altre. Ciascuna di queste cose e lo spettro che le contiene va sotto il nome di «filosofia», non già un’accozzaglia di vuote opinioni prive di fondamenti logici, come si suole ritenere.
Così, appare opportuno distinguere la filosofia di per sé dalla filosofia come materia scolastica o disciplina accademica. Mentre la seconda non sia che lo studio della storia della filosofia, a prescindere dal fatto che l’approccio sia storico e cronologico o relativo ai campi di studio specifici, la prima è invece ciò che è necessario riportare all’attenzione con queste considerazioni. In questo senso, essere filosofi è un approccio, non già un titolo lavorativo; e la filosofia diviene il paniere in cui tutta la sapienza riposa, non un campo di studio o una disciplina singola. Ciò la depaupera se messa a confronto, in senso nozionistico, con le restanti, poiché la filosofia non fornisce nessuna nozione, bensì aiuta a concepire un metodo; ma la eleva per questo suo fine ultimo di doversi occupare di tenere, le restanti, unite tra loro.
È chiaro che sia impossibile pretendere che uno specialista sia tale in più di un campo, al giorno d’oggi: dovrebbe essere una specie di supereroe o, in alternativa, dovrebbe disporre di una longevità almeno doppia rispetto alla media.
È altrettanto chiaro che alla filosofia, come materia di studio accademico, in questa guisa, non possano che essere rimasti soltanto quegli argomenti incapaci di produrre risposte, come per la metafisica, l’estetica, e via dicendo. Ciononostante, il contributo della filosofia all’interno di questa circoscrizione non starebbe nella capacità di trovare tali risposte, bensì proprio nella possibilità di produrre domande più adeguate. I filosofi specializzati in ciascuna di queste cose dovrebbero, quindi, divenire generatori di nuovi e difformi punti di vista.
Parimenti, un’altra richiesta che andrebbe fatta alla filosofia, o meglio ai filosofi, oggigiorno, dovrebbe essere quella di favorire l’instaurarsi di un dialogo interdisciplinare, dovendo essere proprio gli studiosi della filosofia i portatori di quella motivazione storica capace di spiegare a ciascuno studioso la sua parentela con quella di qualcun altro. La filosofia, dunque, non possiede un’utilità nozionistica, né ha lo scopo di ripetere, come un pappagallo, le citazioni dei pensatori più famosi, quasi fosse una raccolta di aforismi: essa deve, assolutamente, possedere una visione sinottica della grande famiglia del sapere e promuovere questa conoscenza per far sì che gli specialisti possano portare avanti la ricerca in maniera più agevole e conforme alle necessità dell’umanità. Essa dovrebbe servire, in ultima analisi, a riunirci tutti quanti.
Quel che voglio proporre, con queste considerazioni, è dunque che debba essere considerato filosofo non già chi abbia conoscenza mnemonica della storia della filosofia, ma chiunque sia in grado di concepire, sia pure parzialmente, questi legami disciplinari. Essere filosofi non significa, infatti, essersi abbuffati di libri di filosofia o aver ottenuto un titolo di dottore in filosofia, ma comprendere questo fine ultimo.
D’altronde, la chiamata all’interdisciplinarità proviene da tanti individui con trascorsi differenti da qualsivoglia studioso di filosofia. È avvenuto che l’abbia fatto l’economista Thorstein Veblen, per esempio, mostrando come studi sul darwinismo, sulla biologia in generale, sull’antropologia e quant’altro, permettano di giungere a ragionamenti più plausibili, più solidi, nel suo caso in campo economico. Tendenzialmente, invece, vediamo economisti impauriti del proprio vivere all’interno della morsa tra l’umanistico e lo scientifico, quasi come se pungolarli circa il fatto che la coerenza matematica non sia soddisfacente di per sé senza che gli assunti da cui abbia luogo siano verificati in termini sociologici possa rischiare di far decadere la loro credibilità quasi scientifica nel pot-pourri delle semplici opinioni.
La differenza tra colui che si adorni di titoli universitari e il vero studioso, infatti, sta proprio nella capacità di riconoscere che neppure la più esatta delle leggi matematiche sia vera: «le leggi sono solo congetture, sono estrapolazioni dell’ignoto», notava sempre il Premio Nobel per la Fisica, Richard Feynman. E aggiungeva: «ciò che oggi chiamiamo “conoscenze scientifiche” è un corpo di affermazioni a diversi livelli di certezza» (21).
Non si tratta di altro che di una sana comprensione del fatto che l’unica verità sia quella di chi possieda nient’altro che dubbi.
Tutta la conoscenza scientifica è incerta; gli scienziati sono abituati a convivere con il dubbio per l’incertezza. Questo tipo di esperienza è preziosa, e a mio modo di vedere anche al di là della scienza […] Ed è di primaria importanza, ai fini del progresso scientifico, riconoscere il valore di questa ignoranza e di questo dubbio. Il dubbio ci spinge a guardare in nuove direzioni e cercare nuove idee. Il progresso della scienza non si misura solo dalla quantità di nuovi esperimenti, ma anche, molto più importante, dall’abbondanza di nuove ipotesi da verificare (22).
È così che si fa terso il senso dell’utilità, intesa poc’anzi, dell’avere studiosi capaci di «produrre domande». Così, diviene manifesta pure l’utilità della filosofia contemporanea, sovente schernita e, il più delle volte, a buona ragione.
Avendo trattato l’argomento del dubbio, ai fini del metodo qui esposto, in precedenza, quel che invece preme in questa sede e appellarsi al cluster degli studiosi contemporanei chiedendo il concepimento di una sorta di filosofia collettiva. Con ciò, altro non si intenderebbe se non il tentativo di realizzare un dialogo tra i diversi campi di indagine e ricerca, di studio, attività sociale e via dicendo.
D’altronde, in senso metaforico, sarebbe possibile ammettere che il nostro stesso pensiero formuli una soluzione dialogica quando opera al fine di produrre nuove conoscenze. Ma al posto di lasciare che ciò avvenga all’interno di noi stessi, in senso individuale, dal momento che non ci sarebbe possibile – come osservato in precedenza – esaurire la conoscenza di svariati luoghi disciplinari in maniera autonoma, risulta di fondamentale importanza che la realizzazione di questo dialogo avvenga con qualcun altro all’infuori di noi stessi. E benché i fondamenti del comunicare mostrino le difficoltà degli umani di interpretarsi correttamente gli uni con gli altri, è chiaro che il concepimento di una filosofia collettiva sia già di per sé estremamente arduo.
Tuttavia, la necessità di sviluppare una tale filosofia è dovuta al fatto che essa sarebbe l’unica arma capace di prevenire ogni forma di possibile immobilismo intellettuale. In più, v’è da aggiungere che le condizioni culturali derivate dalla realtà contemporanea rendono gli individui ancor meno inclini al confronto e alla collaborazione, ponendo ciascuno, in maniera quasi predatoria, nella posizione di antagonista rispetto a ogni altro e instaurando un meccanismo competitivo in cui la solitudine diviene l’unico stato possibile affinché non si corra il rischio di venire surclassati. Parimenti, le condizioni di benessere odierne hanno abituato gli individui a ritenere che per vivere non sia necessario l’altro e, quindi, di potersi bastare.
La società contemporanea, così, favorisce la condizione per cui le persone non siano inclini a dialogare. E tali effetti, oltre che relativi alla conoscenza, hanno pure costanti ricadute di natura etica. Rispetto a questo argomento, tuttavia, è il caso di non disperdersi ulteriormente, lasciando l’analisi di queste considerazioni a un altro luogo. Quel che preme in questa sede, invece, è muovere verso le conclusioni.
7. Conclusione. Un dovere comune
Ma per quale ragione dovremmo volerci violentare autonomamente?
Anzitutto, è il caso di osservare che queste considerazioni non pretendono che tutti diventino dei grandi scienziati, dei grandi filosofi, dei grandi atleti, o checchessia. Parimenti, tuttavia, il dialogo interdisciplinare proposto non ha a che fare unicamente con gli specialisti, ma interessa ognuno di noi.
La vita condivisa, difatti, ci richiede un piccolo sforzo. E ciò perché nel meccanismo della democrazia, ove l'opinione di ciascuno valga tanto quella di ogni altro, essere consapevoli è non soltanto utile alla tutela di noi stessi, ma doveroso per la tutela degli altri, dal momento che le nostre scelte errate, come prendere con leggerezza un'elezione politica per il solo fatto di non informarsi e riflettere sui possibili effetti, o per favorire un legame, o una convenienza personale, producono effetti nocivi alla società nella sua interezza.
Inoltre, la nostra vita non può essere altrimenti che comunitaria, e ciò ci impone il dovere di formare la nostra umanità al fine di non divenire noi le zavorre della vita altrui, i rallentatori del processo di sviluppo della consapevolezza umana, che sola potrà perpetuare la vita dell’essere umano nel mondo ed evitare la sua auto-distruzione.
Sono necessari compromessi, tanto con gli altri quanto con noi stessi, tanto per la ricerca quanto per la condivisione nella vita comunitaria. Sono necessari sforzi, ancorché i nostri agi ci portino a pensare che essi siano, viceversa, superflui.
Nel primo capitolo di questo scritto ho evidenziato la parola «mezzo» per riferirmi all'uso che oggigiorno, comunemente, si vede fare del sapere. Si è trattato dell'uso di quest'ultimo ai fini dell'addobbarsi, dell'adornarsi di titoli.
Tutto ciò, nondimeno, è qualcosa che accade per ragioni più grandi di noi come singoli individui. Si tratta, in altri termini, di un meccanismo innescato da tutto un sistema, consolidato negli anni, atto ad alimentare lo stile di vita a cui siamo oramai abituati nel regime del capitalismo. Questo perché, nel processo della vendita smodata abbiamo preso a mercificare noi stessi sì da poter diventare i prodotti più interessanti sul mercato.
Ogni cosa si adegua alle esigenze dell'economia e ciò avviene per ragioni naturalmente spontanee se teniamo a mente che, a governare la nostra realtà politico-sociale, è primariamente essa stessa.
Così accade che ogni cosa che riguardi la vita umana nella sua quotidianità sia contraffatta da questa necessità di adeguare il singolo individuo al sistema che lo circonda, non per schiavizzarlo in maniera quasi complottista, ma per renderlo più adatto a essa per ragioni di condivisa ingenuità e per permettergli di vivere in quell'ambiente in maniera più conforme e agevole possibile.
In questo stato di cose, il sapere non è considerato un fine in sé, bensì è declassato a un semplice e povero mezzo. Mi spiego meglio.
Quante persone conosciamo che abbiano scelto di iscriversi all'università mossi da un interesse genuino verso l'approfondimento di un certo ramo della conoscenza e, invece, quanti al contrario che siano finiti in un certo corso di studi per il fatto di voler diventare qualcosa di specifico nella società? Quante persone cominciano gli studi accademici per amore della medicina e quanti, invece, lo fanno semplicemente per poter diventare medici? E che dire della maggior parte degli studenti di economia: vogliamo forse dirci che, a parte alcuni onesti amanti della disciplina, si iscrivano a quei corsi per il piacere di conoscere i sistemi e non per costruirsi una solida consapevolezza delle dinamiche economiche da poter sfruttare egoisticamente nel loro futuro? E della maggior parte dei giuristi, pure, vorremmo forse dirci che studino la giurisprudenza per la voglia di acquisire conoscenze della legge piuttosto che per il mero sapersene guardare nella vita? Perfino gli studenti di filosofia, che ho visto coi miei occhi: credete forse che la scelgano prioritariamente per conoscerla o, piuttosto, che piaccia loro l'idea di crearsi l'immagine di misteriosi pensatori incompresi? E infine, non conoscete forse persone costrette a dover scegliere taluni corsi di studio semplicemente perché i familiari li ritengano più utili alla loro vita lavorativa rispetto al semplice assecondare il proprio desiderio di imparare qualcosa liberamente?
Questo situazione ha luogo per via del fatto che, seguendo i parametri capitalistici contemporanei, viene fuori uno stato di natura predatoria tra gli individui, per cui ciascuno pensi a se stesso nel tentativo di elevare il proprio prestigio a discapito delle condizioni altrui: per rendere se stesso più appetibile. In questo stato di cose, le considerazioni finali dell'ultimo paragrafo trovano non soltanto risposta, ma pure un appoggio pragmatico: in quel luogo, infatti, si notava quanto fosse arduo costituire un dialogo interdisciplinare, tale da fare in modo che i diversi ambienti di studio, così come anche le persone interessate a essi, possano trovarsi in un panorama dialogico e volto allo scambio reciproco.
Ma il sistema del capitalismo non soltanto mette ciascuno nelle condizioni di aver timore che qualcun'altro possa superarlo, o finanche fregarlo, nel raggiungimento dei propri scopi sociali ed economici – motivo per cui l'ansia è uno dei problemi più diffusi tra gli individui della contemporaneità. Ciò che produce è, pure, un antagonismo ancor maggiore tra coloro i quali potrebbero, potenzialmente, parlare una lingua comune, al di là delle proprie discipline di interesse, in quanto dotati di disposizioni d'animo simili e di interesse continuamente rinnovato verso il soddisfacimento della propria curiosità.
Così, non soltanto si tende a odiare le persone da noi difformi, ma ancor più ciò avviene coi nostri simili, ponendo ciascuno di noi in un meccanismo di autoisolamento sempre maggiore e, consequenzialmente, spostando i principi cardine delle società democratiche nel regime dell'individualismo e della guerra di ciascuno contro ciascun altro.
Uno dei grandi problemi di questo stato di cose deriva, infatti, dall'utilizzo del sapere a fini di prestigio individuale. Il sapere, ripeto, non deve essere trattato come un mezzo atto al raggiungimento di uno scopo, bensì come un fine in sé.
Se ciò accadesse, infatti, non si ricercherebbe per elevare la nostra individuale vana gloria quanto invece, per esempio, «per il bene della fisica» o «della filologia» e, così, nel tentativo di portare giovamento a quegli ambienti di studio, unitamente al riconoscimento dell'importanza di un dialogo interdisciplinare, si produrrebbero risultati enormemente più capaci di giovare alla nostra vita.
Se ben si scorge, a quel punto, il sapere realizzarebbe pure la sua natura di mezzo. E ciò perché non soltanto eleverebbe lo studioso, o comunque l'individuo in generale, a uno status intellettuale e, dunque, sociale, maggiore, avendo questi conseguito dei meriti tangibili; parimenti conferirebbe alla disciplina di studio risultati di un qualche valore; nel meccanismo dell'interdisciplinarità, inoltre, potrebbe pure farlo con altre discipline con cui si pone in contatto; e, infine, tutta la società trarrebbe giovamento dal conseguimento di questi risultati.
Dunque, si evince che trattare il sapere, la conoscenza, come un mezzo non faccia che continuare a supportare questi antagonismi predatori, conducendo la società al suo costante depauperamento, così come notiamo avvenire di continuo. Mentre trattandolo come un fine in sé, imparando ad amarlo, divenendo un po' tutti «filosofi», si otterrebbe il duplice risultato sovraesposto e, probabilmente, tutte le piacevoli conseguenze congetturate.
Non abbiamo altri mezzi a disposizione che quello educativo, ma fintanto che a definire le priorità sarà un sistema economico corrotto e volto unicamente al suo costante ingigantimento, allora non vi sarà alcuna possibilità di mettere in atto tutto ciò. Non almeno da un punto di vista politico-istituzionale.
Tuttavia, se a ciascuno piacesse, nel suo piccolo – pur non auspicando di divenire necessariamente un intellettuale – partecipare a questo sforzo nella sua individualità, allora provi a percorrere quella strada che richiede la disciplina, la sopportazione dello sforzo, la demolizione delle proprie posizioni in favore del dubbio, il dolore e il disagio che derivano dalla necessità perpetua di doversi scandalizzare. E ricordi sempre che la propria intelligenza non sarà mai in grado di vedere al di sopra di se stessa: per questo sarà sempre utile continuare la propria scalata.
È sicuramente un processo che intrattiene rapporti intimi più con una forma di auto-violenza che con il concetto che ciascuno di noi si farebbe, di primo acchito, del piacere in sé: non è rilassante, non è appagante. E, tuttavia, come mostrato con i diversi esempi, questa violenza su se stessi serve proprio per l'ottenimento di un piacere più grande e più durevole, quant'è vero che ciò che sia di facile raggiungimento, il più delle volte, si mostri di fragile costituzione e di infimo valore.
Non bisogna mai rigettare certe cose in assoluto per il solo fatto di aver paura di scandalizzarsi: ciò vale per l'odio, per la violenza e per tanto altro che sogliamo intendere come deplorevole. D'altronde, la società dimostra che decantando la vuota potenza dei contrari di queste cose non abbia luogo, alla fine, che l'adempimento bestiale e il manifestarsi di ciascuna queste cose. Abbracciate quel che odiate, andate a braccetto con ciò che vi sdegna, imparate a cercare il disagio e a porvi in condizioni di sforzo lieve ma costante.
Provate a riflettere sul fatto che, in fin dei conti, esista una sana violenza. E che per il bene della società e, di riflesso, per il bene di ciascuno di noi, demolirsi per ricomporsi di continuo sia, infine, un dovere.
Note
(1) R. Feynman, Il senso delle cose, p. 20.
(2) Ivi, p. 19.
(3) P. Cristofolini, La scienza intuitiva di Spinoza, p. 151.
(4) R. Feynman, Il senso delle cose, p. 32.
(5) E. Wilson, Biofilia, p. 75.
(6) Alexander Baumgarten, Aesthetica (1750), a cura di Salvatore Tedesco, trad. it. di Francesco Caparrotta, Anna Li Vigni, Salvatore Tedesco, Palermo, Aesthetica Edizioni, 2000.
(7) B. Spinoza, Etica e Trattato teologico-politico, p. 128.
(8) Ludwig Wittgenstein, TLP,
(9) Focus, «Perché i gatti strofinano la mascella sulle mani di chi li accarezza?», https://www.focus.it/ambiente/animali/perche-i-gatti-strofinano-la-mascella-sulle-mani-di-chi-li-accarezza
(10) R. Feynman, Il senso delle cose, p. 16.
(11) Ivi, p. 17.
(12) Avoiding sedentary behaviors requires more cortical resources than avoiding physical activity: An EEG study, in Neuropsychologia, Volume 119, Ottobre 2018, pp. 68-80.
(13) R. Feynman, Il senso delle cose, p. 25.
(14) Ivi, p. 26.
(15) G. Leopardi, Zibaldone, 1655/8 settembre 1821.
(16) Intervista del 31 ottobre 1975: http://www.pierpaolopasolini.it/l_ultima_intervista.htm. Pier Paolo Pasolini, «L’ultima intervista». Intervista di Philippe Bouvard, Parigi: Antenne 2, 1975).
(17) G. Bataille, L'uomo sovrano di Sade, in F. De Sade, Le centoventi giornate di Sodoma (1785), p. 380.
(18) I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi (1785), Prefazione, pp. 3-5.
(19) R. Descartes, Discorso sul metodo (1637), p. 3.
(20) Platone, Gorgia, pp. 56-57.
(21) R. Feynman, Il senso delle cose, p. 33.
(22) Ivi, p. 36.
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