Egualitarismo o estinzione. Tra etologia e logica
- Giovanni Cusenza
- 12 ago 2024
- Tempo di lettura: 39 min
Aggiornamento: 5 ott 2024
Introduzione
Quando si tratta della contemporaneità si sente spesso parlare di progresso.
Appare chiaro che molti individui abbiano una tendenza a non discernere la differenza di significato tra le parole «cambiamento» e «progresso», utilizzando il secondo in maniera intercambiabile col primo, e guardando consequenzialmente alla storia come a un'ascesa perpetua in positivo divenire. Ugualmente, si sente parlare di «uomo progredito», di «società progredita», di «progresso umano» in maniera generalista e tale da produrre grandi fraintendimenti, tanto nella comprensione di se stessi quanto del mondo tutto.
In questa guisa, ha luogo un effetto domino, secondo cui a partire da un assunto ingenuamente errato, si producono un'innumerevole quantità di effetti altrettanto insensati. Così, ho scelto di servirmi di questo breve saggio per affrontare quelli che mi vengono in mente: cominciando dal rapporto tra umani e animali, per passare a quello tra umani e tecnologia, proseguendo con una caratterizzazione del personaggio umano, della sua natura e della sua necessità, spostando l'argomentazione quasi etologica nel dominio della politica. Il tutto, al solo e unico fine, di riposizionare la considerazione positiva, smodatamente egocentrica e megalomane, che abbiamo di noi stessi e, a diversi livelli, dei nostri gruppi di appartenenza.
Accade infatti che l'essere umano consideri di possedere una certa superiorità, tanto rispetto agli altri individui umani a lui contemporanei, magari abitanti altri luoghi della Terra, quanto verso i suoi antenati e le altre specie che, con lui, condividono la vita sul pianeta. Andiamo a ritroso e cominciamo da queste ultime.
1. Umani e animali. Dalla superiorità al ridimensionamento
Dal punto di vista tecnologico può esservi ragione di ritenere gli esseri umani superiori alle altre specie. Spesso, tuttavia, i miglioramenti della tecnologia sono fraintesi con una corrotta rappresentazione dell'essere umano e della sua crescita sotto altri aspetti.
I primi sviluppi a partire dall’era primitiva non sono stati che il frutto di una necessità, cosicché l’umano è stato in grado di adempiere a un caso paradigmatico di doppia eredità, tanto biologica quanto culturale.
È stato notato che tra gli animali, benché in certe specie si trovi l’uso di utensili in maniera molto simile all’essere umano, questo secondo tipo di eredità non si manifesti ed è altrettanto osservabile che essa sia stata e continui a essere il motivo per cui l’umano è giunto a ottenere mezzi tecnologici di altissima fattura e meravigliose qualità. Tuttavia, si presti attenzione.
L’eredità culturale non è il risultato di una natura superiore, quale dovrebbe essere quella umana a detta di taluni, ma unicamente il risultato di una necessità, di un adeguamento differente. Tale necessità non fu che quella di sopravvivere e, al suo opposto, non v’era che l’estinzione della specie intera.
Nel suo libro Le origini culturali della cognizione umana (1999), Michael Tomasello si interroga su cosa porti l’essere umano rispetto alle altre specie ad essere così tecnologicamente progredito e su come abbia potuto sviluppare in tempi relativamente brevi – dal punto di vista biologico – delle capacità cognitive così singolari.
Per svolgere questa ricerca, lo studioso e i suoi collaboratori si servono dell’analisi comportamentale della specie più prossima all’umano: i primati. Partendo quindi dai nostri parenti più prossimi, bisogna soltanto studiarne i comportamenti e, soprattutto, la socialità.
I ricercatori distinsero così tre tipi di apprendimento: l’apprendimento imitativo, l’apprendimento per istruzione, l’apprendimento collaborativo. Tuttavia,
la gran massa dell’evidenza empirica indica che solamente gli esseri umani comprendono i conspecifici come agenti intenzionali al pari del Sé e che perciò solo gli esseri umani sono capaci di apprendimento culturale (1).
Tomasello procede osservando che esistono due tipi di eredità in natura: l’eredità biologica e l’eredità culturale.
La prima concerne il Bauplan, e cioè il piano strutturale, comportamentale, percettivo, cognitivo; la seconda, invece, si potrebbe riassumere nell’eredità di artefatti, nozioni, conoscenze. Così, la specie umana «rappresenta un caso paradigmatico di doppia eredità, dato che il normale sviluppo dell’uomo dipende tanto dall’eredità biologica, quanto da quella culturale».
La sua tesi è «che nel dominio cognitivo l’eredità biologica dell’uomo sia molto simile a quella degli altri primati», tuttavia vi sarebbe «un’importante differenza, cioè il fatto che gli esseri umani si “identifichino” con i conspecifici più profondamente di quanto non facciano gli altri primati». Tale capacità viene definita da Tomasello come la «comprensione dell’altro come agente intenzionale/mentale (al pari del Sé)» (2).
Infatti, pare che i primati non siano in grado di comprendere la relazione di causa-effetto che intercorre fra le cose, sicché essi siano portati a non attribuirla agli altri, vivendoli e comprendendoli unicamente alla stregua di esseri animati, e nulla di più.
Come conseguenza di questa visione del mondo, l’umano riesce a innescare un processo di accumulo culturale chiamato, appunto, «dente d’arresto». Si tratta di un’evoluzione culturale cumulativa che si basa su due processi, quello dell’innovazione e quello dell’imitazione.
L’evoluzione culturale cumulativa può essere considerata come una forma particolarmente potente di invenzione collaborativa, ossia di sociogenesi. Nelle società umane vi sono due tipi fondamentali di sociogenesi […] Il primo tipo di sociogenesi non è altro che quello implicato dall’effetto «dente d’arresto» […] In questo caso la collaborazione non è diretta, come quando due o più individui collaborano simultaneamente l’uno in presenza dell’altro, ma virtuale, nel senso che essa avviene in tempi storici […] Il secondo tipo di sociogenesi è la collaborazione simultanea di due o più individui che cercano di risolvere un problema insieme […] Il meccanismo della sociogenesi può essere visto all’opera in due domini cognitivi molto importanti: il linguaggio e la matematica (3).
Pare quindi che l’essere umano sia capace di trasmettere delle informazioni non soltanto al simile che vive la sua stessa società, il suo stesso tempo, ma pure a coloro i quali non sono ancora nati; così come abbia la possibilità di attingere al pensiero degli umani vissuti prima di lui.
In questo processo non ha importanza alcuna l’essere d’accordo o meno con l’analisi degli altri esseri umani: ha importanza, infatti, il semplice fatto di poter fruire delle altrui informazioni. Ecco dove sta l’accumulo.
L'umano riesce nel tempo ad accumulare informazioni, sovrapponendole, sostituendole, servendosene, distruggendole. E con le informazioni, di pari passo, si ha un processo di accumulo materiale, per cui ogni oggetto della tecnologia umana è destinato a subire dei cambiamenti, delle migliorie, o finanche ad esser sostituito.
La scimmia, invece, pare instauri un rapporto di trasmissione del sapere coi suoi simili, ma sembrerebbe che ciò avvenga entro una particolare limitazione geografica e temporale.
In questi casi la “cultura” è una semplice conseguenza di forme di apprendimento individuale dipendenti dalle diverse ecologie locali delle diverse popolazioni – e perciò questo processo è detto modellamento ambientale. […] Gli scimpanzé eccellono nel cogliere le proprietà dinamiche di un oggetto, che essi scoprono guardando gli altri maneggiare quell’oggetto, ma non sono altrettanto abili nell’apprendere da altri individui una strategia comportamentale in quanto tale. […] Questo tipo di apprendimento è stato chiamato “apprendimento per emulazione” perché è focalizzato sugli eventi ambientali in gioco – i cambiamenti di stato prodotti da un altro individuo – e non sul comportamento o sulla strategia comportamentale di un conspecifico (4).
L’umano riesce altresì a rompere queste barriere. I modi in cui ciò avviene sono innumerevoli: dalla trasmissione orale alla scrittura; all’archiviazione di immagini, sequenze di immagini, e dunque video; la registrazione dei suoni e via dicendo.
Questa è la ragione, pure, per cui l’intelletto umano sembra così singolarmente sviluppato rispetto a quello di tanti altri animali.
Ma si vada per gradi.
Né la potenza, né la forza possono essere considerati motivi sufficienti all’adattamento di una specie. Come è stato mostrato ampiamente dagli studi scientifici, infatti, la sopravvivenza è garantita dall’adattamento (fitness), e quindi all'individuo più adatto.
Ciò significa che esser feroci come una tigre in un mondo sommerso in cui per respirare serviranno delle branchie non è sufficiente, benché una tigre sarebbe certamente più forte e potente di un pesce rosso. Ugualmente, in un tale mondo, benché l’intelligenza possa essere certamente uno strumento utile alla sopravvivenza, essa non sarebbe del tutto sufficiente se le condizioni poste dalla natura non favorissero la sua applicazione e il suo sviluppo.
Si potrà obiettare che, al contrario, essere intelligenti possa essere una garanzia di salvezza, poiché tramite l’intelligenza l’essere umano potrebbe escogitare diversi metodi per sopravvivere, un po’ come ne Il mondo sommerso (1962) di James Ballard, e ciò avrebbe senso, se non fosse, però, che nell’esempio di un mondo sommerso l’umano dovrebbe adattarsi all’assenza di materiali utili come strumenti da caccia per il cibo, come la legna per le barche, come i vestiti per coprirsi e via dicendo. Può darsi che egli possa sopperire all’assenza di talune cose e che, dunque, possa riuscire a procacciarsi del cibo, ma non sarebbe in grado di ottemperare a ognuna delle suddette necessità se si trovasse, di colpo, in una tale condizione.
Infine, c’è chi potrebbe affermare che questo sarebbe, invero, un caso estremo e ciò sarebbe assolutamente legittimo. Ma è vero, pure, che in un tale caso diverse specie di pesci, di anfibi e persino certi mammiferi non si farebbero trovare impreparate e una tale condizione sarebbe sufficiente a dimostrare che l’intelligenza umana non sarebbe lo strumento migliore né sufficiente, in determinate situazioni, a dimostrare la «superiorità» dell’umano rispetto a tutte le specie.
In un caso del genere la selezione naturale ci escluderebbe.
Si sente spesso affermare che l’Homo sapiens è l’unica specie che può vivere ovunque – su un banco di ghiaccio, nel fondo di una caverna, negli abissi marini, nello spazio; ma questa è solo una mezza verità. In realtà gli esseri umani sono costretti a intervenire di continuo sull’ambiente che li ospita per mantenerlo entro un intervallo ristretto di condizioni climatiche. Una volta che sono riusciti a superare il livello della semplice sussistenza, investono grandi quantità del loro tempo a migliorare l’aspetto del loro ambiente più immediato, con lo scopo di rendere l’habitat più “vivibile”, in base a quelli che vengono definiti solitamente criteri estetici (5).
È possibile considerare, di contro, come certi microrganismi, virus, insetti e altri esseri viventi possiedano capacità di adattamento di gran lunga superiori alle nostre.
Ma lasciamo perdere tutti questi esempi, estremi o plausibili che siano, e cerchiamo, dunque, di ripercorrere le ragioni dietro agli sviluppi tecnologici dell’umanità, ammettendo che l’intelligenza possa pure essere sufficiente a garantire la sopravvivenza della specie umana. Probabilmente, una volta addotte queste ragioni, esse saranno sufficienti se non a zittire le opinioni antropocentriche, quantomeno ad affievolirle quanto basta per poter dire che l’umano non sia comunque per nessuna ragione un essere superiore rispetto agli altri, quasi come fosse prediletto.
2. Tecnologia e alienazione. L'inversa proporzionalità tra tecnica e consapevolezza
Com’è stato osservato, lo sviluppo dell’intelligenza è andato di pari passo al riconoscimento di una carenza di doti sufficienti alla sopravvivenza della specie. Gli esseri umani sono privi di pelliccia, non sono veloci, non possono volare in cielo né respirare in mare, non sono feroci.
Sono intelligenti, questo sì. Ma anche l’intelligenza, originariamente, non poteva essere ai livelli in cui possiamo sperimentarla oggigiorno.
I primi sviluppi tecnologici e l’inizio della comprensione di come servirsi delle cose, come l’accensione di un fuoco, la semina, le prime armi per la caccia, e via dicendo, furono tutti mezzi atti al soddisfacimento di necessità primarie degli individui, pena la morte e, in larga misura, la fine di un’intera specie.
Gradualmente, avviene che come i meccanismi mentali, partendo dall'associazionismo, dai rapporti di implicazione e, quindi, dai primi meccanismi logici del dominio cognitivo, siano giunti con l'analisi di questioni concettuali a infittire i nostri pensieri, così i dispositivi si sono evoluti fino a giungere a ciò che noi oggi vediamo di giorno in giorno e, dunque, a livelli a dir poco strabilianti.
Tuttavia, l’evoluzione e il progresso della tecnologia non hanno nulla a che vedere con l’evoluzione e lo sviluppo di una specie sotto altri aspetti.
Come si è detto, c’è un tipo di eredità singolare che è propria della specie umana: l’eredità culturale. In altri termini, lo sviluppo tecnologico non è il frutto delle grandi capacità dei singoli individui, quanto più il risultato di un lungo processo di accumulo culturale di artefatti e nozioni che ha avuto luogo nei millenni e che ha condotto i dispositivi a un perfezionamento esponenzialmente maggiore.
Ciò dimostra, quindi, che sono gli strumenti e le conoscenze a esser migliorate, ma non gli esseri umani e i loro atteggiamenti.
Se un umano contemporaneo è capace a guidare un’automobile, laddove un suo avo avrebbe condotto un carro, ciò non significa che egli sia più sviluppato, ma piuttosto che si sia adattato ai nuovi stili di vita della contemporaneità da lui contingentemente vissuta: egli non sa, infatti, costruire un’automobile per il solo fatto di guidarla e non sa neppure guidare un carro nonostante si tratti di un veicolo strutturalmente inferiore a un’automobile.
Martin Heidegger, durante un’intervista, osservò opportunamente come ogni uomo, al suo tempo, potesse agire mediante l’uso di una radio o di una televisione senza conoscerne tuttavia le soggiacenti leggi fisiche, atte a spiegarne il funzionamento meccanico; senza inoltre essere a conoscenza dei metodi utilizzati per la loro scoperta, metodi che sottolineò esser compresi realmente da «cinque o sei fisici» del suo tempo.
Dunque, dal punto di vista della consapevolezza tecnologica, di quanto ci si possa ritenere, per così dire, "al passo coi tempi", risulta evidente come nella maggior parte dei casi si tratti di una semplice forma di presunzione commista all’incapacità di vedere realmente chi siamo, ciò che sappiamo, rispetto al modo in cui viviamo e a ciò di cui ci serviamo.
Che da artefatti di alta tecnologia si possa ricavare una vita più agevole, questo è vero. Ma non esiste nessuna connessione tra lo sviluppo tecnologico e lo sviluppo della consapevolezza umana. Sarebbe come ritenere che se un padre e una madre fossero incredibilmente colti, allora il figlio o la figlia dovrebbero nascere ereditando biologicamente la sintesi di questa sapienza genitoriale, o finanche un suo superamento. Una cosa è tuttavia, come osservato, l’eredità biologica, un’altra quella culturale.
In più, il fatto di avere un linguaggio così articolato, di poterci scrivere lettere, di dialogare e riflettere disponendo di una così grande e puntuale quantità di lingue e, nei loro sotto insiemi, di termini, mentre un cane non si limiti che ad abbaiare, non è un fattore da usare allo scopo di concepirci come superiori a quest’ultimo. Anche perché non esisterebbero neppure metodi per poterci sincerare del fatto che il cane e gli animali in generale siano così tanto limitati su certe cose per come ci appaiano.
Allo stesso modo, neppure l’addomesticamento da parte dell’umano denoterebbe una superiorità rispetto all’animale addomesticato: esso potrebbe suggerire un soggiogamento, un controllo, spesso ripercorrendo delle disposizioni naturali di certe specie, come avviene nei branchi. E proprio come nella società umana l'esercizio del potere non sia necessariamente appannaggio di individui intellettualmente superiori o fisicamente più forti, così il controllo dell'animale non denota un'espressione di superiorità da parte dell'umano.
L'addomesticamento è, poi, esercizio degli esseri umani non a dimostrazione di puro e semplice potere, quanto invece teso al soddisfacimento di una necessità, a causa di una carenza: il bue che tira l’aratro serve affinché l’individuo umano non finisca stremato dopo neppure due metri; un gregge che produca lana serve affinché l’individuo umano possa sopperire alla mancanza di pelliccia per coprirsi; un cavallo al fine di percorrere lunghe distanze, che altrimenti sarebbe all’individuo umano impossibile concludere entro tempistiche e sforzi ragionevoli; un segugio da caccia, o un falco, per aumentare le probabilità, grazie alla loro velocità, di ottenere una preda per cena. Sarebbero possibili innumerevoli esempi e ognuno sarebbe in grado di spiegare che l’addomesticamento ha luogo per sopperire a delle carenze, non per via della superiorità umana.
Secondo le necessità di ciascun organismo, nei termini di una vera e propria macchina di sopravvivenza, alla natura è parso adeguato dotare l’uno di certe qualità e l’altro di altre, laddove siffatta scelta sia una spontanea conseguenza di mancanze, nella maggior parte dei casi, non di meriti: dove c’è un problema si cerca una soluzione, ma non si cercano soluzioni dove non vi sono problemi. Così, è probabile che perfino la singolarità che manifesta la doppia eredità tipica della specie umana, descritta in precedenza, non sia un "merito", quanto invece un'aggiunta all'uopo di sopperire a sì tante mancanze.
Ritenere che queste incredibili capacità cognitive umane siano un dono sovrannaturale, o comunque un fattore sufficiente a innalzare l’essere umano al di sopra delle altre specie, è frutto dell’incapacità di guardare all’evoluzione come processo in fieri e di ritenere, piuttosto, che tali caratteristiche siano sempre state presenti in noi, come fossimo progettati nei termini di “esseri superiori alla natura tutta”.
Ugualmente, anche il nostro dominio su un’eventuale piramide naturale non sarebbe motivo sufficiente a dimostrare la nostra superiorità, poiché per esserlo dovrebbe configurarsi in maniera perfettamente virtuosa e non tale da metterci nelle condizioni di rischiare, costantemente, persino il nostro auto annientamento.
Questo atteggiamento megalomane non consente di vedere la triste realtà in cui viviamo: una realtà in cui all’aumentare dell’accumulo culturale, al miglioramento degli artefatti e dei dispositivi tecnologici, viene altresì a modellarsi un umano dotato sempre di minor consapevolezza verso la vita e, dunque, un individuo non soltanto inadatto a maneggiare tali dispositivi, ma perfino dannoso. Se prendessimo un bambino che gioca con un bastone e gli dessimo in mano una mitragliatrice diremmo, infatti, che questi sia un bambino più avanzato, o piuttosto che si tratti di un bambino decisamente più pericoloso? È forse questa mitragliatrice a definire il bambino, o piuttosto l’uso che ne farà?
E, per prevenzione, aggiungo di considerare superflua l’obiezione di chi opporrà un «dipende dal se sia stato il bambino o meno a costruire la mitragliatrice», perché inviterei quest’ultimo a rileggere quanto già trattato in merito all’accumulo di artefatti e nozioni nel corso delle generazioni e non a considerare quel singolo bambino, consapevolmente vergine e sprovveduto.
Dunque, pare piuttosto che la tecnologia e i suoi sviluppi intrattengano un rapporto di inversa proporzionalità con le capacità e la consapevolezza umane, dal momento che gli agi conducono l’umano a non dover apprendere più tante cose necessarie alla sua vita come quando certi strumenti semplificativi erano assenti.
Appare chiaramente che gli esseri umani d’oggi non siano che alienati negli oggetti tecnologici di cui si servono ogni giorno: essi confondono il progresso insito in quei dispositivi con il progresso di se stessi e della propria intelligenza.
Se compro il cibo in un supermercato molto probabilmente non saprò cacciare e, a meno che non sia il mio mestiere, non saprò neppure coltivare. Se possiedo un telefono e so utilizzarlo, non per questo conosco le soggiacenti leggi fisiche e ingegneristiche sufficienti a costruirlo. In che maniera dovrei dunque ritenermi all’altezza di un telefono e pensare, piuttosto, che un uomo vissuto mille anni fa, per il solo fatto di non aver posseduto un telefono, sia inferiore a me? Quale la connessine fra queste cose? Un tale uomo, anzi, benché non conoscesse tante cose che io oggi conosco, ne conosceva tante altre che io sconosco. Molto probabilmente questo stesso uomo avrà avuto una consapevolezza del mondo molto maggiore della mia, trovandosi più spesso in condizioni di precarietà e dunque a doversi confrontare con la realtà molto più di quanto a me non sia necessario.
Inoltre, i grandi agi della società contemporanea, non soltanto allontanano l’umano dal dover soddisfare autonomamente tante necessità, ma allo stesso tempo lo isolano, lo allontanano da altri uomini, ponendolo nella condizione di credere, inconsciamente, che la sua vita possa essere auto sussistente e che, dunque, gli altri non siano così utili alla sua sopravvivenza.
E questa si configura come una delle matrici dell’odio reciproco e dell’incapacità, eminentemente contemporanea, di convivere e dialogare con gli altri.
3. Individualismo costitutivo ed egualitarismo in condizioni di emergenza
Proviamo a spostare la discussione su parametri etici, ossia sul punto focale delle argomentazioni qui sviluppate.
Avendo considerato fin qui un plausibile rapporto di inversa proporzionalità tra lo sviluppo della tecnica e la consapevolezza umana, la domanda a questo punto potrebbe essere la seguente: v'è una continuità tra lo sviluppo tecnologico e la formazione di una comunità eticamente sempre più equilibrata?
La risposta appare nondimeno tautologica. Infatti, se gli agi derivati dalla tecnologia sortissero veramente l'effetto di una sempre minore consapevolezza individuale, allora anche l'etica, in quanto comportamento razionalmente consapevole, andrà gradualmente depauperandosi.
La specie umana, alle odierne condizioni, pare infatti essere una specie tra le più contraddittorie, tanto rispetto ai suoi antenati che rispetto alle altre specie del pianeta, poiché sta gradualmente opponendosi alla sua propria sopravvivenza, non esercitando le sue capacità tecnologiche con il dovuto equilibrio razionale e secondo fini virtuosi.
E ciò dimostra nuovamente che nonostante la scienza vada avanti gli individui comuni, a qualunque livello sociale ed economico, non facciano che andare indietro. Si potrebbe anche asserire che nonostante la scienza vada avanti, perfino tanti scienziati stessi – o gente adornatasi di certi titoli – rimangano indietro.
L’essere umano sembra essere la prima specie suicida sulla faccia della Terra. Non nei termini di singoli individui, la qual cosa è osservabile anche in altri esseri viventi; bensì proprio in quanto specie come gruppo. E la singolarità non sta neppure nella scelta suicida, ma sta altresì nel suo opposto, nella non-scelta: nel fatto, cioè, di promuovere ogni pensiero e comportamento atto alla propria distruzione senza tuttavia rendersene conto, o finanche credendo di stare ottemperando al risultato opposto.
L’umano contemporaneo decanta il possesso di chissà quanta consapevolezza verso la Terra su cui poggia i piedi, mentre inconsapevolmente tende, giorno per giorno, a consumarla, al punto che un giorno non potrà poggiare i piedi su alcunché. E perché non si fraintenda, qui si intende un consumo di risorse necessarie all'essere umano, non una vera distruzione del pianeta. Infatti, non potremmo mai distruggere la Terra per davvero, per come sogliamo dire, ma potremmo molto più facilmente di quanto non crediamo estinguere la nostra specie, riducendo le risorse della Terra a un punto tale che il recupero, ai fini della nostra sopravvivenza, richiederebbe dei tempi geologici per noi insostenibili.
La natura umana si comporta alla stregua di un paradosso: l'individuo della nostra specie dimostra di possedere l’egoismo tipico di un predatore solitario, ma si configura come caratterizzato da una struttura fisica che non gli consenta alternative alla vita comunitaria.
Ogni singolo individuo vorrebbe poter vivere seguendo una condotta spontaneamente individualista, ma è costretto a dover cedere razionalmente all’egualitarismo, in dose più o meno moderata, affinché possa garantirsi la propria sopravvivenza. Ed è proprio questa sempre maggiore incapacità di adempiere alla propria razionalità che conduce l’umano, sempre più, alla sua auto distruzione.
Notiamo, inoltre, che dove diminuisce l’egualitarismo parimenti si esaurisce il funzionamento di una comunità; dove gli individui tendono all’individualismo, tanto più si rafforza la predazione sociale, la disparità, e tanto meno avviene la realizzazione dell’uguaglianza e la distribuzione dei diritti.
Tendenzialmente, notiamo, coerentemente a quanto detto, che l’egualitarismo aumenti infatti in stati di precarietà, quando, per così dire, sia necessario rimboccarsi le maniche all’uopo di ricostruire la società dopo uno stato di miseria, giacché si comprende l’utilità della collaborazione e dell’esistenza della comunità ai fini della salvaguardia del singolo.
Notiamo, all’opposto, che atteggiamenti individualisti dilaghino in stato di agio, laddove i benefici e la possibilità di goderne senza sforzi conducano gli esseri umani a isolarsi intellettualmente e lascino loro lo spazio per considerare le tante inezie della quotidianità, capaci di stimolare in loro una tensione misantropica, risolvendo i loro atteggiamenti nell’odio verso il prossimo, in maggior dose se maggiore è la di lui differenza rispetto al proprio modo di essere e pensare, ossia dove si palesi una diversità.
Queste osservazioni non vogliono mostrare, ovviamente, che non possano darsi sani rapporti o forti legami, si badi. Nessuno qui si permetterebbe di sminuire quanto i gentili lettori vogliano bene ad amici, parenti, compagni e via dicendo.
Ma in ogni caso, la struttura primaria dell’agire umano sembrerebbe orientata da un principio egoistico e una volontà di auto affermazione, di conquista del potere, che può certamente essere più o meno evidente in base al temperamento di ciascun individuo. Thomas Hobbes considerò la ricerca di vanagloria e la convinzione di ciascun umano di essere il più adatto al governo della moltitudine come motivi alla base di una difficile uguaglianza: ove il riconoscimento di quest’ultima sia a fondamento del timore, mentre la prima sarebbe alimentata dal pensiero della differenza (6).
Una tale condizione induce gli umani a sviluppare una propensione per l’antagonismo più che per la collaborazione. E quanto ciò sia deleterio per la costituzione di un equilibrio sociale non è neppure necessario starlo a considerare: basta, infatti, osservare il mondo in cui viviamo.
È piuttosto la tendenza a voler forzare il modo in cui la natura si disvela, cercando di sottometterla ai nostri fatati desideri, vedendola per come ci è più gradito, il motore stesso dei problemi etici reiteratamente irrisolti della comunità umana.
Potremmo pure ammettere di essere guidati dai più sani principi, se lo preferiamo. Ciò, tuttavia, non avrebbe alcuna utilità, come non ne avrebbe ritenere con assoluta certezza che domani il sole non sorgerà, poiché il sole, domani, sorgerà comunque.
Per quanto ci dispiaccia pensarla così, l’amore universale e il benessere della specie nel suo insieme sono concetti che non hanno alcun senso dal punto di vista dell’evoluzione […] per quanto noi possiamo deplorare una cosa, questo non le impedisce di essere vera. Siate consapevoli che […] siamo nati egoisti. […] Un atto apparentemente altruistico è uno che sembra superficialmente, tendere ad aumentare (anche se di poco) la probabilità di morte dell’altruista e la probabilità di sopravvivenza del ricevente. Spesso, a un esame più attento, questi atti di apparente altruismo si rivelano atti di egoismo mascherato (7).
Che il comportamento altruista tenda ad aumentare la possibilità di estinzione dell’altruista stesso, è dimostrato altrettanto – per dirla con Brecht, Vita di Galileo (1943) – da quelle «terre sventurate» che necessitarono di eroi: la maggior parte di questi, infatti, non giunsero neppure, per via delle loro stesse fatali missioni, ad aver figli.
Ciò non significa, tuttavia, che questo scritto voglia indurre gli umani a evitare quelle azioni che ritengono esser benefiche per sé e per gli altri, anzi. È vero il fatto che l’azione parta da una spinta egoistica, ma è altrettanto vero che le conseguenze delle nostre azioni possono nondimeno apportare dei benefici alla nostra comunità di appartenenza. Anche chi appoggi visioni egualitarie lo fa con consapevole egoismo e non con disinteresse: desiderare un diritto o una libertà per gli altri, infatti, significa desiderarli per se stessi; difendere la causa altrui, significa esser difesi, quando sarà necessario, dall'altro.
Nondimeno, l’altruismo smodato potrebbe funzionare all’uopo del vivere in una società ideale; ma la realtà naturale, tuttavia, trae utilità dall’altruismo in dose moderata, poiché in natura un comportamento individuale in cui quest’ultimo superi quello egoista, potrebbe aumentare le possibilità dell’individuo di essere ucciso. E per dimostrare quest’ultima asserzione, prenderò in prestito un esempio naturale tratto sempre da Il gene egoista, mirabile opera di Richard Dawkins.
Alcuni uccelli mostrano di servirsi di diversivi per salvare la prole da predatori. Accade che il genitore si allontani simulando di zoppicare, lasciandosi pendere un’ala come fosse spezzata, e che emetta un suono per attirare l’attenzione del predatore. Così, quando il predatore orienti la sua attenzione verso di esso e cominci ad andargli in contro, l’uccello vola via salvando se stesso e il nido. Questo è un atteggiamento altruista, a ben vedere: l’uccello mette a rischio se stesso, aumentando le possibilità di essere ucciso, allo scopo di salvare la prole (8).
Da esempi del genere è facile comprendere in quali contesti l'altruismo possa aver luogo. Ed è da riconoscere, parimenti, che per quanto gli umani vivano in una società di rapina, il margine dell'altruismo, per loro, potrebbe essere maggiore – ma neppure troppo – che per quegli animali che vivono la natura selvaggia.
Uno dei punti in cui si riconosce veramente la superiorità di una specie sta nella sua capacità di favorire la sopravvivenza degli individui che la compongono e, quindi, nella gestione sociale della comunità nel caso di quelle specie che vivono in gruppi, o dell’individualità, con annessa proliferazione, per quelli solitari.
Si badi, tuttavia, che qui non si tratta dell’argomento in termini evoluzionistici sostenendo la selezione di gruppo rispetto a quella individuale – anche perché si tratterebbe di un errore, oggigiorno, banale; così come non si vuole mostrare un primato dell’egoismo sull’altruismo e via dicendo. È bene specificare, per evitare incomprensioni, che scopo di questo mio scrivere è capovolgere una visione fin troppo sufficiente delle cose.
Che questa trattazione non voglia esaltare l’egoismo a discapito dell’altruismo, nondimeno, sarà sempre più chiaro e verrà assodato quando si giungerà alla sua conclusione.
Scopo di questo scritto è tuttavia quello di analizzare le cose per come sembrano essere più che per come ci piacerebbe che fossero e, in questo specifico paragrafo, di occuparci dei pregiudizi umani e delle loro conseguenze, non di offrire esempi di etologia.
Coloro che dunque sostengono che i soli sviluppi tecnologici della specie umana siano essi stessi sufficienti a poter dimostrare che l’essere umano è superiore alle altre specie hanno torto. Ciò non significa che i ragionamenti qui condotti siano dotati di una verità assoluta: si vuole evidenziare che, semplicemente, quel punto di vista è assurdo.
Questa opinione in merito alla superiorità come giustificata dalla tecnologia, infatti, non è che il frutto di una visione antropocentrica anch’essa e, per di più, viene accettata per ignoranza e sufficienza rispetto alla realtà dei fatti.
4. Un ossimoro mai riconosciuto: la politica umana
Politicamente l’essere umano non è un animale avanzato, ma al contrario è forse uno dei meno progrediti che vi siano.
Nei vari secoli la specie umana ha costituito comunità differenti che quando hanno annusato periodi di equilibrio è accaduto per un tempo così breve da non fargliene neppure rendere conto. Tutto il tempo restante è stato sì sufficiente a permettere alle comunità di sopravvivere fino a oggi, ma è stato un incessante susseguirsi di discordie, tragedie, violenze, guerre, antagonismi, odio, e via dicendo.
Per carità, ciò avviene anche nel mondo animale, è vero. Ma è da considerarsi che gli animali vivano ognuna di queste cose con assoluta coerenza alla loro natura, laddove noi umani ce ne crucciamo tanto quanto continuiamo a metterle in atto. Ciò dimostra, quindi, che non siamo in grado di soddisfare i nostri auspici neppure nei limiti in cui ci sarebbe possibile farlo.
Aristotele, nella Politica (IV sec. a.C.), definì l’uomo un «animale politico» (πολιτικὸν ζῷον). Tale definizione, se non considerata con adeguata cura, tende a diffondere il pregiudizio che con «politico» voglia suggerirsi non già che l'essere umano si riunisca in comunità al fine della propria sopravvivenza, ma che, di fatto, sia capace nell'amministrazione della vita comunitaria, e cioè che riesca nella gestione della vita comunitaria come diretta attuazione in continuità con la propria natura. Tuttavia, la realtà dimostra che per quanto gli individui umani tentino di ottemperare a una virtuosa gestione della polis, essi non siano mai in grado di pervenire alla sua realizzazione per come si conviene.
Negli Elementi di legge naturale e politica (1640 ca.), Hobbes notava come l’uomo non sia per sua natura un animale politico, quanto più costituisca l’elemento politico per una necessità naturale, dovuta alla sua scarsa forza fisica: disponendo dunque di un elemento razionale di non poco conto, egli comprende che i benefici da esso derivanti sono tangibili soltanto nella comunicazione comunitaria; ma lungi dall’essere incline alla cooperazione, egli lo fa per pura necessità, per un utile personale, poiché non avrebbe altro modo di affrontare la vita nel mondo.
Insomma, gli esseri umani sono come “misantropi” per natura e vivono insieme al prossimo per necessità.
L’esempio delle api è stato utilizzato a più riprese nella storia della filosofia – a partire da Aristotele stesso, che li definisce animalia politica (9) – per studiare i comportamenti di “società” differenti da quella umana, rilevando così le caratteristiche peculiari di quest’ultima. A buona ragione, Hobbes domanda: «Perché quindi non possono gli uomini, che prevedono il beneficio della concordia, conservare continuamente la medesima senza costrizione, altrettanto bene delle api?» (10).
Nel libro Mente, sé e società (1934) di George H. Mead leggiamo, in merito, della cosiddetta plasticità fisiologica. Si tratta di una caratteristica specifica degli organismi appartenenti ad alcune specie – come le api, appunto – che si traduce nella necessità naturale di coprire una determinata mansione sociale. L’ape operaia, ad esempio, non è operaia perché sottomessa con la forza dalla regina: essa è tale per una disposizione fisica naturale.
Il principio di organizzazione tipico di questi insetti è quello della plasticità fisiologica, che dà origine a un reale sviluppo nel processo fisiologico di un diverso tipo di forma in adattamento a certe funzioni. […] Ora, il principio di organizzazione proprio della società umana non si fonda su una tale differenziazione. […] L’organizzazione quindi non può realizzarsi, come si realizza nella comunità delle formiche o delle api, attraverso la differenziazione fisiologica di certe forme che divengono organi sociali (11).
In queste società di insetti ogni membro possiede delle qualità costitutive che ne definiscono il ruolo sociale: le api si dividono in regina, operaie e fuchi (12), per esempio; e mai le operaie si ribelleranno alla regina per questioni sociali, né lo faranno i fuchi, poiché questa partizione prevede ugualmente un posizionamento nella loro società, definito non da dialoghi, confronti o persino votazioni, ma dalla pura e naturale chimica.
Nella nostra specie, invece, nonostante possiamo differire per abilità e intelligenza maturate nel corso delle nostre vite, e nonostante vi sia una differenziazione di natura genetica a fondamento di caratteristiche soggettive, non esiste nessuna distinzione così puntuale rispetto ai ruoli sociali.
Ugualmente, in altre comunità naturali a struttura gerarchica nelle quali gli individui sono tuttavia privi di caratteristiche organiche che dovrebbero differenziarne la posizione sociale, le soluzioni ai problemi gestionali vengono comunque raggiunte in maniera molto più celere e soddisfacente che nelle comunità umane – quasi come se i loro principi morali fossero più solidi dei nostri – semplicemente per conformità alla loro natura, ossia al loro istinto.
Ben nota, in proposito, Galimberti nell'osservare che noi umani siamo, altresì, privi di istinti: i processi di apprendimento, difatti, ne sono una prova. Chiunque potrebbe sperimentare ciò osservando un semplice cucciolo di cane che, giunto alla sua maturazione ormonale, inizia a mettere in pratica degli atteggiamenti di accoppiamento dimostrando di non averne un vero e proprio controllo, ma come se qualcosa dentro di sé gli imponesse di esprimere siffatti atteggiamenti. Negli umani, invece, è sempre l'apprendimento a spiegare come funzioni il proprio corpo: la pubertà giunge naturalmente, ma la si comprende sempre in virtù di dinamiche sociali, familiari, educative e mai un adolescente lasciato a se stesso saprebbe cosa farsene del suo corpo pronto all'accoppiamento. Così, anche queste constatazioni dimostrano quanto la socialità, espressa nella comunità, sia di fondamentale importanza per la vita umana.
Vi sono poi animali solitari, usualmente predatori, le cui abilità sono tutte sufficienti a soddisfare la loro autonoma sopravvivenza nella vita selvaggia.
Tornando alla definizione aristotelica, sarebbe perciò più adeguato sostituire il termine «politico» con qualcos'altro: l’essere umano, per necessità naturale, parrebbe più un animale sociale, difatti.
Disponendo coerentemente quanto fin qui osservato, possiamo trarne una dimostrazione deduttiva: gli umani sono uguali tra loro strutturalmente, benché poi si differenzino per caratteristiche individuali di natura genetica e derivate dalla coltivazione del proprio apprendimento attraverso l’esperire; ma la loro, rispetto alla partizione sociale degli esempi sopraesposti, è sicuramente una forma maggiore di uguaglianza costitutiva.
Gli esseri umani sono difatti individualisti ed egoisti per natura; tuttavia, essi sono sprovvisti di ogni capacità naturale che permetta loro di sopravvivere individualmente.
Ecco, dunque, da dove nasca la comunità: non già dalla volontà spontanea di aggregarsi e vivere in condivisione, ma da una necessità la cui alternativa è la fine prima di se stessi e poi della specie intera. E le specie, in natura, non sono guidate in tutto e per tutto dalle scelte e dalle volizioni individuali, ma quasi programmate da componenti millenarie in grado di sopravvivere quantità di tempo molto più grandi dei singoli individui – ossia i geni. La realizzazione del nostro interesse deve avere coscienza di ciò e trovare un compromesso con una scrittura di fondo che, a prescindere dal piacerci o meno, è più importante di ognuno di noi.
L’organizzazione della comunità e la sua gestione, infine, sono quanto sogliamo definire con il termine «politica».
Una tale organizzazione non ha mai trovato adempimento valido al pari di una scienza, bensì la sua logica incapacità risolutiva, l’impossibilità di dare risposte coerenti alla verità rispetto alla giustizia e al bene comune dimostrano la precarietà di questo concetto che tendiamo a farci di politica. Ugualmente, avviene per quelle condizioni in cui si sia trovata la quadra rispetto a un sistema organizzativo e giuridico, nel quale comunque si evince la sua reiterata inadempienza, corruzione e, infine, irrealizzabilità.
La politica umana quindi non esiste, non è realizzabile, è un’idea che non può logicamente riconoscersi nella realtà della vita dell’essere umano, né descriverla. E, nuovamente, è bene considerare le cose per come sono piuttosto che per come ci appaghi pensarle. Politica è quella dell’alveare, non quella della città.
Ciò vorrebbe forse significare che dovremmo abbandonarci all’idea di perire e di non tentare neppure di guardare alla politica? Certamente no. Obiettivo dell’essere umano è quello di comprendersi, proprio come fu invito inciso sulla porta dell’oracolo di Delfi: «conosci te stesso».
Non sarò un brav’uomo evitando di uccidere, per esempio, ma riducendo questo atto al necessario. Uccido ogni giorno, infatti: uccido microorganismi per respirare; uccido insetti, involontariamente o per ripararmi dai loro fastidi; uccido per cibarmi. Non sarò un brav’uomo evitando di avere pensieri macabri o immorali, ma soltanto accogliendoli, accettandoli ed esaminandoli sarò in grado di domarli e, gradualmente, sopprimerli.
Tutto ciò dimostra, dunque, che non possiamo esimerci dall’essere ciò che siamo. E non potremmo neppure scegliendo di toglierci la vita stessa, poiché facendolo avremmo comunque compiuto uno degli atti sopracitati, oltre al fatto che, nella vita che abbiamo avuto, dalla nostra nascita al nostro suicidio, avremmo comunque compiuto, nuovamente, una di queste cose.
Stessa cosa, dunque, vale per la comprensione della politica. Scopo dell’essere umano, in questo senso, non è credersi capace di realizzarla ottemperando, come diretta conseguenza, alla realizzazione del suo opposto e cioè all’incapacità di vivere con gli altri e saper gestire la cosa pubblica.
Scopo dell’umano è, invece, quello di tendere alla politica. E questa tensione costante potrà darsi soltanto attraverso la comprensione della propria natura, non evitandone i limiti, ma accogliendoli, accettandoli, esaminandoli; non assecondando i nostri pregiudizi e la nostra maniera più spontanea, ai fini della nostra immediata soddisfazione, di concepire il mondo e le sue componenti, ma cercando di demolire la nostra immediata concezione delle cose, di porla al centro di un interrogatorio, assumendo un atteggiamento che, quasi aprioristicamente, desideri altresì trovare il torto in noi stessi e nelle nostre visioni del mondo.
5. Ideologie politiche e natura umana: un breve confronto logico
A questo proposito, ancorché la logica di tali considerazioni rischi di essere fraintesa dagli apriorismi, è utile un’ulteriore considerazione in merito a come dovrebbe avvenire questa tensione verso la politica.
Si è infatti detto che l’individuo umano ha una necessità a condividere, per via della sua precarietà individuale. Parimenti, tuttavia, si è considerato l’egoismo costitutivo dell’essere umano come motore principale a fondamento del suo desiderio individualista.
Ora, consideriamo le due posizioni dicotomiche, in termini ideologici, protagoniste dei maggiori scontri politici dal disfacimento degli antichi regimi occidentali: le cosiddette «destra» e «sinistra» politiche, insomma.
Apologeticamente, sarà opportuno considerare che le questioni qui affrontate non scendono nel merito delle personalità che tendiamo a legare a queste ideologie, né tantomeno degli avvenimenti storici, dovendo opportunamente considerare che entrambe le posizioni abbiano visto dei periodi di estremismi tradottisi in tragedie di portate non quantificabili.
Parimenti è non soltanto necessario, ma obbligatorio a rigor di onestà intellettuale, osservare che la messa in pratica di tali ideologie non avesse nulla a che vedere con le concezioni espresse dai teorici delle stesse, e basterebbe leggerle per rendersene conto. Certo, non si potrà dire ugualmente per il Mein Kampf (1925) di Adolf Hitler e Il Capitale (1867) di Karl Marx, ma è bene dare nome e cognome alle cose e smetterla di giudicare tutto realizzando un inutile pot-pourri di roba indistinta, dove azioni e idee accomunate da soli arbitrari nominalismi vengono confuse, per il solo fatto che essendo cresciuti in contesti che ci abbiano indirizzati ad appoggiare una posizione ci portino non soltanto a ritenere quest’ultima assolutamente vera, giusta, adeguata, ma pure a difenderla a spada tratta.
Tenendo a mente unicamente le ideologie portanti, dunque, abbiamo quanto segue.
La «destra» è rappresentata da un atteggiamento conservatore, moderato o reazionario in base all’interpretazione dell’aderente, con un appoggio di posizioni individualiste e, in termini economici, liberiste. Per la destra, insomma, cultura, tradizione e religione vanno salvaguardate e difese, la patria onorata, il mercato deve essere libero, il singolo individuo deve potersi ergere al di sopra della comunità, se è in grado di crearne le condizioni. L’estremismo di queste posizioni si erge al nazionalismo, ove il concetto di patria diviene fondamentale e da cui possono sfociare matrici razziste, xenofobe, dal momento che la considerazione dello straniero diviene secondaria e dichiaratamente deleteria.
La «sinistra» è invece rappresentata da un atteggiamento progressista, ove la concezione della comunità assume connotati laici, rendendo la cultura mutevole, così come la tradizione; non v’è un concetto di patria, poiché l’unica contemplazione del confine è indirizzata al fine di abbatterlo, cosicché al nazionalismo si usa contrapporre l’internazionalismo; il mercato va regolamentato e sottoposto a controlli e limitazioni da parte dello Stato; la concezione della vita comunitaria è di natura egualitaria, sicché ogni individuo deve essere ritenuto uguale a ogni altro in termini sociali. Nelle posizioni più estreme, questa ideologia politica ritiene che il mercato vada interamente statalizzato, e l’egualitarismo sociale condotto ai limiti dell’utopica anarchia, e cioè all'auto-governo di ciascun individuo.
Ciò detto, e affermando che ognuno debba essere libero, avendone motivi, di scegliere l’una o l’altra tra queste posizioni, procediamo servendoci di questi inquadramenti, sovrapponendoli alle considerazioni svolte in precedenza.
È stato considerato come l’essere umano sia naturalmente egoista e individualista e come non gli vada a genio l’idea di dover condividere la sua vita con altri individui: benché egli sia un animale sociale, infatti, non è politico.
La sua socialità, in altri termini, ha lo scopo principale di garantirgli la sopravvivenza e, tra le altre cose, di perpetuare la sua possibilità di realizzazione della cosiddetta vana gloria, attraverso la sua naturale disposizione a intendersi migliore degli altri e a volerlo dimostrare mediante una costante ricerca di potere, qualunque sia il livello in cui si trovi e qualunque sia l'oggetto desiderato su cui esercitare un tale potere.
Ugualmente, è stato detto che la ricerca di una vita comunitaria sia qualcosa di assolutamente logico, ancorché all’essere umano possa o meno piacere, poiché non è data alternativa, dalla natura, a questa scelta affinché egli possa sopravvivere.
Sulla base di ciò, è facile osservare come l’umano, se rapportato alle due principali ideologie politiche sopra esposte, sia naturalmente, e perfino fisiologicamente, descritto in maniera puntuale dalla «destra».
Avendo considerato ciò, tuttavia, è possibile notare come l’unica maniera di perpetuare la vita della specie sia quella di scendere al compromesso comunitario e, quindi, di trovare la maniera meno stressante per condividere la quotidianità con i propri conspecifici.
E, a ben vedere, questo è quanto è definito dall’ideologia di «sinistra».
Risultato logico di questo ragionamento, che cerca di seguire la sua coerenza, è che l’essere umano sia naturalmente «di destra», ma che per sopravvivere non abbia alternativa all’essere «di sinistra».
La storia mostra come posizioni populiste e sovraniste abbiano il retaggio della destra e che proprio essa ne sia stata, prima tra le parti, in maniera strategicamente arguta, la prima promotrice. Allo stesso modo, persone poco scolarizzate e, per ragioni assimilabili alla natura umana più tribale, avverse al prossimo loro, tendono ad assecondare posizioni di destra: ciò perché, difatti, agiscono con spontaneità e senza soluzione di continuità con la propria disposizione naturale. La stessa semplicità nel trovare adesioni da parte di chi rappresenti questa corrente sarebbe sufficiente a motivare ulteriormente i ragionamenti qui condotti.
Allo stesso modo, tra i pochi economisti che abbiano saputo oggettivare correttamente la realtà, avendone riscontro empirico e non basandosi su assunti ideali e considerando la coerenza dei soli ragionamenti matematici a essi successivi, Thorstein Veblen ha mostrato con coerenza deduttiva, nel suo libro La teoria della classe agiata (1899), come il retaggio individualista del libero mercato contemporaneo ponga sul podio più alto gli individui con caratteristiche affini a quelle dei predatori. La sola spontaneità con cui si è venuto a costituire il modello liberista del capitalismo occidentale, peraltro, dimostra come l'umano sia naturalmente più incline ad avere e ad appoggiare modelli descritti dalla dottrina della destra.
L’ideologia fondata sull’egualitarismo, d'altro canto, presenta tutti i requisiti per poter ottemperare alle necessità comunitarie e, in ultima analisi, all’unica possibilità di sopravvivenza per l’umano, nel lungo termine. Soprattutto se volessimo considerare il mondo globalizzato in cui, come notò puntualmente Galimberti, siamo capaci a lasciar circolare le merci dappertutto, ma non gli esseri umani.
Imitare l’alveare non disponendo tuttavia delle caratteristiche fisiologiche delle api è certamente un obiettivo arduo a cui ambire, oltre a richiedere necessità di un’enorme capacità di cedevolezza al compromesso e all’abbandono della necessità individuale di prevaricare, a tutti i costi, sul prossimo.
Le proporzioni numeriche, la storia, l’inclinazione naturale: tutte queste cose dimostrano che l’essere umano, senza sottoporsi a un adeguato lavoro su se stesso, sarà sempre incline all’individualismo. Le caratteristiche di quest’ultimo, infatti, sono più adeguate alla sopravvivenza del singolo, così come la sua cultura gli suggerisce; le caratteristiche dell’egualitarismo, invece, servono alla sopravvivenza del gruppo, così come la sua natura gli mostra.
Nel singolo caso della specie umana, se tuttavia nel breve termine la sopravvivenza del singolo può essere considerata esauriente ai fini della riuscita, nel lungo termine non soltanto non è in grado di produrre giovamento, ma getta altresì tutte le condizioni per il disfacimento della comunità e, quindi, ai suoi livelli estremi, per la fine della specie. Quando ciò avverrà, difatti, non sarà perché le nostre azioni globali saranno peggiori di quelle di altri periodi storici in cui l'individualismo non avesse freni, ma quando invece i dispositivi tecnologici, unitamente a questi atteggiamenti di comune individualismo, saranno sufficientemente maturi e potenti perché le conseguenze delle nostre azioni producano effetti segnatamente più grandi.
E che questa cosa sia sempre più in procinto di accadere, così come il notare che le possibilità risolutive siano oggi quasi del tutto nulle, è quanto mi rammarica dover ammettere, affermando che ciascuno di questi miei sforzi nell'impiego del ragionamento non sia altro che vano.
6. Uso cosciente dell'egoismo
Avendo dunque affermato che non vi sia alternativa all'egualitarismo per la sopravvivenza della specie umana, rimane tuttavia il problema di come conciliare l'egoismo con esso.
D'altronde, nessuno dotato di razionalità, a meno che non sia uno scellerato, si aspetterà che chiedendo agli esseri umani di «amare il prossimo» si possa risolvere alcunché.
Quel che appare logico, invece, è mostrare sempre all'egoista quale sia il vantaggio che possa trarne per se stesso. Così, al contrario che il vuoto volersi bene, un monito logico, presente un po' in ogni culto di ogni luogo e tempo della Terra – nello Zoroastrismo, nell’Ebraismo, nel Sikhismo indiano, nell’Induismo, nello Giainismo, nel Cristianesimo, nell’Islam, nel Buddismo, nel Taoismo – e, dunque, per questa stessa ragione, assolutamente naturale e non certamente frutto di qualche divina rivelazione, è quello descritto dall'etica della reciprocità: secondo quest'ultima bisognerebbe sempre comportarsi nei confronti degli altri per come ci paia opportuno che gli altri si comportino nei nostri confronti.
Così, avere propensioni egualitarie non significa comportarsi in maniera disinteressata. Perfino gli eroi che quotidianamente osanniamo, quasi sempre martiri, agirono fino alla propria auto distruzione mossi dall'egoismo. E ciò perché l'egoismo non è una cosa cattiva e riprovevole: semmai, tale può essere l'uso che se ne fa.
Uno smodato egoismo, del tutto irrazionale, è quanto ci conduca frettolosamente a credere di poter fare a meno degli altri e, consequenzialmente, a fregarcene o finanche a prevaricarli di proposito.
Un uso opportuno e razionale dell'egoismo, invece, è quello che ci consenta di vedere come la garanzia della perpetuità della nostra individuale libertà stia nell'attenzione che poniamo alla realizzazione di quella altrui.
La massima espressione del raziocinio umano non sta tanto nella capacità logica di formulare nozioni scientifiche e costruire dispositivi di alta tecnologia, quanto più nella capacità di saper domare le nostre passioni, i nostri sentimenti, le nostre emozioni e tutte quelle cose derivate dalla spontaneità animale che corrompono la nostra condotta quotidiana. Sta, in ultima analisi, nella nostra capacità comunitaria di costruire, giorno per giorno, un'etica capace di garantire quanta più libertà possibile a quanti più nostri conspecifici possibili.
Rispetto alla libertà sociale, distinguendola da quella ontologica, ho già accennato altrove; per completezza, tuttavia, voglio fornire anche qui alcune delucidazioni che possano giovare nella comprensione tanto di essa quanto di ciò che a essa si leghi indissolubilmente, ossia il concetto di tolleranza.
Con libertà sociale intendo la possibilità di operare secondo i propri desideri e le proprie volizioni entro, tuttavia, un limite coatto stabilito comunemente attraverso un sistema di leggi.
Con tolleranza intendo l’atteggiamento di chi è incline a rispettare punti di vista e posizioni difformi dalle proprie, riuscendo pure a conviverci senza opporvisi.
Per l'attuazione di entrambe nel contesto comunitario, tuttavia, è necessario che sia l'una che l'altra non siano propriamente libere. Potrà infatti sembrare antinomico affermare che a garanzia della libertà vi sia la necessità, e cioè la mancanza di libertà della libertà stessa. Tuttavia, le cose stanno, invero, così.
Nel contesto comunitario, infatti, l'unica maniera di esprimere la libertà di ogni individuo è che essa possieda come limite invalicabile la libertà degli altri individui. A esprimere la maniera in cui la propria e l'altrui libertà possano essere garantite è un sitema di regole comuni, ossia le leggi dello Stato democratico. Se queste venissero meno e la libertà sociale si trovasse a essere propriamente libera, essa, contrariamente a come verrebbe spontaneo pensare, perirebbe, si auto distruggerebbe.
Allo stesso modo anche la tolleranza possiede un limite, il quale è stabilito dal suo opposto, ossia dall'intolleranza. La tolleranza, come mostra Karl Popper, deve infatti opporsi all'intolleranza, poiché se tollerasse quest'ultima verrebbe da essa annientata. Quindi, anche una sconfinata tolleranza, ossia una tolleranza del tutto libera, sortirebbe la propria autodistruzione.
Così, varcare il limite imposto da una legge, al di là del timore della pena, equivale a fare un uso irrazionale dell'egoismo.
Se prendessimo a esempio uno dei più grandi problemi della nostra comunità, ossia quello relativo all'evasione fiscale, ci accorgeremmo subito di quanto appena affermato. Se io pensassi che evadere le tasse possa essere una maniera di garantirmi maggiori guadagni, infatti, sarei in torto, poiché garantirei maggiori guadagni monetari a me stesso nel breve termine, ma sortirei gli effetti del mancato gettito fiscale nell'erario dello Stato nell'assenzza di servizi vari di cui io stesso godrei nel lungo termine. Ma se questo può ancora sembrare vacillante, allora si consideri proprio un esempio concreto.
Immaginiamo che un cittadino possieda una struttura ricettiva per il turismo e che, negli anni, non paghi mai tasse riuscendo a venirne fuori, di anno in anno, illeso. Nel breve tempo egli avrebbe accumulato la ricchezza monetaria derivata dalla mancata tassazione e, nondimeno, tutto ciò che circondi la sua struttura ricettiva, come manutenzione del verde pubblico, di strade, gestione dei rifiuti, servizi di trasporto e quant'altro ne verrebbero meno. Negli anni, inoltre, l'inflazione procede fisiologicamente ad avanzare e, così, quella sua ricchezza monetaria avrà perso potere d'acquisto. Ugualmente, per la medesima ragione, egli dovrà adeguare i prezzi della sua struttura alla necessità dell'aumento, cosicché i turisti, per garantirsi un soggiorno lì, dovranno pagare più degli anni precedenti. Ma un turista, mediamente, non si muove per visitare le strutture ricettive, quanto invece si serve di siffatti luoghi come appoggio per poter fruire del territorio in cui esse siano ubicate. Se perciò la gestione di quel territorio viene corrotta dal mancato adempimento alla tassazione del proprietario della struttura e, per di più, di anno in anno i prezzi di quest'ultima vadano aumentando in linea alla necessità, il turista sarà sempre meno propenso a pagare. Gradualmente, la struttura perderà dunque il numero abituale di clienti degli anni passati, dovrà affrontare spese maggiori, e l'evasione fiscale del suo proprietario sarà stata una parte fondamentale delle ragioni alla base di quello che, nel corso del tempo, potrà pure essere il suo completo fallimento.
Il problema di questo genere di questioni è che, tendenzialmente, esse appaiano chiare anche ai cittadini più disonesti e, ciononostante, essi continuano comunque a infischiarsene. La ragione di ciò è di natura numerica, un po' come per l'usuale mancata affluenza alle votazioni: il cittadino, mediamente, ritiene che svolgere il suo compito equivalga a non fare nulla, se non addirittura a produrre un danno unicamente per se stesso. Infatti, per la legge dei grandi numeri, riterrebbe che, da solo, non potrebbe esercitare un peso sufficiente a controbilanciare i meccanismi corrotti del grande gruppo di appartenenza; per il passaparola della disonestà, infine, penserebbe di trovarsi a essere l'unico, o comunque tra pochi, a pagare le tasse che, per di più, andranno aumentando proprio per via dell'evasione degli altri potenziali contribuenti disonesti.
Tutto ciò, però, dimostra ancora che non si tratti di altro se non di un'incapacità a vivere secondo un egoismo razionale e ragionato. E, d'altra parte, che un siffatto egoismo razionale sortirebbe, come effetto, la formazione di una società involontariamente altruista.
Infatti, l'altruismo non è un atteggiamento disinteressato. Il più delle volte, al contrario, dietro la maschera dell'altruismo si cela il desiderio di essere intesi socialmente come degli altruisti: quindi, una vera e propria forma di egoismo spietato. Se compio un'azione che aiuti qualcun'altro, infatti, mi verrà detto che sono un altruista, e cioè una persona buona che si interessi di produrre un bene per gli altri. Ciò significherebbe che al compimento di questa mia azione sarebbe sottinteso il soddisfacimento di un obiettivo preciso: quello di essere ben visto da chi mi osservi.
Esistono casi documentati in natura di altruismo disinteressato, per carità. E ciononostante si tratta comunque di eventi talmente isolati da non produrre un peso a favore della considerazione dell'altruismo alla stregua di qualcosa di puro e intatto.
Nondimeno, qualunque sia la matrice del comportamento altruista esso giova perché favorisce l'innescarsi, in ogni caso, di un meccanismo di scambio: se oggi sono altruista nei confronti di qualcuno, aumento le possibilità che quel qualcuno sia tale nei miei confronti in futuro.
Così, l'adempimento all'egualitarismo non avviene per via di una particolare forma di bontà, o amore per il prossimo, ma dal pervenire razionalmente alla comprensione che esso si risolverebbe in un giovamento futuro per se stessi. Chi decanti le proprie ideologie egualitarie per adornarsi del merito d'esser buono, infatti, mente o, in alternativa, funziona male come organismo vivente. Difatti, la mancata comprensione di un meccanismo – e, nel nostro caso, di questo meccanismo specifico – produce effetti positivi allo stesso modo di come la lotteria arricchisca certi individui. A garanzia, invece, di una ricchezza perpetua, proprio come alla lotteria si sostituisca la cosciente gestione delle proprie finanze, nel caso del vivere comune è la comprensione delle nostre disposizioni naturali, ossia quelle egoistiche, per poterle assoggettare al controllo razionale e, quindi, per perpetrare dei tipi di comportamenti capaci di garantire un quieto vivere comune.
Essere individualisti credendo di essere furbamente egoisti è un modo frettoloso e abbondantemente ignorante di intendere la questione. Infatti, come mostrato in precedenza, tale atteggiamento equivarrebbe a lasciare che sia la nostra disposizione più naturale, dunque più animale e meno razionale, a governarci.
Conclusione. Come andranno le cose
Vorrei avviarmi verso le conclusioni disponendo in ordine quanto fin qui considerato.
Anzitutto, un confronto tra umani e animali è servito a offrire un sia pure parziale ridimensionamento della comune maniera di intendere gli esseri umani come superiori, cercando altresì di inserirli all'interno di una visione più olistica, mediante la considerazione dei loro eventuali pregi e difetti costitutivi e comportamentali.
In secondo luogo, è stata mostrata un'enorme debolezza della natura umana come derivante direttamente dalla sua più grande manifestazione di potenza, ossia l'implementazione tecnologica, che è in grado di produrre sempre maggiori agi e, tuttavia, all'aumentare di siffatti agi, a condurre l'essere umano sempre più lontano dalla consapevolezza della realtà, rendendolo sempre meno incline all'impiego di sforzi – specificamente in merito all'utilizzo del ragionamento, effetto della sua singolare intelligenza.
In terzo luogo, s'è trattato dell'individualismo e dell'egualitarismo: il primo appare definire l'atteggiamento spontaneo, ossia la traduzione di una propensione naturale dell'essere umano; il secondo, anche in virtù del suo impiego reiterato in condizioni di precarietà sociale, appare comportarsi come una cura della comunità, mostrandosi come un prodotto della razionalità. Ugualmente, la trattazione è pervenuta alla considerazione dell'egoismo come motore principale della natura e, in particolare, di quella umana, mostrando nondimeno casistiche isolate di altruismo.
In quarto luogo, attraverso l'impiego dell'etologia comparata s'è considerato cosa sia la politica e in quali società animali si manifesti, mostrando che per quanto gli umani si occupino di gestire la vita comunitaria, la politica non sia espressione naturale dell'individuo umano, quanto incvece il prodotto di una necessità per la quale non si diano altre alternative.
In quinto luogo, attraverso la descrizione delle due ideologie portanti delle società umane s'è proceduto a una sovrapposizione delle di loro dottrine alle considerazioni svolte in precedenza, potendo adempiere sillogisticamente alla considerazione generale che le dottrine individualiste favoriscano il reiterarsi di atteggiamenti spontanei nell'individuo umano, mentre le dottrine egualitarie si oppongano, in maniera quasi artificiosa, alle sue disposizioni naturali.
Infine, s'è visto come l'egualitarismo, così come l'altruismo, siano espressioni di atteggiamenti coscientemente egoisti e non maniere disinteressate di produrre del bene da parte degli individui. Ciò, nondimeno, non appare depauperante per i concetti di egualitarismo e altruismo in sé, ma al contrario manifesta una maniera razionale di vivere in continuità con la nostra natura. Così, al posto di rinnegare noi stessi volendoci vedere necessariamente in maniera fatata e pura, quel che viene proposto è altresì di comprenderci nelle nostre più spontanee debolezze, sì da poter domare i nostri comportamenti istintivamente più deleterei al vivere comune.
Ora, avendo ripercorso quanto fin qui trattato, appare chiaro che, purtroppo, il futuro non serba per noi, come specie, nulla di positivo.
Infatti, considerando che l'accumulo culturale produrrà un incremento tecnologico sempre maggiore e, viceversa, una sempre minore consapevolezza negli individui umani, conseguenza sarà che questi ultimi saranno sempre meno inclini a servirsi della propria razionalità, avendo qualcosa che, al posto loro, possa occuparsene. Ma se i nostri atteggiamenti naturali sono individualisti e se, al contrario, i nostri atteggiamenti egualitari scaturiscano dalla comprensione razionale di ciò che siamo, allora avviene che una popolazione sempre meno razionale produrrà un individualismo sempre più spietato.
A ben vedere, questo appena descritto non è il nostro futuro, ma è il nostro presente. Anzi, a voler essere puntuali, è pure ormai il nostro passato.
Se consideriamo che nell'arco di qualche decennio potremmo pure raggiungere quella che, rispetto all'intelligenza artificiale, viene definita singolarità, e cioè la capacità della macchina non soltanto di eseguire un compito ma addirittura di programmarne l'esecuzione prendendo una tale decisione in totale autonomia, allora non serve a nulla proseguire oltre. Più precisamente, inoltre, gli effetti della singolarità tecnologica saranno manifesti non già quando le macchine saranno autonome, bensì quando le loro capacità di comprensione supereranno quelle umane. E, purtroppo, non stiamo parlando di fantasia, ma di una realtà giorno per giorno più vicina a noi.
Queste righe, quindi, mostrano sì la possibile cura della società. Ma più propriamente esse spiegano come, perché e in virtù di quale meccanismo questa società si estinguerà.
Se quindi possiamo affermare la nostra superiorità tecnologica, nonostante, come si è visto, essa non sia altro che il fortuito risultato di un processo di adattamento inizialmente necessario, non possiamo affermare quella morale e comportamentale. Ugualmente, la tanto decantata potenza delle nostre capacità cognitive, al posto che elevarci nell'eventuale piramide naturale, come piace a noi ritenere, non fa che ridicolizzarci reiteratamente.
In questo senso, dunque, benché strabilianti, i nostri sviluppi tecnologici dimostrano soltanto una parziale capacità della nostra ragione, una comprensione logica e non morale, una parte che non ci è sufficiente a garantirci la sopravvivenza come esseri veramente superiori. Forse più potenti, più forti, ma non per questo superiori.
Possiamo pure sviluppare l’energia nucleare, insomma, ma se finiamo per utilizzarla a scopi distruttivi contro noi stessi ciò significa che siamo tecnologicamente tanto progrediti quando poco lo siamo eticamente. E, di nuovo, che la nostra intelligenza non sia motivo di vanto per come sogliamo ritenere.
Tra i fisici ci si diletta spesso a cercare una risposta al cosiddetto paradosso di Fermi, il quale, considerando l'immensa quantità di stelle e di possibili pianeti in cui possano esservi le condizioni per la vita, si domanda come sia possibile che nessuna civiltà sviluppata, al pari o più di noi, sia mai entrata in contatto con la nostra. Infatti, se vi fosse – e in termini probabilistici sarebbe assolutamente possibile – qualche civiltà aliena più sviluppata di noi, o anche soltanto quanto noi, saremmo riusciti in qualche modo a inviarci un segnale. In risposta al paradosso di Fermi è stata proposta la teoria del grande filtro. Essa si sviluppa in una maniera ottimista e in un'altra pessimista: la prima, proporrebbe che in realtà, vista la grande quantità di fattori necessari per lo sviluppo della vita come sul nostro sistema, quella nostra potrebbe essere l'unica civiltà che abbia superato la barriera all'evoluzione della vita intelligente, cosicché noi dovremmo divenire i primi colonizzatori dell'universo; la seconda, invece, che vi siano e vi siano state forme di vita più intelligenti di noi e, tuttavia, raggiunto un certo livello evolutivo esse siano pervenute, prima di poter colonizzare l'universo, alla propria auto distruzione.
Quanto fin qui inteso, come appare chiaramente, non lascia dubbi rispetto a quale sia, in virtù dei ragionamenti fin qui condotti, la soluzione che maggiormente appaia possibile tra le due. L'avanzare della tecnologia, fino al pieno sviluppo dell'intelligenza artificiale, commisto al diminuire della comune consapevolezza e, dunque, al moltiplicarsi e all'acuirsi di comportamenti individualisti spiega da sé come andranno le cose.
Purtroppo, quando giungeremo alla nostra completa auto distruzione, e gran parte delle altre specie della Terra che abbiamo sempre ritenuto esserci inferiori sopravviveranno alla nostra estinzione, non ci sarà nessuno a poter constatare che, in fin dei conti, noi eravamo i più sciagurati e mal funzionanti organismi che la vita potesse produrre.
Note
(1) M. Tomasello, Le origini culturali della cognizione umana, p. 24.
(2) Ivi, p. 32.
(3) Ivi, pp. 60-61.
(4) Ivi, pp. 47-48.
(5) E. Wilson, Biofilia, p. 146.
(6) M. Reale, La difficile eguaglianza: Hobbes e gli “animali politici”: passioni, morale, socialità (1a ed edition 1991), Gli studi. Filosofia e scienze umane (Italian Edition), Roma: Editori Riuniti, 1991.
(7) R. Dawkins, Il gene egoista, p. .
(8) Ivi, p. .
(9) Aristotele, Politica, I, 2, 1253, a.
(10) T. Hobbes, Elementi di legge naturale e politica (1640), trad. it. di Arrigo Pacchi, Firenze, «La Nuova Italia» Editrice, 1968, p. 158
(11) G. H. Mead, Mente, sé e società, pp. 300-301.
(12) Per approfondimenti si veda K.V. Frisch, Il linguaggio delle api.
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