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Una concezione infantile di Dio e le sue perpetue conseguenze

  • Immagine del redattore: Giovanni Cusenza
    Giovanni Cusenza
  • 1 giu 2017
  • Tempo di lettura: 88 min

Aggiornamento: 20 mag 2024

Avvertenza: le aggiunte tra parentesi quadre "[...]" sono state effettuate a distanza di sette anni dalla stesura del presente articolo, ossia nel 2024.



Indice




Introduzione


«La mente popolare si comporta come fa generalmente: crede in ciò che desidera»

Sigmund Freud, Il sogno e scritti su ipnosi e suggestione


A partire dal titolo di questo articolo, appare chiaro tanto il messaggio quanto l’argomento.

Il messaggio, pare infatti essere che la comune concezione di Dio abbia un sapore «infantile». Ho scelto questo termine proprio per riallacciarmi alla sua etimologia, che riporta all’«infante», considerato non per la sua sola età, quanto per un uso sfrenato dell’immaginazione, molto più distaccato dalla necessità della ragione ai fini della sua vita quotidiana. È chiaro che, partendo da questa considerazione, non si sta trattando dei bambini come di esseri privi di ragione, poiché essi manifestano a più riprese dall’alba dei tempi capacità di risoluzione dei problemi che dimostrano ampiamente quanto ne siano fin da subito capaci. Utilizzo tale termine un po’ per riallacciarmi al modo in cui James Frazer svolse le sue analisi nel suo scritto Il ramo d’oro (1890), considerando la magia dapprima e la religione dopo, come degli stadi infantili dell’umanità, in una dialettica che approda all’uso della ragione. Ludwig Wittgenstein non ebbe a fare belle considerazioni – com’è noto – circa lo scritto di Frazer, anche per via della sua fede cristiana, probabilmente. In ogni caso, questo capitolo non tratterà né di Frazer, né di Wittgenstein, quanto più si servirà delle diverse interessanti idee filosofiche rivolte all’uso dell'immaginazione umana, sui difetti a fondamento dei nostri pregiudizi, per passare poi ad alcune analisi dei testi ritenuti sacri, cercando di mostrare se vi sia qualcosa di utile in essi.



1. Immaginazione, antropocentrismo, antropo-poiesi


Se come obiettivo abbiamo quello di conoscere il mondo, dobbiamo riflettere sui nostri metodi di oggettivazione e le relative “contaminazioni” formali che indubbiamente si proiettano sulla nostra conoscenza. Conoscere qualcosa è diverso, insomma, da adattarla al nostro pensiero. Conoscere qualcosa è, tutt’al più, un modo di conformare il nostro pensiero a essa e non viceversa.

Ogni individuo del pianeta, com’è prassi della natura, tende a conoscere il mondo a partire dalla sua personale disposizione a farlo. La conoscenza del sé, per esempio, trattando dell’essere umano, pare svolgersi secondo un meccanismo di riflessione sull’altro.

Fra i più famosi studi contemporanei, in campo psicologico, intorno a questo argomento abbiamo le ricerche di Mead, quelle di Tomasello, il comportamentismo di Watson, e tanto altro.

Formulata una conoscenza preliminare di se stesso, l’umano conosce il mondo attorno a sé, ma chiaramente non può esimersi dall’usare se stesso, a sua volta, come metro e mezzo di misura per conoscere ciò che lo circonda. Laddove il mondo presenta le sue caratteristiche esplicite e gli oggetti della conoscenza si espletano nella loro concretezza, l'essere umano può studiarlo e conoscerlo seguendo parametri di misurazione quantitativi tangibili, misurabili e, quindi, dimostrabili – come mostra la scienza contemporanea. Esistono tuttavia questioni intorno alle quali non è possibile procedere a misurazione alcuna, quanto più paia possibile altresì stimare la loro natura a partire dagli effetti che producono. Esistono, ancora, concetti del pensiero umano, utilizzati per designare talune cose, la cui natura è talmente difficile da indagare da restare quasi totalmente celata, impedendone l’oggettivazione e quindi la conoscenza.

Fra le questioni a cui è difficile rispondere, come quelle esistenzialiste in generale, la questione concernente Dio e la sua natura è certamente la più discussa nella storia del mondo, poiché a essa, nello specifico, si ricollegano molti altri argomenti, come quelli relativi all’esistenza, alla creazione del mondo, al fine verso cui sarebbe condotto, all’etica e al comportamento, dunque al bene e al male, e così via.

È chiaro, quindi, che quella di Dio, date le conseguenze gnoseologiche e le implicazioni sociali, sia una questione di non poco conto per la storia dell’umanità. L’umano pare infatti avere qualcosa di simile a una disposizione naturale che lo orienta alla formulazione del divino, come mezzo per dar senso a tante cose del mondo e alla sua stessa natura. L’umano cerca in Dio la risposta a se stesso e al mondo. Tramite l’idea di Dio egli sopperisce alla domanda intorno al «perché» della sua esistenza, trovando un mezzo con cui combattere il timore delle sue constatazioni, come quelle relative alla morte o al fatto che le cose non procedano secondo l’idea che egli possieda di «bene», per esempio.

La morte è sempre stata uno dei motivi attanaglianti il pensiero umano: l’uomo vede la vita come corruttibile, incline al cambiamento, all’invecchiamento e alla fine. Non possedendo alcuna conoscenza preliminare intorno ai moventi a sostegno di un tale meccanismo, non sapendo a cosa lo condurrà relativamente al suo campo percettivo e sensoriale, non avendo alcuna certezza intorno al cosa potrà sperimentare, si vede smarrito. La diretta conseguenza dell’ignoto è il timore verso di esso, e l’unico modo per sopperire alla pressione che tale questione esercita sul pensiero, per poter tornare alle mansioni quotidiane, è quello di liquidarla come qualcosa a cui qualcuno ha già pensato, qualcuno di più potente, qualcuno magari di onnipotente.

Seguendo questo percorso, tuttavia, l’umano sposa il suo metodo conoscitivo con l’oggetto più complesso e lontano della sua conoscenza: quello che chiama, appunto, «Dio». La formulazione dell’idea di Dio, essendo dunque direttamente correlata all’emozioni umane non può che essere, dunque, un prodotto naturale. Su ciò, prima di procedere, è il caso di fare una precisazione.

Ogni volta che gli uomini distinguono un prodotto naturale da un artificio, fintanto che lo facciano per designare differenti categorie di prodotti e oggetti, ha un che di sensato; nel caso in cui essi si servano di tale meccanismo, tuttavia, per designare un discrimine reale, il suo senso si smarrisce nel falso. Infatti, l’uomo è un prodotto della natura, un’entità da essa prevista e scaturita. Così come gli studi fisici contemporanei supportano l’idea che ogni cosa dell’esistente possiede una forma prestabilita, che ogni “momento” dell’esistenza sia preliminarmente “scritto”, che ogni evento non accada per caso, ma perché deve accadere, sicché ognuno sia collegato intimamente con ogni altro; così, dico, egli stesso è in-essere in quanto facente parte della lista di tutte le cose che esistono. Se l’uomo è dunque un prodotto naturale, ogni suo artificio e ogni sua invenzione sono tali, come dirette conseguenze del suo intervento su altri prodotti naturali. Né sarebbe possibile sostenere che l’uomo abbia “inventato” – nel senso di «creato» – le cose: egli le “inventa” in quanto le «manipola», assemblandole, lavorandole, creando reazioni interconnesse fra loro. Ma ognuno di questi meccanismi è insomma previsto dalla natura.

Quando tendiamo a distaccarci da questa concezione lo facciamo sempre in virtù del nostro costante stato di alienazione negli oggetti della tecnologia. Per fare un esempio massimamente contemporaneo: se guardiamo a un dispositivo elettronico come un computer, appunto, non ci verrebbe mai in mente di ricollegare la sua natura alla terra, ai suoi prodotti primordiali, per così dire. Eppure, esso non è altro che la lavorazione sempre più minuziosa di quei prodotti primordiali stessi.

È chiaro che se dovessimo rapportare questo discorso alle questioni relative all’inquinamento o al riciclaggio, perderemmo di vista quanto sostenuto in questa sede, poiché qui si sta trattando della natura delle cose e non delle conseguenze che gli artifici, prodotti di lavorazioni, possono avere in rapporto alla natura più, per così dire, primordiale.

Tornando sui nostri passi, dunque, è chiaro che l’idea di Dio possa essere considerata, in quanto prodotta dalla natura umana, un’idea del tutto naturale. Il fatto che essa sia un prodotto della natura, tuttavia, non ne giustifica la veridicità, la veridicità della sua esistenza, ma semplicemente la veridicità della sua essenza, la sua realtà nel pensiero, insomma. Comportandosi come uno degli oggetti della conoscenza – se non il primo – più celati della natura, la sua oggettivazione appare, come conseguenza logica, del tutto irraggiungibile. È per questo che molti pensatori, fin dall’inizio dei tempi, preferirono astenersi dagli inutili tentativi di comprenderla. Protagora di Abdera, per esempio, scriveva:


Riguardo agli dèi, non sono in grado di sapere né che sono né che non sono, né che natura abbiano: molti, infatti, sono i fattori che impediscono di saperlo, sia l’oscurità della questione sia la brevità della vita umana (1).


Com’è risaputo, poi, nella storia del mondo, formulare delle idee fantasiose della divinità non è stato unicamente la diretta conseguenza dell’ignoranza, ma principalmente il mezzo per la manipolazione dell’ignoranza altrui, necessario pure alla politica per esercitare un governo ferreo e indistruttibile. Come osservarono molti pensatori, in digressioni, pensieri, o anche “ammettendo” le proprie paure, infatti: chi avrebbe paura di un giudice terreno e della sua condanna, dinanzi a un giudice eterno e alla sua eterna condanna? In altri termini, similmente a come ammise Pascal: se dovessi scegliere fra una vita terrena sfrenata con una conseguente vita eterna di punizione e una vita terrena moderata, fatta di talune rinunce, ma con una conseguente vita eterna da beato, non è forse chiaro cosa mi sia più conveniente?

È chiaro – oserei, per fortuna – che non tutti gli individui la pensano, la pensavano e la penseranno così. Molti uomini sposano i loro timori in quanto fatti naturali e più che piangerli, nell’attesa del loro arrivo, cercano altresì di impiegare il tempo a loro disposizione nel tentativo di comprendere la propria condizione, non già risolvendola fantasticamente e pretendendo che gli altri la subiscano allo stesso modo.

La scienza contemporanea ci mostra oggi più che in ogni altro tempo, quanto ciò che esiste sia di gran lunga più mirabile e interessante della nostra stessa fantasia, poiché quest’ultima, servendosi comunque dei frammenti degli oggetti conosciuti, non può neppure sperimentare, se non sommando, sottraendo, o servendosi di analogie, ciò che non conosce. Quando pensiamo un unicorno, per servirci di un esempio comunemente utilizzato, quantunque non esista, lo formuliamo come costituito dalle parti di un cavallo con l’aggiunta di un corno in testa, lo immaginiamo con un colore particolare, o con semplici colori del cavallo, lo stilizziamo, lo pensiamo come un’animazione, o lo rendiamo altresì realistico, più simile a un vero cavallo. Così abbiamo fatto con Pegaso, con i minotauri, con i draghi e con qualsiasi altra figura inerente la nostra mitologia o, in generale, la nostra fantasia. Ma in ognuno di questi casi, le sue parti sono ineluttabilmente un prodotto derivato dal reale ed è chiaro poiché ci sarebbe pure impossibile immaginare nuove forme all’infuori di quelle che sperimentiamo nella vita e che traiamo dall’esistente – non poche difficoltà, infatti, sono sorte dinanzi alla fisica contemporanea, a esempio, nel tentativo di rappresentare lo spazio-tempo, in quanto se l’essere umano possiede una capacità di concepire sensorialmente molte cose, egli tuttavia non è in grado di sperimentare veramente tutto ciò che esiste attorno a lui.

Così, ogni volta che ci scontriamo con qualcosa di nuovo, ogni volta che gli studi ci conducono a nuove scoperte, riusciamo oltre che ad ampliare i nostri orizzonti conoscitivi, anche ad accrescere la nostra stessa fantasia. E tutto si supporta, autonomamente, in un meccanismo di massima importanza nella vita, poiché come in tal maniera la scienza nutre la fantasia, da un altro punto di vista la fantasia nutre la scienza: pensavamo come qualcosa di fantastico il volo, in passato; oggi, invece, siamo riusciti a realizzarlo. Mantenendoci su questo esempio, se i mezzi per raggiungere quest’ultimo scopo provengono dalla scienza, gli input alla scienza, anche in questo caso, provengono dalla fantasia, la quale ripescando le immagini reali di volo e uomo, ha creato il prodotto fantasioso dell’uomo volante; tale fantasia, a sua volta, ha spinto l’uomo a sperimentare in ogni modo per raggiungere lo scopo di volare, cosa che man mano diviene sempre più realistica, partendo da mezzi più grossi che consentano il volo e proseguendo verso tecnologie sempre più piccole che, già oggi, portano l’uomo a sperimentare una sensazione di volo sempre più simile a quella dei volatili. 

Nella sua Ethica (1677), Baruch Spinoza vide nell’immaginazione il primo livello della conoscenza, laddove il secondo sarebbe stato la ragione e, poi, quella che egli chiamava scienza intuitiva. Se del terzo livello non abbiamo bisogno, in questo preciso momento, di servircene, gli altri due mostrano come, in qualche modo, immaginazione e ragione si siano sempre tenute per mano.

L’immaginazione, a partire dalla sua etimologia (dal latino imaginatio, a sua volta derivato da imaginari – ossia, ‘immaginare’ – che rinvia infine al termine imago), altro non sarebbe che la facoltà delle immagini, la capacità del pensiero di rappresentare e operare mediante immagini, più o meno distinte. È chiaro che tale facoltà ha la possibilità di esercitare il suo potere in virtù dell’ausilio della memoria: forse, la parte più importante della mente umana. Possiamo affermare questo poiché in assenza di memoria non avremmo alcuna ritenzione delle immagini, dell’esperire in generale, saremmo privati della grande quantità di dati in nostro costante possesso e, probabilmente, non potremmo neppure farci un’idea chiara di noi stessi. Anzi, è certo che, in assenza di memoria, finanche se stesso sarebbe qualcosa, per l’individuo, con cui dover entrare costantemente in confidenza: non ricordandosi neppure di se stesso, infatti, l’individuo non potrebbe neppure pensare di conoscere le cose del mondo attorno a sé. Ciò, perché è inevitabile l’oggettivazione del mondo a partire da se stessi e dalle proprie disposizioni; così come l’oggettivazione di se stessi riflettendosi sugli altri e sul mondo in genere. Come Spinoza scrive nell’Ethica:


Un soldato, per esempio, vedendo sulla sabbia le impronte di un cavallo, passa dal pensiero del cavallo a quello del cavaliere e quindi al pensiero della guerra e così via. Il contadino, invece, dal pensiero del cavallo passerà al pensiero dell’aratro, del campo, ecc. e così ognuno così come è stato abituato ad associare e a concatenare le immagini delle cose passa da questo pensiero a quello o a un altro (2). 


Un tale modo di procedere è del tutto naturale, poiché prodotto delle immagini incamerate dal nostro pensiero, a partire dall’esperire: esso, infatti, inglobando le impressioni sensibili passate, segue – come osservò Bottici, occupandosi dell’opera spinozista (3) – dei pattern, producendo, così, pensieri analoghi a quello appena citato nell’esempio del soldato.

Partendo da una considerazione di questo tipo è facile comprendere che controllare le volizioni di un popolo sia un obiettivo raggiungibile, edificando una buona politica dell’immaginazione

L’immaginazione – secondo Spinoza – è l’unico livello capace di produrre l’errore. Nella parte seconda dell’Ethica, proposizione XLI, il filosofo afferma: «La conoscenza di primo genere è l’unica causa della falsità, invece quella di secondo e di terzo genere è necessariamente vera» (4). Ciò non significa, com’è chiaro, che l’immaginazione, in quanto produttrice di errori e falsità, sia una facoltà da rigettare. L'immaginazione ha infatti una funzione di preliminare importanza per il processo conoscitivo. L’immaginazione produce, insomma, il falso oltre al vero. Essa, nondimeno, acquisisce la certezza delle sue asserzioni soltanto con l’ausilio del livello successivo della conoscenza umana: la ragione.

In sintesi, se la memoria permette di incamerare le informazioni, se l’immaginazione permette di elaborarle senza regole, la ragione ne verifica la sostenibilità elaborando i dati immaginativi attraverso un sistema di regole, e cioè quel sistema di regole che Kant avrebbe chiamato «forma dell’intelletto» e che comunemente definiamo «logica». Infatti, cos’è la logica se non l’esemplificazione dei meccanismi dell’intelletto? La logica è l’intelletto stesso, se non – potremmo dire – il modo in cui l’intelletto studia se stesso.

In questo meccanismo, tuttavia, bisogna vedere ogni livello come necessitato dal precedente: senza memoria non potremmo immaginare; senza l’immaginazione non potremmo fornire alcun dato alla ragione; senza la ragione non è possibile ottenere le verità dei nostri calcoli, dei nostri ragionamenti, in generale. Fra i diversi pensatori della storia, Marsilio Ficino e Giordano Bruno misero in evidenza, più fra tutti, gli aspetti di produttività e innovatività dell’immaginazione, utile soprattutto per il lavoro mnemonico.

Immaginare è dunque una capacità di massima importanza; ciononostante, com’è stato osservato, essa è l’unico livello capace di produrre il falso. L’immaginazione produce il falso, appunto, poiché opera liberamente, senza essere necessitata da regola alcuna, a differenza della ragione. Esercitare il dominio delle regole sull’intelletto è di certo un lavoro che richiede un dispendio maggiore di concentrazione e quindi di energie. È chiaro, dunque, che l’uomo dalla mente pigra non elaborerà sempre le sue fantasie attraverso la ragione, quantunque egli ne disponga parimenti a chiunque altro. La mente pigra, che non ha voglia di impegnarsi, che non vuole spendere energie, è la mente del «popolino» di Spinoza; è la mente del volgo di ogni tempo e del cittadino medio odierno.

Ora, avendo indagato intorno alla causa, vediamo una conseguenza: l’antropocentrismo. Questo termine serve propriamente per designare la concezione che pone l’umano al centro della realtà, lasciando che egli creda, consequenzialmente, che ogni cosa sia creata per lui e per le sue necessità.

L’essere umano – in effetti – è la prima misura di tutte le cose: ma lo è per se stesso, nel senso che il primo modo che ha di conoscere il mondo è imprimere in esso parte di se stesso. Mi spiego meglio, fornendo un esempio: se osservo un animale, magari il mio gatto che riposa, nel tentare di comprendere il suo pensiero non faccio che affibbiargli il mio, in qualche modo, perché il mio è l’unico pensiero che sperimento in modo vivido; così, se lo vedo passeggiare per la campagna senza una meta particolare, ne deduco che sia alla ricerca di cibo, di un diletto, di un luogo in cui “fare i suoi bisogni”: quella che privilegio fra le mie ipotesi è quella che, rapportando i suoi movimenti ai miei, così come le sue espressioni, possa essere l’azione più ovvia e consequenziale, se fossi io al posto suo.

Appare ovvio, così, che se l’uomo rapporta a se stesso qualcosa che gli è sempre più distante e poco familiare avvengano errori conoscitivi: così, se tentassi di fare lo stesso ragionamento guardando uno scarafaggio, o ancora, un albero, una pianta, la conoscenza preliminare che ne trarrò sarà chiaramente più vacillante, poiché le disposizioni naturali di questi organismi si discostano maggiormente da quelle umane.

Così, l’antropocentrismo appare come un modo di procedere delineato come da un vettore teso verso l’uomo e che pone gli oggetti del mondo in linea, rispetto a lui, dal più simile al più difforme.

Nel caso etico, l'antropocentrismo si presenta in maniera ancora più distinta quando facciamo un analisi estetica – laddove sottintendo la concezione più radicale dell’estetica, in senso filosofico, che non si riduce alla considerazione intorno al bello, dell’estetica contemporanea, quanto più si sposa con la prima definizione di «estetica» offerta da Alexander Baumgarten nel suo manuale Aesthetica (1750): «L’estetica è la scienza della conoscenza sensibile» (5). L’estetica, in questa guisa, analizza il modo in cui ci rapportiamo al mondo a partire dalla nostra sensibilità, dalle nostre emozioni e dalle affezioni che riceviamo dagli oggetti che ci circondano, siano essi animati o inanimati.

Facciamo un altro esempio: se considero, rispetto al mondo e non rispetto a me stesso, un cane e uno scarafaggio, che mi piaccia o no, ne devo concludere che entrambi siano esseri viventi rispetto al mondo, che entrambi abbiano diritto alla vita, che l’uno non sia per natura migliore dell’altro; se considero il mondo rispetto a me stesso, come mi è anzitutto istintivo, ne deduco che il cane sia migliore dello scarafaggio per diversi motivi: è più bello ai miei occhi, posso avere con lui un rapporto più familiare, comprendo (o penso di comprendere) meglio i suoi meccanismi, immagino più facilmente le sue emozioni, ricevo da lui risposte più comprensibili, e via dicendo. Così, mi rapporto al cane in una maniera diversa rispetto allo scarafaggio: a esempio, se il cane mi piace lo accarezzo, lo rispetto, mentre è più difficile che abbia cura e rispetto di uno scarafaggio, il quale è più probabile che mi arrechi altresì disgusto: è più facile che io, insomma, schiacci o allontani da me lo scarafaggio. Alla fine di un tale processo, ne dedurrò che il cane è migliore dello scarafaggio. Ma quanto sia falsa quest’idea è palese dal ragionamento fin qui condotto: il cane e lo scarafaggio, insomma, sono esattamente identici dinanzi al mondo; essi differiscono, tutt’al più per caratteristiche formali e costitutive; nondimeno l’uno non può essere, in virtù di quanto sostenuto, considerato “migliore” dell’altro, se non in virtù del modo in cui agisce sulla nostra percezione e, dunque, sul nostro gusto. 


Infatti, la perfezione delle cose va giudicata solo dalla loro natura e potenza, ed esse non sono più o meno perfette perché dilettano o offendono i sensi degli uomini, perché si accordano con la natura umana o le ripugnano (6).


Privilegio il cane, insomma, in quanto mi è più facile immedesimarmi in lui: se tagliassi con una lama un cane, per esempio, vedrei una risposta cutanea più affine alla mia, potendo immaginare più distintamente il suo dolore; se facessi lo stesso con uno scarafaggio ne dedurrei certamente che quelle siano le sue interiora, ma in assenza di ragionamento, guidato solo dal senso, non avrei la stessa capacità di immedesimarmi in lui e, inconsciamente, potrei finanche pensare che la sua soglia di dolore sia totalmente nulla, concependo l’idea che recargli del male sia qualcosa di poco conto.

L’antropocentrismo può così essere rappresentato come un vettore: un vettore sul quale sono disposti gli oggetti del mondo che ci circonda. Continuando con l’esempio degli esseri viventi, un siffatto vettore rappresentabile avrebbe, in ordine: me stesso, gli altri uomini (prima del mio stesso sesso e con caratteristiche a me più affini, poi di sesso differente), poi il regno animale cui apparteniamo, partendo dai primati, a esempio, poi i mammiferi, poi le specie a me più lontane, come gli uccelli, i rettili, i pesci, i crostacei, gli insetti; di qui passiamo al regno vegetale, dalle piante più grandi, che espletano la loro costituzione e le loro caratteristiche in modo più chiaro, a quelle più piccole, seguite magari da quelle del mondo marino, che vediamo meno abitualmente; dalle piante passiamo agli organismi quasi del tutto invisibili, ai microrganismi, e così via.

È chiaro che ogni essere umano possieda un "vettore" diverso da quello di ogni altro: un pescatore, abituato a vivere al mare, potrebbe avere più familiarità con un pesce che con un altra specie, così come a un uomo che abbia passato la sua vita in campagna, vivendo di agricoltura e allevamento, non si presenta neppure, magari, il pensiero di un pesce, e così via.

La disposizione del mondo sul nostro vettore immaginario avviene secondo meccanismi diversi, quindi, da individuo a individuo. Tale disposizione è regolata dalla nostra esperienza, dal mondo in cui abbiamo condotto la nostra vita: un entomologo potrebbe aver la fobia di un pesce, piuttosto che di un insetto, per esempio. Insomma, tutto ciò non è altro – si badi – che una ripresa dello stesso esempio del soldato addotto da Spinoza nella sua opera e citato poc’anzi.

Passiamo, ora, all'antropo-poiesi. Per la verità, si tratta di un termine antropologico atto a designare i processi di costituzione dell’individuo in senso sociale e culturale, la sua auto-creazione e quella del suo patrimonio culturale. Etimologicamente, tale termine è il composto delle parole greche anthropos (uomo) e poiesis (creazione).

In questa sede tale termine – diciamo preliminarmente – è usato in maniera arbitraria rispetto all’uso più specifico, ma la sua arbitrarietà rientra chiaramente all’interno del suo senso etimologico: la creazione dell’umano, qui, è intesa sia come rivolta all’umano stesso; così come per intendere il modo che l’uomo ha di «creare» il mondo attorno a sé: e nel dominio della manipolazione degli oggetti, e nel dominio della manipolazione dei concetti che stanno dietro agli oggetti. Avendo dunque definito i parametri di tale termine, sarà possibile procedere con l’argomentazione.

Nel secondo senso appena fornito, l’antropo-poiesi agisce nell’individuo ogni volta che un oggetto imprime qualcosa dentro di lui. Sia chiaro, essa agisce in tal maniera solo preliminarmente: ricordando il processo sopra esposto, che poneva in ordine la memoria, l’immaginazione e la ragione, l’oggetto dapprima produce una sensazione che viene impressa dal senso, che viene immagazzinata e dunque memorizzata, che poi viene elaborata in maniera spontanea e priva di regole precise – e qui si innesca l’antropo-poiesi – per essere infine elaborata dal ragionamento in maniera logica e ottimale. Il meccanismo di antropo-poiesi, in questa guisa, è quanto di più spontaneo avviene nell’umano, sicché egli sia orientato a vedere le cose, dapprima, a partire da se stesso.

L’immaginazione, dunque, espleta il suo ruolo poietico-antropomorfizzante: «poietico», poiché crea, produce idee e immagini differenti; «antropomorfizzante», perché conferisce alle idee e alle immagini – in quanto idee dell’essere umano – caratteristiche affini a quelle umane, più naturali e spontanee rispetto al soggetto, in quanto, appunto, umano. Così, questo modo di intendere l'antropo-poiesi è strettamente legato all'antropomorfismo, ossia la disposizione secondo cui gli esseri umani sogliono attribuire caratteristiche comportamentali e morfologiche agli oggetti della loro conoscenza: in altre parole, li umanizzano involontariamente.

È pure in questa maniera che Spinoza la rappresenta nell’Appendice alla Parte Prima dell’Ethica, osservando:


Gli uomini giudicano le cose secondo la disposizione del proprio cervello, e che più che capirle le immaginano [...] Vediamo dunque che tutte le nozioni con le quali il volgo suole spiegare la natura, sono soltanto modi dell’immaginazione, e non rivelano la natura di alcuna cosa, ma solo la costituzione dell’immaginazione (7).


Dunque, ogni volta che non chiediamo l’ausilio della ragione nella conoscenza, rischiamo di incombere nell’anti-conoscenza, potremmo dire, in quanto, al posto di conoscere le cose per come esse sono, non facciamo che produrre l'opposto e, difatto, percorriamo un "ripasso" di noi stessi, della nostra stessa immaginazione: non restituiamo a noi stessi la conoscenza delle cose, ma la costituzione della nostra immaginazione stessa.

Questo meccanismo, a sua volta, è alimentato dalle nostre emozioni, dalle nostre paure. La diretta conseguenza di questa “contaminazione” è la necessità di avere tutto sotto controllo. Questo esercizio del controllo, attuato dalla mente, avviene per rassicurare l’uomo intorno alle cose che non conosce, per proteggersi.

Come però abbiamo detto all’inizio, esistono diversi tipi di oggetti della conoscenza: alcuni manifestano la loro concretezza nella realtà, altri non sono facilmente misurabili, altri ancora sono talmente celati da aggrapparsi unicamente a concetti.

L’esercizio di questo controllo avviene in natura attraverso l’artificio, prodotto per rendere il rapporto dell’umano col mondo molto più agevole:


Egli sarebbe incapace di vivere in ogni ambiente naturale, e così deve prima crearsi una seconda natura, un surrogato di mondo, artificialmente prodotto e reso idoneo, che viene incontro alla sua difettosa dotazione organica. È infatti ciò che l'uomo fa ovunque lo vediamo. Egli vive per così dire in una natura artificialmente dislocata, manufatta, e da lui modificata in senso favorevole alla vita. Si può anche dire che egli è biologicamente condannato al dominio della natura (8). 


Quel che l’uomo fa è dunque costruirsi una «seconda natura». Nel passo citato, Gehlen sta riferendosi, come appare, al modo che l’uomo ha di sopravvivere in natura; ma al contempo si evince con chiarezza che questo «surrogato di mondo» è un modo che egli non ha soltanto di produrre il mondo, ma anche di concepirlo. Nel ragionamento a seguire, quest’affermazione e le relative considerazioni troveranno sempre maggiore limpidezza.



2. Breve analisi dei testi sacri


Abbiamo considerato, fin qui, il modo in cui l’umano si rapporta al mondo che lo circonda. Abbiamo accennato quindi all'antropocentrismo e all'antropo-poiesi; abbiamo riconsiderato gli oggetti del mondo, il loro modo di essere rispetto al mondo e il loro modo di essere concepiti dall’essere umano, e dunque rispetto all'agente conoscente. Adesso, vediamo cosa accade quando ci spostiamo da oggetti la cui natura è distinta e caratterizzata da concretezza, a oggetti più celati e ignoti alle capacità umane.

L’oggetto della conoscenza che ha suscitato maggior interesse nella storia dell’umanità, in quanto perno sul quale ruotano le domande fondamentali di matrice esistenzialista dell’essere umano, in quanto mezzo per rispondere a tali domande, è certamente quello che siamo soliti chiamare «Dio». Sono state innumerevoli le definizioni della divinità, sono state create definizioni monoteiste, politeiste, sono state attribuite differenti caratteristiche alla natura del divino, sono stati definiti differenti modi di relazionarsi a esso, sono state tratte diverse conseguenze sociali, come la gestione del codice etico degli individui fin dall’alba del tempo umano: insomma, Dio suscita un interesse oltremodo singolare nell’uomo e la rappresentazione che egli se ne fa ha implicazioni di non poco conto sulla sua vita.

Infatti, se pensiamo a quante conseguenze abbia avuto la questione di Dio, probabilmente nessun’altra cosa può eguagliarne l’impatto sulla storia umana. Dio è stato uno dei più grandi motori di azioni positive per la comunità umana; ma è stato oltremisura il movente principale delle disgrazie più grandi della storia dell’umanità. A partire dagli albori della storia umana, per giungere alla contemporaneità a noi più prossima, Dio è stato l’arma più distruttiva di cui l’uomo si sia servito per giustificare ogni sua azione sterminatrice.

Lasciandoci alle spalle i casi notevolmente più antichi, iniziamo dalla storia dell’antico Stato degli Ebrei per ricordare qualcosa. Prima, però, cerchiamo di fare chiarezza su cosa sia, almeno in generale, la religione.

Tale termine deriva dal lat. religio, «affine a religare «legare», con riferimento al valore vincolante degli obblighi e dei divieti sacrali». La religione è dunque da distinguere dalla semplice credenza, poiché credere in qualcosa significa semplicemente accogliere opinioni o punti di vista, con la possibilità di modificarli, nel tempo, in relazione all’oggetto del nostro credo e in relazione alla nostra disposizione personale a rivedere i nostri assunti. La religione invece è una forma di credenza – o fede, che sia – vincolata a un testo definito sacro o a un insieme di precetti immodificabili, comunemente conosciuti come dogmi, e cioè principi ai quali si crede senza esame critico o indagine eventuale. È anche per questo motivo che si tende a rimandare il termine «religione» al verbo latino «religare», poiché esso rimanda pure al concetto di «rilegatura» concernente il lavoro di assemblaggio delle diverse parti costituenti un libro.

Arriva, ora, il momento di fissare una sintesi degli argomenti che verranno trattati in questo paragrafo: anzitutto, elencherò i dogmi; poi confuterò le assurdità espresse in alcuni passi dei testi sacri intorno alla natura fisica del mondo; verranno analizzati errori storiografici e di altra natura presenti in quei testi; si tratterà, quindi, delle lotte promosse dalle religioni nei confronti di quelle che vennero – e vengono – ritenute «eresie»; verranno esaminati altri pensieri, o passi, o intere opere, derivate dall’assurdità della credenza religiosa; verrà esposta, per quanto possibile, la formazione di alcuni precetti religiosi, di usi, e «visioni di mondo» che consideriamo esser sempre state tali, fin dalla loro nascita; poi, verrà estrapolato ciò che di utile è derivato dalle religioni e se esso sia tale per rivelazione, o semplicemente frutto del nostro lume naturale.

È di massima importanza sottolineare che la maggior parte degli errori considerati in questo e nel prossimo paragrafo provengono da ricerche di diversa natura, svolte da un’innumerevole quantità di attenti studiosi nel tempo. Laddove venga rinvenuta la fonte esplicita essa verrà citata, nei casi in cui – la maggioranza – non è citata è perché è stata presa da fonti enciclopediche dalle quali, un po’ per pigrizia mia, un po’ per mancanza di note, non sono stati tratti gli autori che hanno lavorato alla confutazione dei passi. Tali fonti, tuttavia, sono interamente espresse all’interno delle Note relative all’intero articolo.

È già stato espresso il significato del termine «dogma» alcune righe sopra, adesso analizziamone alcuni. Anzitutto, i dogmi non furono stabiliti in un unico momento, ma furono il prodotto di controversie e dibattiti sorti fin dal primo secolo, che nei secoli successivi divennero vere e proprie regole di fede. I dogmi della Chiesa cattolica riguardano: l’unità e la trinità divina (Concilio di Nicea del 325); l’incarnazione, la morte e la resurrezione della seconda persona divina, identificata in Gesù (idem); Maria come madre di Gesù, e quindi di Dio (Concilio di Efeso, 431); la divinità e l’umanità di Gesù (idem); la nascita di Gesù da una vergine (Concilio di Costantinopoli, 553); l’esistenza di Inferno, Purgatorio e Paradiso (definitivamente assunta con il Concilio di Lione, 1274); la presenza di Gesù Cristo nell’eucaristia (Concilio di Trento, dal 1545 al 1563); l’Immacolata Concezione di Maria e cioè la sua immunità dal peccato originale fin dalla nascita (con la bolla Ineffabilis Deus, 1854); l’infallibilità papale, nelle vesti di dottore e pastore della Chiesa universale (Concilio Vaticano I, 1870); infine, l’assunzione di Maria (1950).

Confutare l’illogicità di tali dogmi pare essere, a chiunque disponga del lume naturale, qualcosa di assolutamente superfluo. Ed è chiaro che controbatterli sia inutile per coloro i quali li assumono, poiché l’assurdità di essi è concepibile pure da uno stesso cattolico, ma egli sceglie di sorpassarla non curandosene affatto e credendovi al di là della logica. Per tale ragione, dunque, mi propongo di proseguire con l'analisi dei testi, per come promesso poc'anzi.

Al fine di trattare brevemente degli errori più famosi intorno alla natura fisica del mondo e dell’universo, iniziamo dall’Antico Testamento, per poi passare al Nuovo e, infine, ad alcune considerazioni della medesima natura presenti nel Corano. Confutando le illogicità dell’Antico Testamento, di conseguenza, vi sarà un implicito riferimento anche all’Ebraismo e all’Islam: il primo, poiché crede ancor più fermamente al testo, com’è noto; il secondo perché, benché consideri esso un testo corrotto dalle mani degli uomini, lo ritiene nondimeno veritiero e divinamente ispirato.

Secondo l’Antico Testamento Dio creò il mondo in sei giorni, per riposarsi il settimo giorno. Iniziamo dai primi quattro:


In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu (Gn. 1,1-3) […] Dio disse: «La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che fanno sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la propria specie». E così avvenne. E la terra produsse germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie, e alberi che fanno ciascuno frutto con il seme, secondo la propria specie (Gn. 1,11-12).


Dio creò anzitutto il cielo e la Terra e ciò è già impossibile, poiché se il fatto che il cielo – com’è inteso da noi – fosse stato creato prima è plausibile, non lo è per la Terra, che come sappiamo nasce necessariamente dopo l’universo e il relativo sistema a cui appartiene; così come non è possibile che la luce sia arrivata prima delle stelle, poiché come sappiamo, la nostra fonte di luce è il Sole, ossia una stella.

Che la terra produca germogli, poi, in assenza di Sole è parimenti impossibile e dimostrato scientificamente, per ragioni che non credo sia necessario neppure addurre.

Poi, «Dio fece le due fonti di luce grandi: la fonte di luce maggiore per governare il giorno e la fonte di luce minore per governare la notte, e le stelle» (Gn. 1,16). Ciò è impossibile, poiché le «due fonti di luce grandi» sarebbero il Sole e la Luna: il primo è veramente una fonte luminosa, mentre l’altra, essendo un satellite e, dunque, non brillando di luce propria, riceve la sua luce dal Sole, esattamente come avviene per la Terra, e la riflette quindi sul nostro pianeta; inoltre, com’è già stato detto, il Sole non può esser nato dopo la Terra, né tantomeno dopo le piante.

Non tratterò poi del riposo del settimo giorno, poiché si tratta di una delle forme di antropomorfizzazione – ossia di conferimento delle facoltà tipiche dell'uomo agli oggetti della conoscenza – più estreme che vi siano e, inoltre, una delle tante contraddizioni evidenti con l’onnipotenza divina: Dio non potrebbe mai esser “stanco”, insomma.

Nel secondo capitolo della Genesi, poi, Dio crea l’uomo – Adamo – dalla cui costola sarebbe nata Eva, ossia la donna. Benché sia biologicamente impossibile che da questi due uomini siano scaturite le generazioni che portano fino a noi, la Chiesa riconosce tutt’ora la veridicità di questo passo.

Il capitolo quinto tratta invece delle età dei diversi personaggi, a partire da Adamo (che sarebbe morto a novecentotrenta anni) fino ad arrivare a Noè (che ne aveva cinquecento quando generò Sem, Cam e Iafet). Non tratterò di questo argomento, poiché possono esservi scuole di pensiero e di esegesi biblica che potrebbero obiettare che magari gli anni, a quel tempo, venivano contati in maniera differente, dal momento che non v'è mai fine alla giustificazione dell'assurdo.

Leggiamo, adesso, questo passo: «Un vento si alzò per volere del Signore e portò quaglie dal mare e le fece cadere sull'accampamento, per la lunghezza di circa una giornata di cammino da un lato e una giornata di cammino dall'altro, intorno all'accampamento, e a un’altezza di circa due cubiti sulla superficie del suolo. Il popolo si alzò e tutto quel giorno e tutta la notte e tutto il giorno dopo raccolse le quaglie. Chi ne raccolse meno ne ebbe dieci homer; le distesero per loro intorno all’accampamento» (Nm. 11,31-32). Ora, «dieci homer» equivalgono a circa 4.500 litri, una quantità impossibile da trasportare “a testa”, come si capirà.

Poi, «la lepre, perché rumina, ma non ha l'unghia divisa, la considererete impura» (Lv. 11,6): la lepre sarà nondimeno salva da questa impurità, poiché non è un ruminante.

C’è anche un passo, che pure Spinoza analizza nel Tractatus theologico-politicus (1670), e cioè il passo di Giosuè 10,11-12, in cui egli ordina al Sole e alla Luna di fermarsi, espletando totalmente la sua carente conoscenza astronomica e andando contro il sistema eliocentrico. 


Io mi domando: dobbiamo forse esser tenuti a credere che il soldato Giosuè s’intendesse di astronomia? […] Io penso che ipotesi del genere siano ridicole e preferisco ammettere francamente che Giosuè ignorasse la causa reale del prolungamento di quel giorno […] né stettero a considerare che poteva generarsi una rifrazione maggiore del solito per la presenza di una grande quantità di ghiaccio sospesa in quel momento nell’aria (vedi Giosuè, X, 11) o per qualche altro motivo dello stesso genere su cui ora non voglio indagare.  Allo stessi modo anche ad Isaia si rivelò il segno della retrogradazione dell’ombra secondo le sue capacità di intendere, cioè come retrogradazione del sole, giacché anch’egli credeva che il sole si muovesse e che la terra stesse ferma (9).


Il passo finale cui si riferisce Spinoza è certamente Is. 38,8.

In 1 Re 6,2 è scritto: «Il tempio costruito dal re Salomone per il Signore aveva sessanta cubiti di lunghezza, venti di larghezza, trenta cubiti di altezza». Tali misure, se rapportate a quelle dei nostri attuali sistemi, ci accorgiamo esser assurde, poiché corrisponderebbero alle dimensioni dei nostri palazzi attuali e, sebbene la piramide di Cheope sia alta quasi 140 metri, essa è comunque larga più di 230, mentre il tempio citato sarebbe stato poco meno di 60 metri di altezza, con una larghezza di appena 9. Non è, fra l’altro, l’unica volta che nei Libri dei Re appaiono misure completamente assurde – si veda, per esempio, 1 Re 7,23, considerato pure da Spinoza (10). 

Prendendo in considerazione il Nuovo Testamento, anzitutto rinveniamo che esso aderisce alla cosmologia espressa nell’Antico: in Mt. 24,29 è scritto che «il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze dei cieli saranno sconvolte». La Luna non dà luce, ma la riflette; che le stelle cadano dal cielo – cosa impossibile – significa che esse sono posizionate nel firmamento, un po’ come la rappresentazione dell’VIII Cielo delle Stelle Fisse nella Commedia di Dante, e la loro caduta presuppone un piano sottostante, che sarebbe dunque la Terra.

In Mt. 17,14-28 l’epilessia di un uomo è considerata come il frutto di una possessione demoniaca, quand’è chiaro, a oggi, che si tratti di una malattia del sistema nervoso.

In Lc. 23,44-45 si narra dell’eclissi solare che sarebbe avvenuta alla morte di Gesù. Essa sarebbe durata tre ore, ma la scienza non ha mai registrato eclissi che durassero più di alcuni minuti (11). 

Tra l’Antico e il Nuovo Testamento, in ultima analisi, vi sono discordanze pure intorno alla natura di Dio, il quale appare come rabbioso, geloso, punitivo nell’Antico, e poi amorevole, manifestante comprensione, incline al perdonare: cercare di conciliare questi due atteggiamenti diametralmente opposti sarebbe forzare la sua personalità entro il bipolarismo.

Così, lo stesso Corano è intriso di discordanze logiche e fisiche. Esso, circa la creazione, parla di una massa compatta, che sarebbe stata l’unione primordiale di cieli e terra, cosa che potrebbe accordarsi con il Big Bang, se non fosse che in quella massa vi sarebbe stato qualcosa di diverso di semplice unione di cieli e terra, e se non fosse che nel versetto non si parli di alcuna esplosione.

Il Corano ha poi la fortuna di esser nato in un tempo in cui le conoscenze scientifiche erano più solide e in un luogo in cui gli studi aristotelici, e dei greci in generale, erano certamente giunte: così la sfericità della Terra era già stata sostenuta da Aristotele, il movimento del Sole già supposto da Anassagora e le orbite studiate da Aristarco di Samo, o anche dalla stessa Ipazia di Alessandria.

Nondimeno, il Corano esprime che Sole e Luna navighino ciascuno nella sua orbita (XXI:33 e XXXVI:40), il che presupporrebbe un movimento del Sole, che potrebbe essere forzatamente giustificato col fatto che il Sole, in effetti, e il sistema solare tutto, si muova attorno alla galassia. Stupirsi, tuttavia, dell’esattezza di alcuni passi, quantunque essi siano esatti il più delle volte solo in forza delle interpretazioni volute e non contingenti di quanto è scritto, è comunque inconsistente.

Così, sostenere che ogni essere vivente venga dall’acqua (XXV:54) in un libro del VII secolo è come se io scrivessi, oggi, che la Terra giri attorno al Sole e non viceversa, visto che già fra i presocratici era idea comune che gli esseri viventi venissero dall’acqua.

È scritto poi che non vi sono esseri sulla terra o volanti che non appartengano a una comunità (VI:38): quanto ciò possa esser palese sta al lettore stesso giudicarlo e definire se sia o meno necessaria una rivelazione per comprenderlo, al di là del fatto che, comunque, vi siano specie solitarie sul pianeta.

Nella Sura LXVI, al versetto 19, è scritto qualcosa di molto curioso intorno al volo degli uccelli: «Non hanno visto, sopra di loro, gli uccelli spiegare e ripiegare le ali? Non li sostiene altri che il Compassionevole». Ciò significherebbe che gli uccelli sarebbero sostenuti da Allah.

Nella Sura XXIX, «Al-‘Ankabût» («il Ragno»), è scritto, al versetto 41 che «la casa del ragno è la più fragile delle case», quando il carico di rottura della ragnatela è confrontabile a quello dell’acciaio ed è più resistente di fibre sintetiche come il nylon.

A quelli che obiettano, poi, che il Corano parli correttamente della riproduzione umana, alludendo alla «goccia di sperma» (LXXVI:2), si può rispondere che, anzitutto, dalle popolazioni primitive al VII secolo abbiamo certamente avuto un quantitativo di rapporti sessuali sufficienti a capire che certamente il nostro liquido seminale fosse alla base della nostra riproduzione; ma, se anche fosse, non si parla della collaborazione del corpo femminile nella riproduzione, fondamentale perché avvenga il processo. Inoltre, in Sura XL:67 è spiegato il processo di riproduzione: «Egli è Colui Che vi ha creati dalla terra, poi da una goccia di sperma e poi da una aderenza». Da questa «aderenza» (Alaqa), si passerebbe al neonato, sicché oltre che povero il processo rimane pure parecchio oscuro. Mi pare, tuttavia, che per quanto concerne tali errori, affinché questo scritto non prenda le sembianze di un libro, possa bastare questo.

Vi sono quindi molteplici motivi per cui dubitare, almeno da un punto di vista scientifico della veridicità di quanto sia scritto in questi testi, ritenuti sacri. Almeno per questo motivo, quindi, è facile mettere in dubbio la loro sacralità, poiché chi più di Dio conoscerebbe la sua stessa creazione, e dunque l’universo, i suoi comportamenti e quelli delle parti che lo compongono?

Ognuno che sia dotato di uno spirito critico sufficiente a deliberare intorno alla sua propria comprensione del mondo, supportata peraltro da quella che dovrebbe essere una sua preparazione scientifica basilare che oramai abbiamo fin da bambini e da un’esperienza che a più riprese ci dimostra quanto certe osservazioni siano invero false, comprenderà quanto di assurdo vi sia intorno a questi argomenti.

Vi sono, poi, diversi errori storiografici e geografici nel Nuovo Testamento, esattamente come abbiamo notato nell’Antico, perciò consideriamone alcuni.

La Bibbia che uso per consultare i passi è la CEI del 2008. Essa tende a più riprese a nascondere, armonizzare, interpretare molti passi, soprattutto quelli più oscuri e incongruenti.

Anzitutto, pare esserci discordanza circa la nascita di Gesù, fra i Vangeli stessi; ma tralasciamo questo argomento, poiché è di poco conto.

Nel Vangelo di Marco, al capitolo 6, versetto 48, è tralasciata dalla traduzione un’allusione alle quattro vigilie con cui gli Ebrei – secondo la Bibbia – solevano dividere le ore notturne. Tuttavia, le quattro vigilie sono proprie dei Romani, mentre per gli Ebrei esse erano tre.

Così, in Mt. 19,1 è scritto: «Gesù lasciò la Galilea e andò nella regione della Giudea, al di là del Giordano». Ora, il fiume Giordano non ha nulla a che vedere con lo spostamento di Gesù, a meno che egli non avesse il piacere di passare dalla Perea, per poi tornare nuovamente al di là del fiume: esso, insomma, si trova a est rispetto alle terre citate e non intacca assolutamente il percorso per muoversi dall’una all’altra.

Proseguendo, Gesù «uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli» (Mc. 7,31): anche questa notizia è falsa, poiché la storiografia spiega che non esisteva, all’epoca, alcuna strada che collegasse quei posti. 

Così, la coorte che avrebbe arrestato Gesù è anch'essa una pura esaltazione biblica. Una coorte romana, infatti, era formata da almeno 600 uomini: chi arresterebbe un solo uomo, per di più conosciuto per essere un benefattore, servendosi della decima parte di un’intera legione?

Al Vangelo di Giovanni paiono, poi, sfuggire gli eventi strabilianti avvenuti in conseguenza alla morte in croce di Gesù, come il terremoto che divise in due il Tempio, o la resurrezione dei morti, o l’oscuramento del sole a mezzogiorno: insomma, non sono eventi di poco conto che capitano tutti i giorni e dei quali sia facile non accorgersi e, consequenzialmente, non annotare.

Per non dilungarmi oltre, ne citerò un ultimo: «C’era là, sul monte, una numerosa mandria di porci al pascolo» (Mc. 5,11). È risaputo che i culti religiosi di matrice semitica abbiano sempre considerato il maiale come un animale impuro ed è perciò assurdo che se ne trovasse una mandria (per l’appunto i maiali erano «duemila», come si legge nel versetto appena successivo).



3. Estetica della rivelazione


Il contenuto puramente speculativo dell’insegnamento della Scrittura è soprattutto questo: esiste Dio, cioè un essere che ha creato tutte le cose e che con somma sapienza le conserva e le governa; Egli moltissimo si cura degli uomini, premiando coloro che vivono pii ed onesti e punendo gli altri con molte pene e separandoli dai buoni. Tutto ciò è provato dalla Scrittura in base alla sola esperienza, cioè con le narrazioni in essa contenute. Non sono date definizioni, ma ogni parola ed ogni argomentazione è adatta alla capacità di comprendere del popolino (12).


Se volessimo soddisfare un tipo di conoscenza che possa dirsi «bella» – per dirla con Baumgarten – bisogna esser scevri dai comuni pregiudizi estetici – per proseguire con Spinoza – frutto del nostro atteggiamento “passivo” verso il mondo che ci circonda; frutto del nostro “solo immaginare” le cose.


Perché l’immaginazione possa in futuro collaborare con le altre facoltà essa, nell’ingegno bello, deve esser presente in misura tale da non oscurare sempre e dovunque con le sue immagini fantastiche le altre percezioni (13).


Per procedere nella qui presente trattazione, quella appunto inerente questo paragrafo, è necessaria una ripresa dell’estetica baumgarteniana. Lo studioso di estetica Leonardo Amoroso, nel suo libro Ratio & Aestetica. La nascita dell’estetica e la filosofia moderna (2008), scrive: «Uno dei non pochi paradossi della storia dell’estetica è che questa disciplina si sia imposta, subito dopo Baumgarten, privilegiando ciò che in lui era in fondo subordinato e rimuovendo addirittura ciò che in lui era fondamentale, ovvero che si sia imposta non come dottrina della conoscenza sensibile, ma appunto come dottrina dell’arte bella» (14). È necessario, dunque, tenere a mente l’estetica baumgarteniana e la originaria fondazione, acciocché si possa procedere nella lettura dell’argomentazione a seguire. 

Al principio di questo articolo, si è parlato a sufficienza di immaginazione e fantasia, tuttavia la facoltà immaginativa non ci abbandonerà presto, perché la sua utilità è a fondamento della maggioranza delle questioni inerenti il ragionamento qui condotto. La condizione dell’immaginazione si presenta come recettiva (passiva) ed elaboratrice (attiva).

Spinoza, nella Parte Terza dell’Ethica (1677), tratta della Cupiditas – tradotta, nell’edizione di cui mi servo, con ‘Desiderio’. Uno dei modi di questa, è la libido: «La Libidine è anch’essa Desiderio e Amore per l’accoppiamento dei corpi» (15). Sembra dunque che non si sperimenti libidine a causa della bellezza, ma che si dica bello ciò che abbia per causa la libidine.

Le cause principali, determinanti i nostri giudizi intorno alla bellezza o alla bruttezza sono riconducibili alla Cupiditas umana, al senso della vista e al temperamentum corporis di ciascuno. Il carattere peculiare della Cupiditas è che essa «mentre è determinata ad agire da uno stato o sentimento dominante, possiede, anche, dentro di sé, quasi immanenti e perpetuamente interagenti, le determinazioni corrispondenti a tutti gli stati che hanno costituito l’essenza dell’uomo, in modo tale che, mentre sembra impossibile che la sola rappresentazione della bellezza possa suggerire anche il giudizio della ragione e dell’intelletto, appare invece necessario che i giudizi della ragione e dell’intelletto inducano, mediante la Cupiditas, anche delle rappresentazioni di bellezza» (16). Così, la rappresentazione del bello è possibile grazie all’unione, operata dalla Cupiditas, di immaginazione e intelletto.

Quando l’essere umano si rapporta alla divinità egli ne produce, con facilità, un’idea falsa. Il motivo alla base di ciò si potrebbe rintracciare nella proiezione di sé che l’umano attua nell’altro per conoscerlo, di cui s'è accennato, con il grande problema che l’altro in questione non è un altro uomo, bensì l’alterità per eccellenza – o, come forse direbbe Kierkegaard, la «differenza assoluta». È a partire da questo meccanismo che l’essere umano crea un’idea non soltanto falsa, ma anche povera, della divinità: un Dio-uomo. E, di conseguenza, egli produce, con alle spalle lo stesso vizio gnoseologico, le superstizioni e la religione tutta, con tutte le sue cerimonie, i suoi miti e le sue conseguenze.

Il Dio che ne viene, in questa guisa, si configura come una sorta di “over-man” o di “superman”, che dir si voglia. La fallacia del giudizio estetico si mostra quando esso è fermo al livello dell’immaginazione: 


Il limite dei giudizi estetici della immaginazione è quello, infatti, di essere sempre immediatamente connessi con il giudizio di esistenza, per cui nessuna rappresentazione estetica può sorgere nella immaginazione senza essere contemporaneamente giudicata come reale. L’intelletto, invece, libero dall’errore […] può riconoscere nelle rappresentazioni estetiche e nei giudizi che le accompagnano non solo l’armonia delle proporzioni dei corpi, ma anche, nella Cupiditas di perpetuarla, il vigore immaginativo dell’autoconservazione dell’essere (17).


Proiettare in Dio i prodotti dell’immaginazione umana, equivale a dire che Dio possiede, dunque, un’immaginazione. Possedere un’immaginazione, fra l’altro, ho considerato altrove essere un che di positivo ma anche un che di negativo, capace di produzione del falso, cosa che Dio, per come gli uomini stessi lo concepiscono, non dovrebbe certamente avere. Spinoza, durante il carteggio con Hugo Boxel, aveva osservato che non è possibile in alcun modo produrre un’immagine di Dio nella nostra mente, ma che tutt’al più ci è possibile comprenderlo.

Quella della rivelazione può esser ritenuta, se facessimo riferimento alla terminologia usata da Giambattista Vico nella La Scienza Nuova (1725), una sorta di «sapienza poetica», laddove della poesia l’autore affermò che «la di lei propria materia è l’impossibile credibile» (18). Con ‘poesia’ (dal gr. ποίησις, der. di ποιέω «fare, produrre») Vico definisce non soltanto la creazione letteraria, bensì «la forma originaria in cui gli uomini creano il loro mondo. Inoltre, nella sua forma primitiva, essa è collegata non al sapere, ma all’ignoranza (e alla fantasia) e sta, in questo senso, agli antipodi della creazione vera e propria, cioè di quella di Dio» (19).

La meraviglia che il fedele stolto ricava dalla propria fantasia è un prodotto della sua ignoranza e non della sua ragione. Nel Tractatus, Spinoza scrive di diversi temi che possono esemplificare questo stato di cose: dalla profezia, alle cerimonie di rito, ai miracoli, e via dicendo. Partiamo dai miracoli.

Il miracolo, dal lat. miracŭlum «cosa meravigliosa», non ha niente, se ben si osserva, di «mirabile», di «meraviglioso». 


Sembra che siffatta credenza abbia avuto origine dagli antichi Ebrei: essi, allo scopo di persuadere i Gentili del loro tempo che adoravano dèi visibili quali il Sole, la Luna, la Terra, l’Acqua, il Cielo e per dimostrar loro che quegli dèi erano impotenti, incostanti o mutevoli e che sottostavano al potere di un Dio invisibile, narravano i miracoli del loro dio (20).


Il miracolo, infatti, così com’è inteso dalla religione, e cioè come un «fatto sensibile straordinario, fuori e al di sopra del consueto ordine della natura» (Vocabolario Treccani.it, s.v. ‘Miracolo’), è esattamente la dimostrazione di una fallacia operativa della natura e, con ciò, lungi dal rivelarsi una rappresentazione della potenza divina, ne mortifica anzi l’essenza (Salomone, presunto autore dell’Ecclesiaste, scrisse: «Quello ch’è stato è quel che sarà; quel che s’è fatto è quel che si farà; non v’è nulla di nuovo sotto il sole» – Qo. 1,9. In ciò consiste parte di quella conferma, che Spinoza trae dalle stesse Scritture, dell’immutabilità delle leggi della natura e, quindi, delle leggi di Dio).

Mirabile è infatti il naturale procedere delle leggi fisse e immutabili che Dio definisce e manifesta – Adriaan Koerbagh, «democratico radicale e profondamente laico», aveva sostenuto l’impossibilità dei miracoli e, a partire dal suo razionalismo, aveva sviluppato un’idea di Dio che ricorda quella di Spinoza, forse tratta dall’Ethica stessa (21). Se un fedele affermasse l’esistenza di un miracolo, così com’è concepito da egli stesso, starebbe osannando un evento contrario all’ordine divino eterno, fisso e immutabile.

Spinoza dimostra dunque l’impossibilità di risalire da questo genere di eventi all’esistenza di Dio, consigliando piuttosto uno studio delle metafore e della fraseologia ebraiche.

In questa sede, diversamente da come avverrà nelle righe successive, non è necessario citare integralmente casi particolari di miracoli, poiché sia che si tratti di restituire la voce a un muto indemoniato (Mt. 9,32-34) o a un sordomuto (Mc. 7,31-37), di guarire un uomo (Gv. 5,1-15; Mt. 9,1-8; Mc. 2,1-12; Lc. 5,17-26) o una donna paralizzati (Lc. 13,10-17), la mano di qualcuno (Mt. 12,9-14; Mc. 3,1-6; Lc. 6,6-11), un cieco, muto e indemoniato (Mt. 12,22-23; Lc. 11,14-23), un lebbroso (Mt. 8,1-4; Mc. 1,40-45; Lc. 5,12-14), o di ridare la vita a qualcuno (Gv. 11,1-45), come fece Gesù secondo i vangeli; di separare le acque (Es. 14,21), come fece Mosè secondo l’Antico Testamento: insomma, che si tratti di questo o quel miracolo, per ognuno di essi vale la medesima considerazione, e cioè che essi si contrappongono al normale fluire delle leggi naturali della natura, scontrandosi, per analogia, con gli eterni decreti dello stesso Dio che tali scritti adorano e annunciano. 


Inoltre, quale che sia la conclusione a cui si può arrivare partendo dalla nozione di miracolo, in nessun modo potremmo dedurre da esso l’esistenza di Dio (22).


Artefici dei miracoli furono, peraltro, anche i cosiddetti «profeti ingannatori» – Spinoza fa notare che lo stesso Mosè afferma che il falso profeta debba essere messo a morte, quantunque egli operi miracoli, «da cui chiaramente risulta che miracoli possono essere compiuti anche da profeti bugiardi», secondo quanto affermato dalle stesse Scritture (23).

Bisogna aggiungere, infine, che gli uomini sono immersi nei loro pregiudizi oltreché nella loro ignoranza, sicché essi «intendono qualcosa di ben diverso da ciò che vedono o di cui hanno notizia, particolarmente se l’evento in questione oltrepassa l’intelligenza di chi narra o di chi ascolta» (24). Nondimeno, la scienza contemporanea ha risposto ad alcuni eventi naturali, considerati in passato miracolosi, dimostrando ampiamente quanto appena detto. Per di più, Spinoza afferma che chiunque voglia cercare il significato di qualsiasi parola utilizzata da qualsiasi autore dei libri delle Scritture, non solo dovrà basarsi unicamente sulle Scritture, senza cercare altrove tesi di supporto; ma dovrà inoltre conoscere parimenti «gli autori che scrissero in modo oscuro o raccontarono cose inconcepibili» (25).

Fu – ed è tutt'oggi – una forzatura dei teologi, quella di ricavare la propria opinione dai testi sacri. Così, il filosofo olandese espone un metodo corretto a partire da una regola generale di interpretazione della Scrittura: «non attribuire nulla alla Scrittura come insegnamento da essa proveniente, se non ciò che riconosciamo tale con la massima evidenza in seguito all’indagine critica su di essa» (26). Non finisce qui: si dovrà infatti tener conto dei suoi oggetti d’indagine, delle particolarità della lingua in cui furono scritti i testi; e poiché a scriverli furono in particolare ebrei, è necessaria una «storia critica della lingua ebraica» (27).

Spinoza, a mio avviso, spende finanche troppo ingegno per risolvere la questione e presta pure troppa attenzione ad argomenti che non hanno bisogno che di pura e semplice concentrazione, senza ragionamento alcuno, per essere smontati. Nonostante ciò, personalmente sono convinto che questo stato di cose, anche di fronte alle evidenze logiche, non cambierà mai la sua forma, perché lo scopo dei clericali, qualunque sia la loro religione, è l'esercizio del potere e finché gli uomini lasceranno che le fantasie di pochi siano sufficienti a esercitare siffatto potere su molti, essi ricaveranno sempre ciò che più farà loro comodo.

L’approccio degli uomini alle Scritture non è altro che un problema di estetica: come Spinoza stesso non mancò di osservare, fra i racconti dell’Orlando Furioso, la storia di Perseo in Ovidio, e la narrazione del carro di Elia non v’è poi tanta differenza; a fare questa differenza è piuttosto il fatto che noi sappiamo che Ariosto «non intese scrivere altro che piacevoli finzioni, il secondo volle trattare argomenti politici, il terzo argomenti sacri» (28). Così, ci si accorge con estrema semplicità come le cose acquistino valore in base alla nostra disposizione a conoscerle e a giudicarle, e non in base al fatto che esse abbiano importanza e veridicità di per sé. Ed è per queste ragioni, quindi, che si rivela necessario conoscere le intenzioni dell’autore, la sua biografia, il contesto epocale nel quale questi visse, eccetera.

Ai precedenti racconti, infatti, possiamo aggiungere i libri di Tolkien, quelli più attuali della Rowling, o perfino l’Iliade e l’Odissea di Omero. Come osservò il matematico Piergiorgio Odifreddi in un dibattito televisivo, nel programma Niente di personale condotto da Antonello Piroso, lo stesso Paolo di Tarso (conosciuto dai fedeli come San Paolo) scrisse, nella Prima lettera ai Corinzi, che la fede cristiana è paradossale e rivolta ai “poveri di spirito”, non ai Greci che cercano la sapienza: «E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani» (1 Cor. 22, 23). Così, proseguiva lo studioso nell’intervista, riguardo alla già citata Iliade omerica: «l’Iliade parla di dèi. Ora, se io dicessi, per esempio, che credo in Pallade Atena, la gente si metterebbe a ridere. […] Nel caso dell’Iliade, per esempio, i fatti storici sono così pregnanti che Schliemann ha ritrovato le rovine di Troia, in quel caso. Questo non significa però che io devo credere agli dèi, o agli eroi omerici, no?». Come indirettamente ci fa notare il matematico, la veridicità di un’opera come quella omerica supera perfino quella di un libro ritenuto sacro,  permettendo di conseguire un risultato archeologico, quantunque essa, per ciò, non venga considerata altro che un’opera di miti e leggende. 

Per quanto concerne la profezia, invece, essa si attua mediante segni, che si traducono per lo più in parole o immagini. Spinoza mostra, attraverso un’analisi massimamente estetica, che la conoscenza naturale-razionale è superiore alla conoscenza profetico-immaginativa. Egli mette in discussione quella che Amoroso definisce l’«“estetica ebraica”, basata sull’aniconismo del secondo comandamento e sul connesso primato dell’udito sulla vista»: secondo la Bibbia pare possibile affermare che Dio abbia una figura, sebbene nessuno abbia visto questa figura e, proprio su questa base, «agli Ebrei è vietato farsene un’immagine» (29).

Qualcuno, tuttavia, sostenne di esser riuscito a udirlo – come Mosè – o a vederlo. Secondo come si configurò la rivelazione mosaica, le parole del Decalogo non furono proferite da Dio, ma gli Israeliti avrebbero udito soltanto un frastuono; nondimeno, alla Scrittura è più conveniente dire che Dio si servisse di una vera voce. Coloro i quali, invece, affermarono di vederlo, non potendo – per divieto – affermare una vera e propria immagine di Dio, utilizzarono diversi mezzi e simboli per affermare che ad apparire loro fosse Dio stesso. A questo proposito, Mosè stesso lasciò intendere che il simbolismo atto a rappresentare la divinità dev’esser inteso metaforicamente, poiché «Dio non può essere assomigliato a nessuna realtà visibile del cielo o della terra o dell’acqua» (30). Così, ogni volta che un fedele o un sacerdote immaginano un Dio antropomorfo, o ne immagino la natura in modo visibile, vanno contro le Scritture stesse.

Alcuni, come il profeta Maimonide, affermarono di averlo visto in sogno. Paolo di Tarso, poi, affermò di averlo visto, in quel che passa alla storia come il raptus paolino: «Dopo il mio ritorno a Gerusalemme, mentre pregavo nel tempio, fui rapito in estati e vidi Lui» (At. 22,17-18). Così, l’evangelista Giovanni scrive: «E vidi un grande trono bianco e Colui che vi sedeva» (Ap. 20,11). L’esegesi moderna suole indicare, tuttavia, come autore dell’Apocalisse non propriamente Giovanni, ma probabilmente un suo allievo. In effetti, sarebbe assurdo sposare questa citazione con un’altra rinvenuta, piuttosto, dal Vangelo di Giovanni: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv. 1,1-18).

Guardando all’Antico e al Nuovo Testamento, si notano alcune disparità intorno alla visione di Dio: alcuni affermano che non possa esser visto (come d’altronde prevede la religione ebraica); altri di averlo visto in parte; altri ancora di averlo visto mediante simboli o segni; infine, c’è chi ammette di non averlo visto, ma di sapere che potrà vederlo. Procediamo con ordine, e partiamo dai primi.

Nel libro della Genesi, leggiamo di una vera e propria conversazione fra Dio e Giacobbe: «Gli domandò: «Come ti chiami?». Rispose: «Giacobbe». Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!». Giacobbe allora gli chiese: «Svelami il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?». E qui lo benedisse. Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuèl: «Davvero – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva» (Gn. 32,30). Preliminarmente, sarà da domandarsi a cosa serva a Dio “domandare” se egli possiede già tutto in sé, ma volendo trovare come forzata risposta quella di creare un rapporto più umano possibile con l'interlocutore, rivolgendosi appunto a un uomo, quale fu Giacobbe, tralasciamo questa domanda e proseguiamo. In ogni caso, Giacobbe afferma, contrariamente a quanto enuncia il comandamento ebraico, di aver visto Dio «faccia a faccia».

Da Es. 24 a Es. 33, poi, troviamo diverse parti di nostro interesse, poiché – benché sia un palese paradosso, ma ciò non abbia importanza alcuna, visto che la religione usa i paradossi, anzi, come dimostrazioni del cosiddetto «mistero della fede» – troviamo un po’ di tutto: «Soggiunse: «Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es. 33,20); «Mosè salì con Aronne, Nadal, Abiu e i settanta anziani d’Israele. Essi videro il Dio d’Israele: sotto i suoi piedi vi era come un pavimento in lastre di zaffiro, limpido come il cielo. Contro i privilegiati degli Israeliti non stese la mano: essi videro Dio e poi mangiarono e bevvero» (Es. 24,9-11); «La gloria del Signore appariva agli occhi degli Israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna» (Es. 24,17); «Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere» (Es. 33,21-23). Insomma, qui abbiamo di tutto e di più: anzitutto, si dice che Dio – coerentemente, ripeto, con la religione ebraica – non può esser visto; poi, Dio appare con sembianze umane, che possiamo rinvenire dai «piedi»; poi, apparve invece come «fuoco»; infine, nuovamente con sembianze umane: «vedrai le mie spalle», quantunque il volto non possa esser visto.

Proseguendo, leggiamo dal Deuteronomio: «State bene in guardia per la vostra vita: poiché non vedeste alcuna figura, quando il Signore vi parlò sull’Oreb dal fuoco» (Dt. 4,15). Qui, appare chiaramente che Dio si sia servito del fuoco come mezzo per comunicare. Dal libro dei Giudici, invece, leggiamo che «Manòach disse alla moglie: “Moriremo certamente, perché abbiamo visto Dio”» (Gdc. 13,22), ma per sua fortuna pare avesse visto un angelo del Signore. Il profeta Isaia, poi, vide Dio seduto su un trono: «Nell’anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. Sopra di lui stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali: con due si copriva la faccia, con due si copriva i piedi e con due volava. Proclamavano l’uno all’altro, dicendo: «Santo, santo, santo il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria». Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo. E dissi: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti» (Is. 6,1-5). Mentre a coprirsi erano i serafini, il Signore pare gli apparve nelle sue sembianze, così come dimostra il fatto che i suoi occhi «hanno visto il re, il Signore degli eserciti».

Ezechiele, invece, manifesta le sembianze antropomorfe di Dio: «Sopra il firmamento che era sulle loro teste apparve qualcosa come una pietra di zaffiro in forma di trono e su questa specie di trono, in alto, una figura dalle sembianze umane. Da ciò che sembravano i suoi fianchi in su, mi apparve splendido come metallo incandescente e, dai suoi fianchi in giù, mi apparve come di fuoco. Era circondato da uno splendore simile a quello dell’arcobaleno fra le nubi in un giorno di pioggia. Così percepii in visione la gloria del Signore. Quando la vidi, caddi con la faccia a terra e udii la voce di uno che parlava» (Ez. 1,26-28).

Così come Daniele: «Io continuavo a guardare, quand’ecco furono collocati troni e un vegliardo si assise. La sua veste era candida come la neve e i capelli del suo capo erano candidi come la lana; il suo trono era come vampe di fuoco con le ruote come fuoco ardente. Un fiume di fuoco scorreva e usciva dinanzi a lui, mille migliaia lo assistevano. La corte sedette e i libri furono aperti» (Dan. 7,9-11).

L’Antico Testamento pare quindi esser pieno di contraddizioni fra i vari profeti e, talvolta, fra i racconti dei medesimi profeti stessi. Come scrive Spinoza:


Così lo stesso segno che ad un profeta dava la certezza della propria profezia non era minimamente adatto a persuadere un altro profeta le cui opinioni differivano da quelle del primo, e pertanto i segni erano di varia natura in ragione della varietà degli individui (31).


Approfondiremo a breve altre contraddizioni di questa prima parte delle Scritture; prima, però, continuiamo con ciò che mi sono proposto e passiamo al Nuovo Testamento.

Qui, sono più manifeste non-visioni e possibilità di vederlo, tanto furono più cauti questi autori per non esser additati di contraddizione.

Fra le possibilità di vederlo abbiamo, anzitutto, Matteo: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt. 5,8).

Così, continuando con la Prima Lettera ai Corinzi, Paolo scrive: «Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto» (1 Cor. 13,12).

Non manca, come si è detto, chi riafferma l’invisibilità di Dio: «Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen» (1 Tm. 1, 17).

Sulla scia di chi manifesta la possibilità di vederlo, abbiamo poi Giovanni: «Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo più simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (1 Gv. 3,2).

Infine, nell’Apocalisse: «Vedranno il suo volto e porteranno il suo nome sulla fronte» (Ap. 22,4), in riferimento al momento in cui il nostro peccato sarà rimosso.

È chiaro ch’io stia cercando di mostrare più riferimenti possibili, quantunque sono consapevole del fatto che probabilmente non saranno tutti, né saranno sufficienti a smentire le inamovibili posizioni di chi non provi a mettere in dubbio le proprie fantasie.

Come si nota, e come puntualmente mostra Spinoza, la rivelazione dei profeti varia a seconda dei pregiudizi di ognuno di essi, a seconda della disposizione, del temperamento fisico e delle loro capacità immaginative. 


Esempi di variazione della profezia corrispondente al variare del temperamento potrebbero essere questi: in uno stato di contentezza al profeta si rivelavano vittorie, pace e tutto ciò che porta gioia agli uomini […]; in uno stato di tristezza gli si rivelavano guerre, pene e ogni sorta di mali; similmente, a seconda della propria misericordia, dolcezza di carattere, irascibilità, severità, ecc. […] Esempi di variazioni della profezia dovute al variare della disposizione dell’immaginazione potrebbero essere questi: un profeta raffinato percepiva in modo a sua volta raffinato il pensiero di Dio, in modo confuso se egli era di mente confusa (32).


La convenienza giocava un ruolo non indifferente, peraltro. In Es. 11,8 leggiamo di Mosè che, in collera col faraone, rivela una profezia a lui scomoda: «Tutti questi tuoi ministri scenderanno da me e si prostreranno davanti a me, dicendo: «Esci tu e tutto il popolo che ti segue!». Dopo, io uscirò!». Mosè, pieno d'ira, si allontanò dal faraone». Allo stesso modo, «Ad Ezechiele che non stava più in sé dalla collera furono rivelate la miseria e la riottosità dei Giudei» (33).

Dopodiché, l’eleganza di Isaia e Naum, come fa notare il filosofo olandese, si discosta notevolmente dagli scritti di Ezechiele e Amos, per esempio, anche perché mentre Isaia fu un uomo di corte, Amos era altresì un uomo di campagna. Così, i profeti non hanno dato nessun’informazione utile sugli attributi di Dio, affermando “a giro” tutti le stesse cose, come abbiamo visto. Spinoza ribadisce, a questo proposito, che Adamo, Caino, Abramo, e perfino Mosè non furono neppure a conoscenza dell’onniscienza divina (34). Dio, anzi, dimostra di non rivelare la sua stessa onnipotenza, se pensiamo a passi come quello di Es. 4,1-5, dove, per dimostrare la veridicità circa il fatto che Mosè avesse ricevuto la rivelazione, gli chiese di gettare il bastone che teneva in mano, il quale si trasformò in un serpente, per essere creduto: ma se Dio possiede l’onnipotenza, a cosa servirebbe una dimostrazione di questo tipo? Egli stesso, se legiferasse sugli eventi, data la sua perfezione, non avrebbe bisogno di dimostrare alcunché e il suo profeta verrebbe creduto per il solo fatto che Dio potrebbe indirizzare le menti del suo popolo alla conoscenza della verità che si cela dietro questo fatto. Peraltro, nei passi successivi, vengono addotte altre possibili dimostrazioni di cui Mosè si sarebbe dovuto servire per esser convincente. Tuttavia, non porto avanti quest’osservazione, per il solo fatto che un chierico, o un qualunque teologo che abbia studiato le Scritture e i relativi commenti, userebbe contro di me la questione del libero arbitrio, quantunque essa non avrebbe comunque senso alcuno, né meriterebbe di esser discussa sul piano logico.

Dopodiché, definire la stessa potenza di Dio superiore a quella degli altri dèi, come accade in Sal. 86,8 o in altri passi, come in Gn. 35,2, darebbe per implicita l’esistenza effettiva di altri dèi: «Fra gli dèi nessuno è come te, Signore, e non c'è nulla come le tue opere». Ma tralasciamo pure questo. 

Come avevo accennato poc’anzi, poi, vi sono altre forti contraddizioni. Ad esempio, sarebbe il caso di accorgersi della falsità – o almeno della falsificazione – dei libri delle Scritture, poiché gli autori indicati risultano invero non poterne possedere alcuna paternità. Come fa notare sempre Spinoza, è impossibile che il Pentateuco sia da attribuire a Mosè e la falsità inerente questo fatto è dimostrata pure da Aben Hezra. Anzitutto, le annotazioni mostrano che chi le scrisse visse molto tempo dopo Mosé.


E per dimostrare ciò egli [Hezra] nota: 1) che la stessa prefazione del Deuteronomio non poté essere stata scritta da Mosè, il quale non passò al di là del Giordano. Egli nota ancora: 2) che l’intero libro di Mosè era stato scritto per esteso tutt’attorno sulle pietre di un solo altare (vedi Deuteronomio, XXVII[, 2-8] e Giosuè, VII, 32, ecc.); e le pietre che formavano quell’altare, secondo quanto riferiscono i Rabbini, erano soltanto dodici. […] Nota poi: 3) che in Deuteronomio, XXXI, 9 è detto: «e Mosè scrisse la legge», parole che non possono essere di Mosè, ma di un altro scrittore che racconta le imprese e ricorda gli scritti di Mosè. E ancora: 4) che nel passo della Genesi, XII, 6, ove si narra che Abramo attraversò la terra dei Canaaniti, lo storico aggiunge che «il Canaanita era allora in quella terra», distinguendo esplicitamente con tali parole il tempo in cui scrive da quello di cui scrive. […] Nota ancora: 5) che in Genesi, XXII, 14 il monte Morya è chiamato «monte di Dio»; ma questo appellativo non fu dato al monte se non dopo la sua consacrazione al tempio da erigersi su di esso e la scelta di questo monte non era ancora stata fatta al tempo di Mosè (35).


Spinoza, poi, aggiunge altre importanti osservazioni che sfuggirono ad Aben Hezra: 1) il redattore di questi libri parla in terza persona di Mosè e, alla fine del libro, continua a narrare storicamente; 2) nei racconti, poi, non si narra soltanto della morte e sepoltura di Mosè, ma pure si fanno paragoni fra Mosè e i successivi profeti; 3) alcune località sono indicate con nomi differenti da quelli che possedevano al tempo di Mosè; 4) infine, spesso, come si è detto, l’esposizione dei fatti va oltre la vita stessa di Mosè.

Proseguendo, neppure il libro di Giosuè è autentico (per sua fortuna, viste le scarse conoscenze astronomiche mostrate altrove!), poiché anche qui si tratta di avvenimenti successivi rispetto alla sua morte. Così il libro dei Giudici, dove la pluriautorialità dell’opera è smentita già nell’epilogo. Accade lo stesso per Samuele. E, infine, i libri dei Re «son formati da passi tolti dai libri delle Gesta di Salomone (vedi I° Re, XI, 41), dalle Cronache dei Re di Giuda (vedi ibid., XIV, 19 e 29) e dalle Cronache dei Re di Israele». Per chi voglia approfondire questo argomento, sotto quasi tutti gli aspetti passati in rassegna fin qui, si consiglia la lettura integrale del Tractatus stesso.

Per tornare alla considerazione estetica, Amoroso segnale due nozioni rilevanti per l’estetica: l’ispirazione e lo stile. Intorno alla prima, argomenta che il possesso dello «spirito di Dio» da parte dei profeti rileva in loro un’immaginazione vivace, similmente ai poeti, tale da non rendere la profezia sovrannaturale, ma pari – se non inferiore – alla poesia. Intorno alla seconda, invece, la rilevanza sta nel fatto che essa definisce il differente modo di argomentare le differenti profezie dei vari profeti, sull’immaginazione propria di ognuno di essi. Spinoza scrive, non senza ragioni, che i profeti «hanno colto le rivelazioni divine solo con l’ausilio dell’immaginazione (vedi Ezechiele, XI, 8) e Geremia, preso da profonda tristezza e da grande disgusto per la vita, fu profeta di disgrazie per i Giudei» (36).

Aggiungerò, ora, un’analisi della profezia del Nuovo Testamento, sicché possano essere soddisfatte le esigenze di tutti.

Iniziamo da Paolo di Tarso, in quanto referente più autorevole delle scritture del «nuovo patto». Anche qui notiamo la forte relazione fra le esigenze immaginative delle profezie rispetto ai profeti. Tuttavia, è certamente più difficile, in forza di ciò che abbiamo precedentemente espresso, che Dio si manifesti nelle sue autentiche sembianze: «Mi si è presentato infatti questa notte un angelo di quel Dio al quale io appartengo e che servo, e mi ha detto: «Non temere, Paolo; tu devi comparire davanti a Cesare, ed ecco, Dio ha voluto conservarti tutti i tuoi compagni di navigazione» (At. 27,23-24).

Un’altra profezia, quella che può essere identificata come un’esortazione ad agire senza paure, si rintraccia in At. 20,29-30: «Io so che dopo la mia partenza verranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino in mezzo a voi sorgeranno alcuni a parlare di cose perverse, per attirare i discepoli dietro di sé».

Stessa cosa accade in 1 Cor. 15,50-53, dove l’annientamento della morte e l’esaudimento della speranza umana hanno come scopo quello di accogliere più fedeli possibili.

In 1 Tm. 4,1-5, si manifesta la necessità di combattere gli «impostori», coloro i quali sarebbero falsi maestri, dapprima accusandoli di supportare dottrine diaboliche, poi spiegando che «ogni creazione di Dio è buona e nulla va rifiutato», lasciando trapelare l’aria di superiorità di cui si rivestirebbe ogni uomo aderendo alla dottrina. E a dimostrare che lo scopo sia quello di raccogliere adesioni, attraverso l’esaudimento di vane speranze, al fine di diffondere la dottrina è quanto segue: «Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento. Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, pur di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo i propri capricci, rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle favole. Tu però vigila attentamente, sopporta le sofferenze, compi la tua opera di annunciatore del Vangelo, adempi il tuo ministero» (2 Tm. 4,1-5).

Profetizzare intorno alla non sopportazione futura della dottrina – si potrebbe, ahimè, dire – è falso, poiché gli uomini non saranno mai sufficientemente maturi da abbandonare la religione e la maggior parte dei precetti religiosi, avendo simili se non identici scopi; ma pur volendo ammettere che gli uomini un giorno vivano di ragione abbandonando le loro fantasie, in ogni caso non si tratterebbe di una profezia vera e propria, ma di un altro dei motivi a supporto del perché dovere aderire.

Nell’Antico Testamento il profeta Zaccaria avrebbe predetto l’esultanza della folla per l’arrivo di un Messia: «Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina» (Zc. 9,9). Se ben si osserva, questo passo ricorderà qualcosa a chi abbia letto il Nuovo Testamento: infatti, in tutti e quattro i Vangeli è narrata la vicenda dell’entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme, in quella che passa alla tradizione come la “Domenica delle Palme”, poiché il nuovo «Re d’Israele» sarebbe stato acclamato mentre venivano agitati dei rami di palma. Tuttavia, la storiografia insegna che le forze romane dell’epoca non avrebbero mai permesso una tale definizione, anzitutto perché era loro compito decidere chi fosse il Re d’Israele; poi, perché proprio per la festa di Pasqua essi solevano munirsi di più truppe per far fronte ad un’eventuale soppressione dei disordini della folla. Sulla base di passi come questi possiamo affermare con certezza che chi scrisse i Vangeli doveva aver studiato bene i testi precedenti per far collimare le sue trattazioni con essi.

Dopodiché, qualunque fedele che abbia letto la Bibbia starà ancora attendendo l’avvento del Regno di Dio: «Allora vedranno il Figlio dell'uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo. Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte. In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga» (Mc. 13,26-30). Sia pure un modo di dire, certamente la generazione è passata da tempo e il Regno non è mai giunto: possiamo quindi annotare questo fra gli errori della profezia.

Per continuare l’analisi, esistono, poi, passi in cui si fanno presenti toni minacciosi, che ricordano a più riprese quelli dell’Antico Testamento. È il caso, ad esempio, di un passo dell’Apocalisse: «A chiunque ascolta le parole della profezia di questo libro io dichiaro: se qualcuno vi aggiunge qualcosa, Dio gli farà cadere addosso i flagelli descritti in questo libro; e se qualcuno toglierà qualcosa dalle parole di questo libro profetico, Dio lo priverà dell'albero della vita e della città santa, descritti in questo libro. Colui che attesta queste cose dice: «Sì, vengo presto!». Amen. Vieni, Signore Gesù» (Ap. 22,18-20).

Si potrebbe allegare a quanto esposto fin qui anche una brevissima analisi del Corano. Esso manifesta l’adesione alle rivelazioni di Abramo, Ismaele, Isacco, Giacobbe e ai Discendenti, così come a Mosè e Gesù stessi (III:84; VII:157-158). Inoltre, proprio come in Ap. 22,18-20, citato poco sopra, alla Sura VI:34, così come alla VI:115, il Corano afferma che nessuno possa alterare le parole di Allah. Nonostante, tuttavia, l’adesione al Vangelo, pure nel Corano non mancano contraddizioni: in IV:157, per esempio, si afferma che Gesù non fu crocifisso, né ucciso. Questi, peraltro, non è considerato neppure figlio di Dio (IX:30), ma piuttosto un profeta. Le contraddizioni stesse dello scritto, poi, sono rinvenute nello e dallo scritto stesso in IV:82, dove si afferma che si può credere al Corano perché frutto della parola di Allah, sennò sarebbe lecito fissare l’attenzione sulle sue contraddizioni. Tuttavia, trovo superfluo proseguire oltre, poiché questo scritto si propone degli obiettivi di altra natura, rispetto a quella di una sola contro-esegesi dei testi sacri.

Andando avanti, il prossimo argomento da porre sotto attenzione riguarda la legge divina e la consequenziale istituzione delle cerimonie di rito. Anzitutto, sarà il caso di distinguere la legge umana – ossia la condotta più utile alla comunità per la sicurezza e la pace di ogni individuo ad essa appartenente – e la legge divina – che avrebbe come fine il sommo bene, ossia la conoscenza di Dio e dei suoi precetti.

Ora, consideriamo il perché della necessità di applicare la legge attraverso l’istituzione delle cerimonie di rito. Per non disperderci nel dominio d’indagine dell’antropologia culturale e per semplificare il qui presente lavoro, farò riferimento unicamente all’istituzione delle cerimonie di rito dell’antico Stato degli Ebrei.

Spinoza ci fa notare, anzitutto, che le cerimonie di rito non arrecano lo stesso giovamento della legge divina, la quale promette altresì la beatitudine. 


Vediamo dunque che, in cambio dell’amore e della libertà, il profeta promette sanità di mente in sanità di corpo e la gloria di Dio anche dopo la morte; in cambio delle cerimonie di rito promette solo la sicurezza dello Stato, la prosperità e la felicità materiale (37).


Dopodiché, è il caso di smentire l’opinione comune di chi si professa religioso senza aver mai letto neppure la copertina del proprio testo sacro: così, per coloro i quali ritenessero che Mosè sia stato un pacifico profeta della legge divina, che la elargì con amore, sta per arrivare la realtà dei fatti.

Mosè, infatti, non fu affatto un semplice profeta: «Mosè non insegna ai Giudei, come maestro o profeta, a non uccidere e a non rubare, ma impone loro questi divieti come legislatore e capo. Infatti egli non prova con argomentazioni la bontà di questi insegnamenti, ma ai comandi aggiunge la pena» (38).

Ogniqualvolta si attua un sacrificio, fin dagli albori della storia, non si fa per una legge divina, ma per sola consuetudine del relativo periodo, del relativo luogo e della relativa cultura. Nel caso degli Ebrei, quindi, i sacrifici offerti a Dio dai patriarchi erano frutto della legge del loro Stato. Ma per quale motivo uno Stato avrebbe dovuto imporre simili cerimonie? Il motivo è da rintracciarsi nell’utilità che ne deriva dal punto di vista della coesione del popolo e della conseguente difesa dai nemici.

Prima di proseguire è il caso di soffermarsi su quest’ultimo termine:  ossia, «nemico». Per l’antico popolo ebraico, come spiega Spinoza nel Tractatus, tale parola «designa chi vive al di fuori dello Stato così da non riconoscerne l’autorità né in qualità di suddito né in qualità di alleato. Non è il sentimento dell’odio, ma una situazione di diritto a qualificare qualcuno come nemico dello Stato; lo Stato ha il diritto di considerare chi non abbia riconosciuto la propria autorità con nessun genere di accordo, alla stregua di chi abbia inferto un danno effettivo» (39). La conseguente generalizzazione attuata dal suddito medio, tendenzialmente ignorante, è quella di sviluppare, appunto, «il sentimento dell’odio» verso costui.

Tornando alla nostra trattazione, poi, è da considerare la diversità che intercorre tra il fare le cose dietro la spinta del timore – ossia, fare quelle cose che sono pure sgradite – e il fare qualcosa perché la si ritiene doverosa, insieme all’intera comunità, non per pura obbedienza, ma per abitudine e credenza.

Quando gli Ebrei uscirono dall’Egitto, essi non erano legati più a legge alcuna. Mosè mantenne il governo perché fu dunque più intelligente degli altri, riuscendo a persuadere il popolo. Così, egli introdusse la religione nello Stato «perché il popolo compisse il proprio dovere non tanto per paura, quanto per devozione» (40). A dimostrare la veridicità di quanto fin qui esposto è il fatto che le cerimonie determinavano ogni azione della vita dell’ebreo: dall’arare, al seminare o mietere, al mangiare, al vestirsi, radersi il capo o la barba, regolare le festività, eccetera.

Così, in questo contesto di imposizioni può inserirsi pure la famosa copertura del capo, o del volto, che tutti tendono ad attribuire unicamente all’Islam (per il puro piacere dello spontaneo «sentimento dell’odio» verso lo straniero), non avendo mai letto, forse, quanto sta scritto nella Prima lettera ai Corinzi, del Nuovo Testamento: «Ma ogni donna che prega o profetizza a capo scoperto, manca di riguardo al proprio capo, perché è come se fosse rasata. Se dunque una donna non vuole coprirsi, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra» (1 Cor. 11,5-6). 


Ne segue che chi voglia insegnare una dottrina a tutta una nazione, per non dire a tutto il genere umano, e voglia essere inteso da tutti in tutte le parti del suo ragionamento, è costretto a confermare tale dottrina facendo appello soltanto all’esperienza e ad adeguare al massimo grado le proprie argomentazioni e le definizioni degli oggetti del suo insegnamento alla capacità intellettuale degli incolti da cui è costituita la maggior parte del genere umano. Egli deve quindi rinunciare a concatenare l’argomentazione e a presentare le definizioni in modo tale che valgano alla migliore organizzazione logica del ragionamento. Altrimenti scriverebbe solo per i dotti, vale a dire che sarebbe inteso solo da una cerchia ristretta di uomini (41).


Quindi, la legge mosaica, considerata esteticamente, nell’imposizione di cerimonie di rito e di racconti miracolosi, come abbiamo detto, regola la vita dell’ebreo, costituendo la coesione del popolo.

È a questo proposito che Amoroso parla puntualmente di «dimensione estetica come organizzazione del consenso» e, prosegue, «la conoscenza “estetica” («sensibile» e «poetica») [si presenta come] più efficace, ma meno sicura» (42).



4. Alcune ispirazioni letterarie delle dottrine


Le religioni e, in particolare, il cristianesimo sono costruite su derivazioni di filosofie a esse precedenti o contemporanee. 

Sarebbe infatti ingenuamente infantile pensare che esse siano veramente eredità della parola di Dio, e almeno per due ragioni: una, più gretta, che i testi vengono corrotti secondo le necessità dei tempi e che, dunque, un testo così antico sia stato manomesso a più riprese; l’altra, più matura, che a leggere quei testi non soltanto non si scorga neppure un mero barlume di fiato divino, ma essi potrebbero essere perfino una presa in giro verso qualsivoglia divinità, attribuendogliene la paternità. 

In questa sede, tuttavia, l’argomento trattato riguarda le fonti di ispirazioni a partire dalle quali appare possibile l’invenzione delle dottrine e, in particolare, del cristianesimo. A questo proposito, un famoso esempio degli studi critici sul cristianesimo è quello che ci porta subito a ripensare al platonismo

I filosofi cristiani contrastarono la filosofia platonica e tuttavia se ne servirono abbondantemente (43). È possibile pure che se non fosse Gesù stesso a conoscere la filosofia platonica (perfino Agostino d’Ippona – Lettere, XXXI, 8 – sulla scia di quanto aveva sostenuto Ambrogio, si scagliò contro dei sostenitori di questa tesi, per cui Cristo si sarebbe ispirato a Platone), ne fosse a conoscenza chi scrisse di Gesù e del suo insegnamento. 

Cominciamo osservando, prima fra tutte, l’analogia tra il Paradiso e l’Iperuranio: il primo sarebbe il mondo del sommo bene, dove vivrebbero le anime beate e dove risiederebbe la perfezione del tutto; il secondo sarebbe il famoso “mondo delle idee”, in cui risiederebbero le idee perfette di tutte le cose del mondo. 

Platone narrò pure del Demiurgo, in assenza del quale le cose non sarebbero potute nascere (si veda il Timeo), che plasmò la materia primordiale dando vita al mondo e alla sua animazione. 

Altra derivazione platonica riguarda la concezione dualistica delle cose, benché sia presente già nello Zoroastrismo asiatico, che risale a diversi secoli prima della nascita di Platone stesso, è stata una delle più pervasive maniere di pensare della storia umana. Essa è stata a più riprese utile, ma è stata il maggior motivo di contaminazione delle analisi della nostra ragione; e continua a esserlo oggigiorno – si pensi, per esempio, le partizioni estreme relative alle questione di genere, tutt’oggi di difficile superamento. 

In ogni caso, l’ispirazione platonica non soltanto risulta palese ma, in virtù della costante sua ripresa e considerazione, nei secoli, da parte di teologi e critici, pure pressoché confermata. Non a caso, infatti, Platone è definito da Tertulliano come il «vivandiere di tutti gli eretici». 

Persino Agostino d’Ippona, ne La vera religione, IV, 7, ammise le affinità tra il platonismo e il cristianesimo:


Perciò, se quegli uomini [Platone e i suoi discepoli] potessero di nuovo vivere con noi, [...] cambiando soltanto poche parole e poche opinioni, diventerebbero cristiani, come hanno fatto numerosi tra i Platonici dei tempi recenti e del nostro tempo (44).


E ancora, nel De civitate Dei, VIII, 5, Agostino scrive: «Nessuno si è avvicinato a noi più dei platonici». 

Questo significa che anche i pensatori di matrice religiosa furono inclini a ritenere che vi fosse un’affinità tra il cristianesimo e il platonismo. Un’affinità, tuttavia, non espleta il concetto di “ispirazione” letteraria: è chiaro che non possa essere espresso un pensiero di questo tipo, senza il rischio di essere accusati di eresia. 

Per quale scopo fosse nato, inizialmente, il cristianesimo è certamente non chiaro. Chiaradonna osserva:


Il cristianesimo poteva presentarsi come una scuola di filosofia: ne aveva le finalità (insegnare una dottrina atta a condurre gli adepti al perfezionamento spirituale), alcuni elementi istituzionali (un fondatore, una tradizione di riferimento, una successione di maestri, un corpo di scritti autorevoli, una procedura di ammissione e di formazione degli adepti) e anche la conflittualità tra i sostenitori di punti di vista differenti, che dava luogo a dispute, rotture e a una vasta produzione letteraria apologetica o polemica (45).


È probabile, quindi che il cristianesimo nacque proprio con lo scopo di essere una filosofia, più che una religione, ma ebbe più fortuna nella guisa della seconda opzione, che rispetto alla prima. 

D’altronde, la filosofia platonica stessa ebbe delle ripercussioni affini a quelle cristiane, in una prima fase, creando quasi una religione attorno a Platone. Si pensò, pure, che Platone fosse nato da una vergine. Diogene Laerzio scrisse, in proposito: «Speusippo, Clearco e Anassalaide riferiscono una storia che circolava ad Atene: Aristone avrete cercato di fare violenza a Perittione, che era una fanciulla nel fiore degli anni, senza però riuscirvi; smessi i suoi tentativi di violentarla, gli apparve una visione di Apollo, e da allora in poi rispettò la purezza della sua sposa fino al parto. E Platone nacque, come dice Apollodoro, nel corso dell’88° Olimpiade, nel settimo giorno del mese di Targelione [metà maggio 428/7], lo stesso in cui gli abitanti di Del dicono sia nato Apollo (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, III, 1-2)». Pare che la tradizione voglia, quindi, che quella di Platone fosse un’“immacolata concezione”, poiché Apollo l’avrebbe generato dalla vergine Perittone (46). Ciò è da archiviare fra la grande quantità di punti di ispirazione del mito sviluppatosi attorno alla persona di Gesù. 

Insomma, è un caso fortuito, da ascrivere in maggior misura a sviluppi geografici e temporali, ad aver portato il cristianesimo al suo successo contemporaneo: viene da chiedersi come sarebbe stato un mondo in cui avesse avuto più successo il platonismo del cristianesimo, divenendo esso una delle religioni più potenti e diffuse della storia. Lasciamo però le supposizioni alla fantasia e torniamo alla nostra argomentazione. 

Non soltanto dal punto di vista contenutistico, ma anche da quello letterario pare vi sia stata una forte ispirazione di matrice ellenica, da parte degli scrittori vissuti tra il II e il VI secolo, e il fatto che esistano opere che richiamano persino i titoli platonici, come il Symposium di Metodio di Olimpo, lo dimostra a sufficienza. Ma procediamo con le altre affinità:


Per esempio, l’interpretazione di Genesi, 1, 2 (nel testo dei Settanta: «la terra era invisibile e disorganizzata») come allusione a una materia primordiale informe richiama Timeo, 51 a (il ricettacolo è «specie invisibile e informe»), ma si trova anche in Sapienza, 11, 17 (Dio ha creato il mondo «da una materia informe») (47).


Esistono pure, fra le diverse giustificazioni, le facili congetture di coloro che suppongono sia stato Platone a ispirarsi alla rivelazione mosaica. C’è pure chi, lasciando proprio perdere la filosofia platonica, scrive che l’ispirazione del cristianesimo provenga unicamente dall’Antico Testamento, senza passare dai greci. 

A ogni modo, ciò non giustifica le tante affinità – come la già espressa coincidenza della nascita verginale di Gesù con quella di Platone, quantunque vi fossero altri casi, precedenti alla nascita di Gesù, da cui poter trarre spunto. 

Che Dio abbia la sua dimora nei cieli, poi, era «opinione […] molto diffusa tra i pagani» (48), come notava pure Spinoza nel suo Tractatus; e non è neppure necessario, tanto sono conosciuti, addurre esempi. 

Il grosso problema sta nell’assenza di dialogo: sta nel fatto che con la filosofia si ragiona, con la teologia, invece, si assume aprioristicamente. 


Quasi ogni volta che una riflessione esplicita viene formulata sul rapporto tra cristianesimo e platonismo, accanto a un più o meno generoso e accorto riconoscimento delle somiglianze, vi è una sottolineatura delle differenze che li separano (cfr. Agostino, Confessioni, vii, 9, 13: ibi legi ... non ibi legi) e l’assegnazione alla filosofia di un ruolo subordinato rispetto alla conoscenza della verità mediata dalla rivelazione (Meijering 1974) (49).


Severino Boezio, nella Consolatio Philosophiae, III, 11, aderisce alla filosofia platonica, proprio in quello scritto, affermando che essa faccia «risuonare la verità» (50). 

Nella lotta all’eresia condotta dalla teologia cristiana, quella rivolta alle eresie di natura religiosa di cui si tratterà a breve, non soltanto vennero condannati i sostenitori di differenti credi, o di idee religiose che si discostavano in gran parte, seppur non totalmente, dal pensiero della Chiesa. Nell’élite filosofico-teologica della tradizione cristiana, infatti, ebbero minor vita, probabilmente, coloro che erano più vicini ai vertici discorsivi e decisionali delle questioni aperte dai dibattiti. Essi, oltre alla vita, perdevano il più delle volte pure le loro opere, che venivano bruciate, come accadde nel caso di Roscellino di Compiègne che, avendo scelto di abiurare, vide bruciare le sue tesi, accusate di teismo, piuttosto che la sua vita. Ma la cosa più inumana di questi casi fu che ad accusare i teologi erano il più delle volte coloro i quali gli erano più vicini: Roscellino, per esempio, fu accusato principalmente da Pietro Abelardo, suo allievo, e da Anselmo d’Aosta.

Una religione che nasce con intenti pacifisti e che promuove l’azione dei benefattori, come può uccidere uomini e distruggere la loro libertà di pensiero ed espressione, intorno a questioni relative alla comprensione di Trinità e Unità divina, di cosa sia il Figlio rispetto al Padre e viceversa, di come conciliare il libero arbitrio con la predestinazione, e via dicendo? Si comprende che il margine di scelta delle accuse sia facilissimo e assolutamente arbitrario: sceglie cosa è vero chi comanda.

Così la religione è stata usata, proprio come Spinoza scrive nel Tractatus, a scopi politici, dopo esser stata “rubata” da alcuni uomini, dopo che essi assunsero impropriamente il ruolo di «dottori [o maestri] della chiesa» – costoro si autonominarono «guardiani della fede» (51).

Tralasciando i mali onnipresenti e persistenti tanto negli scritti quanto nella storia, passiamo a quello che potrebbe essere considerato l’unico insegnamento utile del cristianesimo e, vediamo, se esso sia per lo meno autentico. Si tratta di quanto espresso nel Vangelo di Matteo:


Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti (Mt. 7,12).


Tale insegnamento, tuttavia, non possiede nulla di sacro. Non è necessaria una rivelazione per comprendere quanto esso esponga: basta il lume naturale. Anzi, ritenere necessaria la divina rivelazione per il concepimento di un'implicazione logica come questa è veramente una maniera misera di considerarsi.

A supporto di ciò, possono essere utilizzati certi studi intorno al comportamentismo e alla conoscenza del Sé, i quali mostrano che gli uomini hanno la necessità di misurarsi con gli altri per autodefinirsi, per definire una conoscenza di se stessi, per legiferare su se stessi e sulla produzione di reazioni nei confronti degli altri.

A esaltare la potenza stessa dell’intelletto fu, peraltro, lo stesso Salomone, come fa notare Spinoza:


Nell’Antico Testamento non si trova nessuno che abbia parlato di Dio in modo più razionale di Salomone, uomo superiore per lume naturale a tutti i suoi contemporanei. Grazie a questa preminenza egli si ritenne al di sopra anche della legge (questa infatti è assegnata a chi è privo della ragione e degli insegnamenti dell’intelletto naturale) e tenne in poco conto tutte le leggi che riguardavano il re […] anzi le violò in modo manifesto (in questo tuttavia sbagliò e non si comportò in modo degno di un filosofo, lasciandosi sedurre dai piaceri). Egli insegnò che tutti i beni della fortuna sono vani per gli uomini (vedi Ecclesiaste[, VI]), che gli uomini non posseggono alcun bene superiore all’intelletto, che non c’è maggior punizione della stoltezza (vedi Proverbi, XVI, 22) (52).


Parimenti, notiamo sovente che pure gli animali facciano un uso istintivo di questa legge – quella del Vangelo secondo Matteo, che va sotto il nome di «etica della reciprocità» – per la propria sopravvivenza.

Ma se ciò non bastasse, allora mostrerò pure che questo insegnamento non abbia nulla di divino per il solo fatto di essere comune a una grandissima quantità di religioni: è identico a quello predicato nello Zoroastrismo (Shayast-na-shayast, 13.29); nell’Ebraismo (Hillel, Talmud, Shabbat, 31a); nel Sikhismo indiano (Guru Granth Sahib, 1299); nell’Induismo (Mahabharata, 5:1517); nello Giainismo (Mahavira, Sutrakritanga); nell’Islam (Maometto, Ḥadīth); nel Buddismo (Udana-Varga, 5.18); nel Taoismo (T'ai Shang Kan Ying P’ien, 213-218). 

Dovremmo forse concludere che tutte queste religioni e filosofia siano divinamente ispirate? Oppure che, soprattutto per chi predichi monoteismo, Dio abbia voluto cambiare vesti per apparire in momenti diversi e rivelare a tutti la stessa cosa? E che dire dei casi di politeismo? Oppure, scegliamo che ad aver ragione sia la religione più antica? O che, a questo punto, non esista un solo Dio, bensì tutti gli dèi delle suddette religioni e filosofie, dovendo per ciò smentire la base monoteistica delle religioni rivelate rendendole tutte false? A me pare che sia più ovvio parlare di questo concetto come di un prodotto evoluzionistico, come di una «regola di sopravvivenza»: una regola presente negli organismi che, quantomeno, vediamo sopravvivere.

La religione, quindi, non solo non possiede nulla di autentico, ma escludendone cosmologia, fisica, astronomia, e tutto ciò che riguardi la conoscenza della natura, altrove già trattato e opportunamente demolito, e lasciando unicamente questa legge, l’unica condivisibile, non ha nulla di utile. La sua unica utilità sta nell’esser capace di muovere intere masse di individui adducendo sragioni, opinioni che divengono imposizioni. L’utilità della religione non ha nulla a che fare con il fedele, ma unicamente con chi esercita il governo su questi dal pulpito. E ciò vale, come mostrato altrove, tanto per il passato quanto per il presente, si badi.

E se un fedele potrebbe obiettare che la religione gli restituisca un senso di sicurezza dinanzi lo smarrimento e il timore che si provano al pensiero della propria morte o a tante questioni relative all’esistenza, allora si risponderà che è sufficiente inventarsi un proprio pensiero riguardo ciò, o sia pure “rubarlo” alla religione: ma è ben diverso tenersi una porta aperta oltre la vita, dal chiudere tutte le porte della vita, propria e altrui. Il grande problema delle religioni sta, invero, non nella loro esistenza per se stesse, ma nella loro istituzionalizazione, ricadendo su tutti quanti.

Per chi ritenga che essa sia utile quantomeno al conforto, infine, mi sono ripromesso di affrontare, in futuro, pure tale questione, per mostrare che neppure all’uopo di ciò essa sia di alcun valore.

Un umano sano, tuttavia, non ha bisogno di sciocchezze per esser sicuro di sé, pur non escludendo credenze, miti e quanto di necessario alla sua vita culturale in senso antropologico. Tutti gli uomini, in senso ontologico, vivono la stessa condizione: tutti nascono, tutti muoiono. Morire non è il problema di alcuni più sfortunati, ma è la condizione naturale della vita di ogni cosa che esista: tutto è corruttibile e destinato alla fine. Non è la paura un movente sufficiente a condizionare la vita di intere comunità, di una quantità così ampia di individui. La mia paura non avrebbe neppure il diritto di limitare me stesso, ma se pure lo avesse, non avrebbe di certo quello di limitare gli altri.



6. La «lotta all'eresia»


«...tantum religio potuit suadere malorum»

Lucrezio, De rerum natura, I, v. 101


Le lotte più famose, promosse e condotte dalla Chiesa, vanno sotto il nome di “lotta all’eresia”. 

Non abbiamo necessità di mostrare, in questa sede, l’origine e lo sviluppo del termine «eresia», ma abbiamo tuttavia un’altra necessità: una necessità di scissione. Cosa intendo? Nella storia, quelle che sono state definite «eresie» sono state tali da creare un pot-pourri di eretici e relative eresie, come se tutte fossero state le stesse; come se tutte sostenessero le stesse idee.

Ogni massacro è da ripudiare, così come ogni singolo assassinio. Gli eretici, però, non furono tutti uguali, insomma. Unico loro comune denominatore fu il fatto di contrariare l’opinione della Chiesa, venendo da questa perseguitati. 

A meno che qualcuno non se ne sia già occupato e io non ne sia semplicemente a conoscenza, è necessaria, sia pure per la sola conservazione di una degna memoria, almeno una bipartizione dell’eresia: bisogna insomma dividere le eresie di natura religiosa, da quelle di natura scientifica – o, comunque, laica. Eresie come quelle dei Bogomili, dei Catari, dei Pauliciani, degli Arnaldisti, dei Patarini, degli Anabattisti, degli Ariani, dei Dolciniani non furono la stessa cosa di singoli eretici quali Ipazia di Alessandria, Cecco d’Ascoli, Michele Serveto, Francesco Pucci, Giordano Bruno, Galileo Galilei, Baruch Spinoza, e via dicendo. È di prioritaria importanza che questa divisione venga fatta. 

È pure vero che di eresie se ne potrebbero rinvenire molte più che due soltanto. È chiaro, perciò, che questa mia divisione intenda creare un confine fra chi difese la verità dei fatti, la logica, il ragionamento e la scienza tutta, e chi difese la sua verità, i dogmi del suo credo, la sua religione. Fatta questa preliminare osservazione, è possibile trattare dell’eresia e dei delitti peggiori promossi nel tempo dalla religione – principalmente cattolica (perché i panni sporchi si lavano in casa), ma non soltanto. Mi sono chiesto se fosse il caso di trattarne genericamente seguendo la cronologia storica, oppure seguendo altresì questa bipartizione: ho scelto la seconda opzione.

Partendo, dunque, dalle eresie religiose, cerchiamo di ricostruire brevemente la memoria storiografica. Quanto scritto nel passo di 1 Cor. 11, 19 risulta sufficiente a giustificare l’assenza di un dialogo e, anzi, la presenza di fazioni contrapposte.


È necessario infatti che sorgano fazioni tra voi, perché in mezzo a voi si manifestino quelli che hanno superato la prova.


Esistono, naturalmente, anche altri luoghi del Nuovo Testamento in cui è rinvenibile un riferimento a coloro i quali sarebbero stati definiti «eretici». D’altra parte, per chi abbia conoscenza dei testi ebraici, cristiani e coranici, assumere una visione di intercambiabilità tra gli stessi risulta logicamente naturale e coerente. 

Gli eretici, a partire da questa citazione, sarebbero coloro i quali, non avendo compreso, devono essere condotti nella retta via da chi invece avrebbe compreso la parola di Dio. Da Gal. 5,18-21 si evince pure quale sia la colpa di questi uomini: «Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge. Del resto sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere. Riguardo a queste cose vi preavviso, come già ho detto: chi le compie non erediterà il regno di Dio». 

Certo, gli argomenti restano molto vaghi, perché, a parte i divieti più espliciti di natura sessuale, parole come «stregoneria», «dissenso», «divisioni» meriterebbero di essere approfondite. Sotto il nome di «stregoneria», benché lo si usasse per definire pratiche orientate verso l’ausilio di creature infernali o «la divinazione o il sortilegio o il presagio o la magia», o ancora gli incantesimi, o chi consulti gli indovini (come si legge in Dt. 18,9-13), potevano infatti essere considerate pratiche di varia natura, sicché fu sempre a discrezione dei giudici religiosi la scelta di cosa potesse rientrare sotto tale accusa e cosa no, sfruttandola ai fini del proprio guadagno politico. Così, il semplice «dissenso», con la conseguente «divisione», è alla base di una privazione di libertà di pensiero e della giustificazione della lotta a chi compromettesse l’unità della fede. 

È curioso come, poi, la religione cattolica abbia scelto di combattere tali cose, visto che se il passo della Lettera ai Galati citato poc’anzi conduce a un ovvio sentimento di odio, quello subito successivo invita altresì a «correggerlo con spirito di dolcezza» (Gal. 6,1). Ed è altrettanto curioso che l’istituzione della Chiesa si sia fatta promotrice della correzione – non avvenuta affatto con dolcezza, com’è noto – dopo che, sempre nel capitolo sesto della Lettera, al versetto 4, venga detto che ciascuno debba esaminare «la propria condotta». 

In maniera analoga, guardando alla religione islamica, nella Sura CIX, il verso 6 recita: «a voi la vostra religione, a me la mia». Tali affermazioni farebbero credere che tuttavia i testi non invogliassero nessuno alla violenza. Nondimeno, altrove si legge: «i miscredenti avranno il castigo del fuoco» (Sura VIII:14); così come si evince, anche altrove nel Nuovo Testamento, che il giudizio di Dio nei confronti dei non credenti sarà certamente severo (1 Pt. 4,17-18). 

Nel Corano, inoltre, troviamo non poche contraddizioni riguardo la persecuzione dei non credenti: «Combattete per la causa di Allah contro coloro che vi combattono, ma senza eccessi, ché Allah non ama coloro che eccedono. Uccideteli ovunque li incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la persecuzione è peggiore dell’omicidio. Ma non attaccateli vicino alla Santa Moschea, fino a che essi non vi abbiano aggredito. Se vi assalgono, uccideteli. Questa è la ricompensa dei miscredenti» (II:190-191). Quel che ne viene è abbondantemente dubbio: bisognerebbe combattere contro chi ci combatte, ma senza eccessi; bisogna però ucciderli; poi, bisogna ucciderli solo se ci assalgono. È chiaro che questi passi sono essi stessi incongruenti fra loro e che il tentativo di accordarli altro non sarebbe che una pura forzatura.

Se ciò bastò a tenere a bada una enorme quantità di popoli, tuttavia, alcuni non soffrirono il timore di Dio o semplicemente ebbero una diversa visione e interpretazione della fede in lui. Così, si fece necessario un castigo terreno per questi uomini, promosso naturalmente da coloro i quali furono considerati, o talvolta si auto proclamarono, i più autentici portatori della parola di Dio. Così, il fuoco e la severità promessi da Dio, vennero messi in pratica sulla Terra. 

Seguiamo questa lotta, dunque, e partiamo dal Medioevo. Tralasciamo infatti i periodi precedenti, che comprenderebbero i Decreti teodosiani (391-92 d.C.), i quali sancirono la chiusura dei templi pagani; la conseguente distruzione della famosa Biblioteca di Alessandria d’Egitto; l’avvento sul trono episcopale dell’arcivescovo Cirillo, che promosse la distruzione delle sinagoghe, la cacciata degli Ebrei dalla città, l’assassinio di Ipazia; la condanna del nestorianesimo dell’imperatore Teodosio II; la condanna, in un Concilio di Calcedonia del 451, delle interpretazioni monofisite; e quant’altro. Passiamo direttamente agli eventi relativi all’inizio del Medioevo e, dunque, dal 476 d.C. in poi. 

Il periodo di massima espansione delle eresie medievali fu quello compreso fra l’inizio del secolo XI e il XIV secolo. Esse ebbero uno sviluppo talmente grande che reprimerle non fu una sorta di eccesso da parte della Chiesa, ma quasi una forma di autodifesa, poiché ebbero tutte le carte per rischiare di minare veramente alla costituzione istituzionale della stessa Chiesa romana. E ciò perché, sebbene la maggior parte fossero meno sviluppate, alcune – come quella catara – ebbero non soltanto un’espansione notevole, ma pure una istituzionalizzazione, con tanto di chiese, sacerdoti, e quant’altro. 

I più grandi movimenti eretici furono quello dei catari, appunto, e quello dei valdesi. I primi provenivano dalle zone mediorientali ed ebbero maggior diffusione nel Sud della Francia, motivo per cui talvolta il termine «albigesi», ossia «della città di Albi», è usato per intendere i catari – per l’appunto essi comparvero a Colonia nel 1143, ma è in uso il nome di Albigesi soprattutto in seguito alla Crociata bandita da Innocenzo III contro i catari di Albi, che passa appunto sotto il nome di «Crociata contro gli albigesi». I secondi, invece, presero il nome da Valdo, un mercante francese, e si svilupparono a Lione, circa un ventennio più tardi. 

Ciò che favorì in massima parte la diffusione delle eresie fu una rilettura dei Vangeli, che spinse a una forma di protesta dei fedeli contro la corruzione e le ricchezze della Chiesa. Il tentativo di recuperare il modello di vita apostolico della Chiesa primitiva ebbe un successo non indifferente:


Con il vangelo l’attuale Chiesa (romana) diventava inutile; i suoi sacramenti, inefficaci. Non era un evangelismo esemplare, per realizzare una perfezione maggiore (come avvenne in s. Francesco), ma era considerato in tanto necessario in quanto vincolante per la salvezza e in quanto legittimante l’istituzione della Chiesa, se voleva essere Chiesa di Dio e degli apostoli e sacramento di salvezza (53).


Come nota Paolini, inoltre, pure il Nuovo Testamento poneva dinanzi a una scelta, sicché l’obbedienza a esso era un’alternativa lecita, per il fedele, alla Chiesa. Infatti, in At. 5,29, Pietro afferma: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini». E personaggi come Valdo, che «fece tradurre la Bibbia perché fosse compresa da tutti», dimostrano a sufficienza quanto finalmente i fedeli potessero interessarsi della Bibbia, senza la necessaria intermediazione dell’istituzione. Cosa che fecero, difatti, finché la Chiesa non iniziò la sua forte repressione e li costrinse alla clandestinità. 

Gli eretici, quindi, come appare chiaro, non erano peggiori della Chiesa, ma – si potrebbe asserire – furono finanche più autentici.


Tutti gli eresiarchi del Medioevo assumono il ruolo di riformatori dei costumi, della religiosità e delle istituzioni dall’interno della Chiesa. […] Conosciamo gli eretici soprattutto per quel che ne hanno pensato e scritto gli avversari: è questa la ragione generale della loro negatività (54).


La caratteristica peculiare dell’eresia è l’ite, il fatto di essere gruppi itineranti, di avere una struttura missionaria alla stregua di quella degli apostoli. Poi, un’altra caratteristica è il modo di diffondere la parola con una predicazione verbo et exemplo, ossia tramite parole ed esempi. 

Il motivo della diffusione dell’eresia nasce da una privazione di libertà nel predicare: «Fu proprio il divieto della predicazione ai laici a provocare l’ereticazione, nella disobbedienza a quell’ordine, di movimenti come i valdesi e gli umiliati che erano totalmente cattolici» (55).

Gli eretici avevano delle concezioni particolari intorno alla natura di certi sacramenti e intorno alla visione di certi stili di vita, di comportamenti in generale. Ad esempio, gli eretici del IX secolo disprezzavano il matrimonio carnale – i catari ritenevano che per la salvezza non bisognava “contaminarsi” con le donne – contrapponendo all’unione la castità – fra questi, gli eretici di Arras, quelli di Monforte e i valdesi. 

La Chiesa, poi, rifiutava dal suo canto gli ideali pauperistici, vedendo come eversivi tutti coloro i quali praticassero la povertà, un po’ come se essi avessero – si potrebbe dire – qualcosa da nascondere. Nondimeno, la Chiesa non rigettava tutta la povertà: essa, finché restava nel dominio del personale, come scelta volontaria, era pure ben accetta; quando costituiva l’espressione e il punto di forza di intere comunità, invece, no.

I rappresentanti principali delle eresie precitate, in ogni caso, non furono trattati coi guanti: Ario fu scomunicato per aver sostenuto l’umanità di Cristo; Nestorio fu esiliato per ragioni affini, sotto la spinta di Cirillo; Arnaldo da Brescia, allievo di Abelardo, fu scomunicato e successivamente impiccato e arso, per aver predicato la povertà evangelica, contro allo sfarzo e alla politicizzazione della Chiesa; Dolcino da Novara fu condannato al rogo per aver predicato pure il pauperismo apostolico; Boemondo di San Severo fu frustato a morte per aver sostenuto che l’uomo non fosse stato creato da Dio, ma che si fosse generato spontaneamente; Pierre de Bruys venne bruciato vivo per aver rifiutato il battesimo e i sacramenti in generale, per aver rifiutato la Chiesa come istituzione, pensando che essa dovesse essere soltanto l’unione di fedeli, rifiutava la croce come elemento sacro, in quanto strumento di morte di Cristo – per lui, infatti, le croci dovevano essere tutte bruciate (e sicuramente non apposte negli edifici pubblici di uno Stato laico). 

Se tuttavia dovessi impiegare queste righe per scrivere di tutti gli omicidi attuati dalla religione, dovrei forse impiegare la mia intera vita a documentarmi, e non sarebbe neppure sufficiente [per chi avesse il piacere di approfondire l'opera di distruzione del cristianesimo, rimando ai dieci volumi scritti da Karlheinz Deschner, pubblicati nel 1986 col titolo Storia criminale del cristianesimo]. Rientra, invece, nell’interesse di questo scritto sottolineare principalmente i moventi che spinsero alla repressione.

Dapprima, la Chiesa romana apparve tollerante, ma poco dopo, «nel breve torno di tempo compreso fra il III concilio Lateranense (1179) e l’incontro di Verona fra Lucio III e il Barbarossa con la promulgazione della decretale Ad abolendam (1184)» (56), divenne persecutoria nei confronti dell’eresia. Si badi bene, perché che fosse più tollerante non significa che non fu promotrice di assassinii di varia natura, ma che, nel caso specifico delle eresie medievali, fino ad allora lo era stata. I casi più noti di episodi di violenza fra i secoli XI e XII, come si legge nel testo di Paolini, furono: Orléans (1022), Monforte (1028), Goslar (1052), in Francia, Soissons (1114), Colonia (1144). 

Inoltre, la Chiesa non mancò di chiedere l’ausilio dei fedeli laici:


…la persecuzione non sostituì mai interamente la volontà di persuasione e conversione degli eretici. Anzi, è in forza di questo binomio che durante il pontificato di Innocenzo III, ed in genere per tutto il Duecento, si registrarono importanti successi nella lotta all’eresia, mediante conversioni e roghi insieme. E l’impegno armato dei fedeli laici fu sempre sollecitato e premiato (57).


Vi fu un climax di violenza che andò di pari passo con l’ascesa dei vari papi: da Alessandro III, Innocenzo III e poi Innocenzo IV. 

L’Inquisizione fu istituita proprio con la bolla papale Ad abolendam, di cui si disse poc’anzi. L’inquisizione medievale, tuttavia, è diversa da quella successiva, comunemente intesa e conosciuta: dapprima si trattò della cosiddetta «inquisizione vescovile», che però ebbe risultati scarsi; mentre poi vi fu l’«inquisizione legatina» che però non ebbe grande continuità. La prima fu istituita, si può dire, in seguito alla bolla di cui s’è trattato, ma i processi raramente finivano con la morte o anche soltanto la tortura, mentre il più delle volte il risultato era la scomunica dell’imputato, a cui veniva pure rivelato il nome degli accusatori. Uno dei motivi di insuccesso fu forse da ascrivere a quest’ultimo punto, poiché, sapendo i nomi dei testimoni, sarebbe stato facile ucciderli prima del processo e liberarsi delle accuse. 

Poco dopo fu bandita la crociata contro gli Albigesi, che durò per vent’anni (1209-1229), finché, negli anni Trenta (1231-1233), nacque infine la vera inquisizione: l’«inquisizione monastico-papale». Inizialmente, gli inquisitori erano i Domenicani, che divennero ben presto impopolari per la loro severità, al punto di subire rivolte e assassinii. I disagi che si erano creati erano dovuti all’assenza di una normativa, problema a cui fu fatto fronte con la decretale Ad extirpanda (1252) di Innocenzo IV: adesso, l’inquisizione disponeva di un corpo di polizia inquisitoriale di dodici uomini, che potevano torturare gli eretici. Peraltro, divenne lecito distruggere le case degli eretici e pure la divisione dei loro beni fra il comune, il corpo di polizia, l’inquisitore e il vescovo. 

Se pensiamo che tra alcuni eretici la stessa morte per omicidio fosse ritenuta una via diretta alla salvezza, allora possiamo renderci conto di quanto fosse difficile contrastare, impaurire, sradicare l’eresia: 


ai Catari non spaventava il rogo. Anzi, la morte violenta, il martirio subìto, […] confermava quel loro sentirsi cristiani autentici […]. Quella nobile, ma ossessiva, ricerca di strumenti certi di salvezza che era chiamata endura […] rappresentava una scelta coraggiosa di martirio volontario […] cioè lasciarsi morire per inedia o farsi soffocare, garantiva automaticamente la salvezza (58).


Uno dei grandi motivi di adesione all’eresia era proprio questo comune senso di sicurezza che mostravano gli eretici agli occhi degli altri. 

All’Ordine dei Frati Predicatori fu unito, poco dopo, quello dei Frati Minori: Domenicani e Francescani divennero così il braccio armato della Chiesa, sebbene «i Minori, rispetto ai Predicatori, ebbero un ruolo meno diretto nella sperimentazione inquisitoriale».


Il movimento dell’Alleluia del 1233, ereditato e sviluppato dai Predicatori e Minori che agivano di conserva, si diffuse in molte città padane e rappresentò il momento più intenso di cambiamento: segnò una “svolta storica” […] perché diede inizio alla stagione del consenso religioso e della ricomposizione, anche faticosa, dei gruppi dirigenti comunali con il papato, proprio all’insegna della repressione antiereticale. Gran parte della strategia di Gregorio IX si avvalse dei mendicanti, che investì di una funzione marcatamente ideologizzata e compiutamente autogiustificata in un quadro di “storia della salvezza”: erano considerati gli operai dell’undecima ora, inviati dalla Provvidenza. Nelle bolle di canonizzazione di Sant’Antonio da Padova (1232) e di San Domenico (1234) questi elementi, che riguardavano i rispettivi ordini, si coniugarono al modello personale di santità promossa dal papa e proposta universalmente (59).


E se guardassimo alla bolla di canonizzazione di Domenico, in effetti, è esaltato proprio l’aspetto del combattimento dell’eresia, laddove si rinviene, nello scritto, che «la setta degli eretici ne tremò ed esultò la Chiesa dei fedeli». Tuttavia, nell’ultimo quarto di secolo iniziarono a esserci diversi problemi: vi furono contrasti interni tra i francescani e nei tribunali furono rinvenuti falsi bilanci, crimini d’estorsione e quant’altro.

Uno dei più famosi massacri banditi dalla Chiesa fu quello di Bèziers. Quando i crociati incontrarono la resistenza dei catari ai loro ordini, procedettero all’uccisione di un numero di persone che secondo alcune fonti ammontò a ventimila individui, mentre secondo altri cronisti si arrivò fino a centomila morti. È chiaro, in ogni caso, che i numeri non erano affatto esigui se pensiamo che bastò «lo spazio di due generazioni» per sradicare il catarismo. Insomma, in totale, alla fine dei vent’anni, i morti ammontarono da un minimo di ca. 200.000 a quasi 1.000.000: se consideriamo che a metà del XIV secolo, prima della peste del ’48 la popolazione ammontasse a un massimo di circa 80.000.000 di abitanti, possiamo avere un’idea di quanto la lotta all’eresia abbia inciso.

La pena più diffusa, se l’eretico non dava segni di sottomissione, era il rogo. Tuttavia, quelle che furono ritenute le pene peggiori, poiché ricadevano pure sui familiari degli eretici, erano la distruzione delle case e, soprattutto, la confisca dei beni. L’eresia, già dalla Vergentis (1199) di Innocenzo III era considerato il crimine più grave che potesse esistere. 

Ora, si potrebbe continuare a oltranza, ma per quanto concerne la lotta all’eresia nel Medioevo può bastare, poiché il fine è sempre quello di passare in rassegna gli abusi della religione e non di creare un panorama storiografico dettagliato delle vicende medievali. Dunque, si passerà ora all’altra tipologia classificata: l’eresia, per così dire, laica.

Il rapporto tra scienza e religione, com’è noto, è sempre stato contrastato da divergenze di ogni natura. I tentativi di soppressione dei lavori portati avanti dalla ragione sono sempre stati promossi dalla religione, in ogni forma: dalla censura di libri – si pensi all’Index librorum prohibitorum, creato nel 1559, ossia l’elenco dei libri proibiti, che comprendeva autori come Dante, Guglielmo di Ockham, Luciano di Samosata, Machiavelli, Boccaccio, Ariosto, Erasmo, Bacon, Balzac, Bergson, Berkley, Descartes, D’Alambert, Dumas, Flaubert, Hobbes, Hugo, Hume, Kant, Locke, Montaigne, Montesquieu, Pascal, Rousseau, Spinoza, Stendhal, Voltaire, Zola, Alfieri, Beccaria, Bruno, Croce, D’Annunzio, Foscolo, Galilei, Gentile, Gioberti, Leopardi, Savonarola, Verri, Moravia, Sartre, ecc., alla distruzione stessa dei testi, o alla manipolazione; per passare, poi, dagli scritti alle persone stesse, che furono torturate, uccise brutalmente. 

È chiaro che la necessità di scindere la teologia dalla scienza è stata, prima che dei teologi, degli stessi filosofi: Spinoza stesso scrisse il Tractatus pure con questo intento. 

Trattando quindi dell’eresia scientifica, la prima persona che viene in mente ai più è Giordano Bruno. Le idee del filosofo nolano furono in massima misura innovative per il pensiero scientifico: egli trattava di un universo infinito, di infiniti mondi, comprendendo che vi fossero tanti “soli” illuminati e che noi possiamo vedere essi soltanto, ma che comportano tuttavia la presenza di altri pianeti come il nostro. Dio, per Bruno, era questo infinito stesso: non trascende l’universo, ma è immanente a esso. Le idee di Bruno risuonano tutt’ora nella fisica contemporanea, nella cosmologia moderna, nell’ipotesi del multiverso. Il pensatore fu arrestato a Venezia nel 1592, dove si trovava in casa di Giovanni Mocenigo, suo accusatore, il quale dapprima aveva richiesto lezioni da parte sua. L’inquisizione veneziana lo consegnò al Sant’Uffizio nel mese di febbraio dell’anno successivo. Giordano Bruno fu arso vivo in Campo de’ Fiori a Roma il 17 febbraio del 1600, accusato di eresie sulla figura di Cristo, sull’Inferno, su Caino e Abele, su Mosè, sui profeti, sui dogmi della Chiesa, sulle immagini, sui santi e sull’ordine dei domenicani a cui egli stesso apparteneva. 

Qualche anno dopo rischiò Galileo Galilei, il quale sostenne, dopo i suoi studi espressi nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), la superiorità del sistema eliocentrico copernicano rispetto alla concezione geocentrica aristotelico-tolemaica; inoltre, egli sostenne pure che la matematica fosse il mezzo attraverso il quale è possibile comprendere Dio e l’universo, in quanto Dio creò tutto con la medesima razionalità espressa dalla matematica stessa. Per queste sue idee e per l’ingenuità del ritenere che i teologi potessero apprezzare il suo lavoro, fu processato poco dopo e fu costretto ad abiurare le sue tesi, cosa che gli permise di aver risparmiata la vita. 

Le ripercussioni di questo fatto arrivarono fino a Descartes, il quale scrisse, nel suo Discorso sul metodo (1637): 


Esattamente tre anni fa, quando ormai ero giunto alla fine del trattato che contiene tutte queste cose, e incominciavo a rivederne il testo per consegnarlo ad uno stampatore, venni a sapere che certe persone, per le quali ho la massima deferenza [l’autore fa riferimento ai membri del Sant’Uffizio], e la cui autorità esercita sulle mie azioni un’influenza non minore di quella che la mia ragione esercita sui miei pensieri, avevano disapprovato un’opinione riguardante la fisica pubblicata poco tempo prima da un altro autore [l’autore fa riferimento a Galileo Galilei] (60).


L’influenza di cui parla Descartes è sì pericolosa da esser stata il motivo principale di freno ai progressi dello studio scientifico. Ricordiamo che il filosofo fu l’inventore degli assi cartesiani, appunto, condusse studi di fisica che confermarono le teorie di Galilei, riportò e confermò gli studi condotti da William Harvey sulla circolazione sanguigna. Insomma, si trattava di uno studioso a tutto tondo e di grande pregio. 

Così, Giulio Cesare Vanini fu condannato al rogo per accusa di ateismo. 

Pietro d’Abano morì in carcere, dopo esser stato accusato di magia, eresia e ateismo. 

Ad Amsterdam, il 27 luglio 1656, fu data lettura di un documento di cherem – ossia di scomunica – nei confronti di Spinoza, il cui preambolo enunciava: 


I Signori del Mahamad rendono noto che, venuti a conoscenza già da tempo delle cattive opinioni e del comportamento di Baruch Spinoza, hanno tentato in diversi modi e anche con promesse di distoglierlo dalla cattiva strada. Non essendovi riusciti e ricevendo, al contrario, ogni giorno informazioni sempre maggiori sulle orribili eresie che egli sosteneva e insegnava e sulle azioni mostruose che commetteva – cose delle quali esistono testimoni degni di fede che hanno deposto e testimoniato anche in presenza del suddetto Spinoza – questi è stato riconosciuto colpevole. Avendo esaminato tutto ciò in presenza dei Signori Rabbini, i Signori del Mahamad hanno deciso, con l'accordo dei Rabbini, che il nominato Spinoza sarebbe stato bandito (enhermado) e separato dalla Nazione d'Israele in conseguenza della scomunica (cherem) che pronunciamo adesso nei termini che seguono.


A Spinoza fu risparmiata la vita, ma gli fu restituita un’esistenza d’esilio sociale: «Sappiate che non dovete avere con Spinoza alcun rapporto né scritto né orale. Che non gli sia reso alcun servizio e che nessuno si avvicini a lui più di quattro gomiti. Che nessuno dimori sotto il suo stesso tetto e che nessuno legga alcuno dei suoi scritti», concludevano i rabbini. 

È inutile riassumere una pseudo-enciclopedia della memoria di queste persone, i cui pensieri e le cui vite furono perseguitate continuamente fino a sperimentare le atrocità scaturite dall’insofferenza religiosa. Non già perché essi non meritino memoria, ma perché, se non dettagliatamente, almeno genericamente si tratta di avvenimenti risaputi. Tuttavia, mi permetto di notare come questi furono i veri martiri e, da qui in poi, proseguirò espletando le mie posizioni. 

Viene, certamente, spontaneo domandarsi come una religione che nasca con intenti pacifisti e che promuova l’azione dei benefattori, possa uccidere persone, distruggerne la libertà di pensiero ed espressione, intorno a questioni relative alla comprensione di Trinità e Unità divina, di cosa sia il Figlio rispetto al Padre e viceversa, di come conciliare il libero arbitrio con la predestinazione, e altre vergogne intellettuali di questo genere. E che il problema non stia nella religione bensì nelle persone è già in parte stato smentito mediante l'analisi dei testi e delle maniere con cui trattare, secondo quei testi stessi, chi la pensi diversamente.

Si comprende, inoltre, in virtù di questi dilemmi, che il margine di scelta delle accuse sia facilissimo e assolutamente arbitrario: sceglie cosa è vero chi comanda. Così, la religione è stata usata, proprio come Spinoza scrisse nel Tractatus: a scopi politici, dopo esser stata “rubata” da alcuni uomini, dopo che essi assunsero impropriamente il ruolo di «dottori [o maestri] della chiesa» – auto nominatisi «guardiani della fede» (61).

La Chiesa ha conferito, inoltre, la canonizzazione a taluni individui che passano alla storia come “santi”: questo discrimine ha tuttavia restituito la possibilità di identificare delinquenti e sostenitori della delinquenza, da chi ha saputo pensare e operare adeguatamente, in nome della libertà di pensiero. Santi della Chiesa cattolica sono individui come Cirillo d’Alessandria, lo stesso che fece massacrare Ipazia; il cardinale Roberto Bellarmino, lo stesso che presenziò ai processi di Bruno e Galilei; Domenico, fondatore dell’Ordine dei Predicatori, già citati come inquisitori spietati della Chiesa romana; e centinaia di altri uomini infimi, assassini verso cui si porta tutt’oggi grande stima e reverenza tra le mura della più ignorante e persistente criminalità della storia. 

Dal momento che si tende a giustificare l’istituzione religiosa a partire dall’uso improprio degli studi antropologico culturali, oltre al fatto che si ritenga altrettanto impropriamente la religione esser pacata da parecchio tempo a questa parte, ho scelto di chiudere questo ragionamento con un’osservazione dell'antropologo Francesco Remotti, nel suo Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi (2013):


Le crociate per la liberazione della Terra santa e i massacri di musulmani e di Ebrei, la crociata contro gli albigesi, la cacciata degli Ebrei e dei musulmani dalla Spagna, le guerre di religione nel cuore della stessa Europa, la caccia agli indiani delle Americhe, la tratta degli schiavi dall’Africa al continente americano, lo sfruttamento coloniale in tutti i continenti, le guerre mondiali del Novecento: il tutto con l’idea di essere i detentori della più autentica umanità, fatta da Dio e resa salva da Cristo (Bessis 2002) (62).


E avendo per le mani questo testo, ruberò quanto impresso nella pagina successiva, ossia la non biasimabile riflessione di Richard Rubenstein che «interpreta l’Olocausto come “una guerra santa modernizzata, il cui scopo era quello di eliminare la presenza degli Ebrei dal dominio dell’Europa cristiana” (Rubenstein 1996: 264)» (63).

Si potrebbero addurre migliaia di altri pensieri, supportati da analisi, fatti storici, e quant’altro. Non è questa, tuttavia, la sede. Lo scopo era quello di spiegare da dove provenissero le fantasticherie delle dottrine, in particolare quelle del cristianesimo e se, almeno quelle, fossero dotate di una qualche originalità, tali da poter essere ritenute divine.



6. Conclusione. Libera Chiesa o Libero Stato


Se i testi, insieme ai commenti, agli studi, allo sviluppo di dogmi, di regole e precetti, costituiscono tutti insieme la dottrina della Chiesa (il discorso può chiaramente essere spostato dalla Chiesa Cattolica a qualunque altra istituzione di matrice religiosa, o anche soltanto alle azioni di comunità non riconosciute); se la dottrina della Chiesa riassume in sé il volere di una religione: allora bisognerà dire che sia la religione a promuovere l'intolleranza e, consequenzialmente, l’assassinio.

Infatti, la Chiesa non ha fatto che mettere in atto dei precetti, dei divieti, e dei dettami provenienti, come abbiamo visto, da testi sacri. La Chiesa non ha colpe, al contrario di come si soglia pensare: è proprio la religione a essere colpevole. Essa ne avrebbe nella misura in cui si riconoscessero quei testi come prodotti da esseri umani, ma allora in questa maniera si vanificherebbe tutta la loro divinità, giungendo al medesimo risultato.

La Chiesa è formata da umani che, in virtù del loro egoismo, traggono dagli scritti quanto basti a portare avanti le loro tesi e il loro successo individuale, sia pure in campo puramente teologico, o in campo politico – sebbene le due cose, come appare chiaramente, non abbiano modo di essere scisse. Per definizione, infatti, un dogma è una regola e alle regole non si può sfuggire: farlo significa, nel caso delle leggi civili, incorrere in una pena nel mondo; nel caso delle leggi divine, ossia in questo nostro caso, invece, incorrere in una pena oltre il mondo.

Non esiste dunque un modo logico di conciliare una regola religiosa con la libertà di pensiero ed espressione. Le leggi sono infatti il frutto della libertà di pensiero e sono costituite – ci si aspetta – dall’unione democratica dei pensieri formulati dai più fra gli uomini; i dogmi sono il frutto di un’imposizione sacra, perciò essi non vengono dopo la libertà di pensiero, come risultato di essa, ma prima, come dettame metafisico, e la condizionano al punto da necessitarla in un sistema ferreo, che di libertà non possiede alcunché. Il pensiero ha nondimeno bisogno della sua libertà affinché si espleti il risultato del suo esercizio logico e razionale: se questa libertà viene limitata, esso non può in alcun modo manifestarsi.

Non esiste quindi una connessione logica fra la politica della teologia e la politica dello Stato: esse non possono essere, logicamente, scisse. Si deve assolutamente scegliere.

La famosa espressione «Libera Chiesa in Libero Stato», formulata da Charles de Montalembert (Ecclesia libera in libera patria), ripresa dal teologo Alexandre Vinet, e, infine, conosciuta principalmente per esser stata utilizzata da Camillo Benso conte di Cavour, non ha nulla di sensato, ma è semmai risultato di ignavia e strafottenza, all'uopo dell'accontentare tutti quanti. Essa dovrebbe esser corretta in «Libera Chiesa o Libero Stato» (Ecclesia libera aut libera patria).

In forza delle ragioni addotte fin qui, infatti, la tolleranza non può sposare tutto. Pensiamo all’insegnamento della stessa religione, quello di Gesù: «amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra» (Lc. 6,27-29). Esso potrebbe essere una buona obiezione a quanto sostengo se solo non lo si confrontasse con la realtà dei fatti. [Inoltre, faccio presente che in uno scritto futuro mi occuperò pure di smentire la presunta bontà dei vangeli a partire da essi stessi, dimostrando che le loro predicazioni sono inattuabili dinanzi ai loro stessi assunti metafisici].

È molto più utile vedere il mondo che supporlo, insomma. Ed è anche più utile pensare di costituirlo sulla logica, piuttosto che sulla passività. Inoltre, è pure assurdo portare il vessillo di una tale affermazione, dopo che nello stesso testo si parla di correzione, sia pure con dolcezza o meno.

Cosa, dunque, non può sposare la tolleranza? È molto semplice: il suo contrario. Tollerare l’intolleranza sarebbe depauperante sotto innumerevoli profili e la storia della pigrizia, della sopportazione e del laissez faire (che qui non uso con connotati economici, com’è ovvio) è un omissione di soccorso nei confronti di coloro i quali vogliono vivere liberamente senza chiaramente limitare la libertà altrui.

Qui cade, alla mente di uno sciocco, un’altra obiezione, che si attacca proprio alla «limitazione di libertà» appena espressa: così facendo, difatti, si limiterebbe la libertà delle religioni – direbbe questi. Limitare la libertà di qualcosa è assolutamente sbagliato; ma limitare la libertà di qualcosa che presuppone, a sua volta, una limitazione di libertà è necessario.

Bisogna scegliere, nella vita, per non fare la fine dell’asino di Buridano, che fra due mucchi di fieno, non sapendo cosa scegliere, morì di fame. Se la scelta presuppone una costruzione logica della vita – in cui ogni cosa possa essere valutata, compresa, rigettata, distrutta, superata, e così via – si contrappone alla scelta di un’imposizione di vita – con regole immutabili, con pensieri non valutabili, da apprendere senza necessariamente comprendere, che non possono essere rigettati né tantomeno distrutti, che non hanno modo di esser superati, eccetera – allora avanzo l’idea presuntuosa di saper già cosa sia meglio scegliere.

Le implicazioni, per coloro i quali sostengono che tali cose accadevano “solo nel passato”, sono invero tangibili ogni giorno, pure nella contemporaneità. È un problema antropologico-culturale a non farcene accorgere e a farci credere che la ragione abbia avuto il sopravvento, che il problema sia soltanto di alcune civiltà, di alcuni popoli, come si suole credere in occidente, oggi, riguardo soprattutto alla comunità musulmana. Parlando con la gente si evince a più riprese il fatto che sia pensiero comune l’idea che “questo sia un altro tempo” e che certi problemi del passato non possano toccare la contemporaneità. Quanto questo pensare sia ingenuo, lo dimostrerà pure ciò che sto per sostenere.

Pier Paolo Pasolini, scrisse della «società dei consumi» come di una nuova e più potente forma di fascismo. Leggiamo quanto segue, per comprendere dove vuole giungere il ragionamento che mi sono proposto di portare avanti:


Io credo, lo credo profondamente, che il vero fascismo sia quello che i sociologhi hanno troppo bonariamente chiamato «la società dei consumi». Una definizione che sembra innocua, puramente indicativa. Ed invece no. Se uno osserva bene la realtà, e soprattutto se uno sa leggere intorno negli oggetti, nel paesaggio, nell’urbanistica e, soprattutto, negli uomini, vede che i risultati di questa spensierata società dei consumi sono i risultati di una dittatura, di un vero e proprio fascismo. Nel film di Naldini [cioè Fascista] noi abbiamo visto i giovani inquadrati, in divisa… Con una differenza però. Allora i giovani nel momento stesso in cui si toglievano la divisa e riprendevano la strada verso i loro paesi ed i loro campi, ritornavano gli italiani di cento, di cinquant’anni addietro, come prima del fascismo.

Il fascismo in realtà li aveva resi dei pagliacci, dei servi, e forse in parte anche convinti, ma non li aveva toccati sul serio, nel fondo dell’anima, nel loro modo di essere. Questo nuovo fascismo, questa società dei consumi, invece, ha profondamente trasformato i giovani, li ha toccati nell’intimo, ha dato loro altri sentimenti, altri modi di pensare, di vivere, altri modelli culturali. Non si tratta più, come nell’epoca mussoliniana, di una irregimentazione superficiale, scenografica, ma di una irregimentazione reale che ha rubato e cambiato loro l’anima. Il che significa, in definitiva, che questa «civiltà dei consumi» è una civiltà dittatoriale. Insomma se la parola fascismo significa la prepotenza del potere, la «società dei consumi» ha bene realizzato il fascismo (64).


È facile esser tolleranti quando non devi esercitare un governo sugli uomini, quando gli uomini, ormai, si auto-governano.

Pasolini nota che la «società dei consumi» ha superato il fascismo in quanto, se il primo li “costringeva” – sia pure sapendolo ben mascherare – con un esercizio del potere che si palesava nei fatti, essa è in grado di non esercitare questa costrizione, questo potere visibile: non ne ha neppure bisogno, perché è riuscita a trasformare i giovani, toccandoli nell’intimo; a dare loro «altri sentimenti, altri modi di pensare, di vivere, altri modelli culturali».

È difficile comprendere, a quel punto, fin dove le nostre azioni siano dettate dalla nostra volontà e da dove inizi, invece, quella persuasione tacita e inconscia che ci fa credere che a deliberare sia veramente la nostra volontà.

In altri termini, per spostarci su un altro esempio, quando oggi la televisione propone dei programmi all’attenzione del pubblico, la vera domanda è: i programmi sono una volontà del pubblico, o nel tempo hanno costituito la loro volontà? Essi, insomma, li vogliono perché li desiderano per loro propria natura, o hanno altresì imparato a desiderarli? O meglio, hanno iniziato a desiderarli, per il fatto di averli sempre sott’occhio? Infatti, seppure in principio qualcosa di pubblico possa non interessare, l’individuo deve documentarsene comunque, anche solo per chiacchierarne al bar con un amico. Nelle generazioni, nel successo dei dialoghi da bar, questo documentarsi lascia silenziosamente spazio a quello che apparentemente sembra essere un vero e proprio interesse, che diviene poi desiderio, che porta a confondere qualcosa a cui siamo abituati, con qualcosa che veramente vogliamo. Si potrebbe scrivere un intero saggio su questo argomento, ma non è di mio interesse in questo momento.

Quel che voglio mostrare è che ciò che Pasolini sostenne della «società dei consumi» io lo sostengo della religione. Infatti, quel che è accaduto con la religione è esattamente lo stesso. Chiunque accetta, oggigiorno, sia esso o meno fedele, la religione che culturalmente ha partecipato alla formazione della società cui appartiene; né si cura di come ciò sia avvenuto: ne prende, anzi, le difese.

È proprio per questa stessa ragione – l’aver creato, insieme al resto, la cultura della società – che la gente rimane indifferente verso le esternalità negative che essa apporta costantemente al loro vivere. Sicché il fedele non l’abbandona perché la segue; ma neppure il laico, o finanche l’ateo, si oppongono a essa. Essi lasciano che abbia il suo corso, poiché ritengono che non possa, oggi, creare alcun disagio alla società. È questa superficialità che non consentirà loro di dirimere diverse questioni politiche e sociali, cui si può far fronte unicamente ripartendo da un buon sistema educativo, che include principalmente lo sradicamento di questo atteggiamento passivo verso ciò che arreca dei disagi al progresso culturale di un popolo.

È vero solo in parte che la religione non esercita più alcuna repressione. In Italia, per esempio, è vero; ma lo è perché ormai non ha più bisogno di comportarsi come il «fascismo», avendo di gran lunga superato il dominio stesso della «società dei consumi».

La religione non esercita la repressione se non ne ha bisogno e laddove ne ha bisogno, laddove non riesce a imporsi, come nel caso dell’Islam contemporaneo ma non soltanto, lo fa. Ed è inutile giustificare questi uomini definendo una demarcazione fra “buoni” e “cattivi” fedeli, o religiosi, che sia. Anche perché, in realtà, la coerenza di quei “cattivi” rispetto ai precetti dei loro credi è pure più autentica di quella dei nostri “buoni”, i quali si servono dei precetti della propria religione all'occorrenza della propria convenienza.

Non è possibile costituire uno stato di uomini liberi in assenza dei presupposti a supporto di tale libertà. Lo ripeto: la tolleranza non può tollerare l’intolleranza. Farlo significa non poterla esercitare. È necessario un annullamento del pensiero religioso e una sua rielaborazione, accompagnata da costanti tentativi di rieducazione di massa, per superare tutto ciò.

E io credo, ahimè, che ciò sia impossibile, perché i più tra voi non saranno mai sufficientemente maturi da comprendere certi sottili discrimini e da abbandonare i propri intimi desideri in favore dell'altrui libertà.



Note


  • (1) Protagora, Frammenti, 4, in I Presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz, a cura di Giovanni Reale, Milano, 2006, p. 1577.

  • (2) B. Spinoza, Etica e Trattato teologico-politico, p. 154.

  • (3) Chiara Bottici, Un altro illuminismo: immaginazione e mito in Spinoza, in Etica & Politica (Ethics & Politics) XVI, 2014, 1, MONOGRAPHICA I, Spinoza e l’immaginario collettivo, p. 39.

  • (4) Ivi, p. 171.

  • (5) A. Baumgarten, Aesthetica (1750), a cura di Salvatore Tedesco, trad. it. di Francesco Caparrotta, Anna Li Vigni, Salvatore Tedesco, Palermo, Aesthetica Edizioni, 2000, p. 27.

  • (6) B. Spinoza, Etica e Trattato teologico-politico, p. 128.

  • (7) Ivi, p. 127.

  • (8) A. Gehlen, L'uomo nell'era della tecnica, p. 37.

  • (9) B. Spinoza, Etica e Trattato teologico-politico, p. 427.

  • (10) Ivi, p. 428.

  • (11) Luigi Bignami, L'eclissi più lunga del secolo in Asia sei minuti senza Sole, «la Repubblica.it», link: http://www.repubblica.it/2009/07/sezioni/scienze/eclissi/eclissi/eclissi.html, 21 Luglio 2009.

  • (12) B. Spinoza, Trattato teologico-politico, p. 481.

  • (13) A. Baumgarten, Aesthetica, p. 32.

  • (14) L. Amoroso, Ratio & aesthetica. La nascita dell’estetica e la filosofia moderna, p. 25.

  • (15) B. Spinoza, Etica e Trattato teologico-politico, p. 260.

  • (16) F. Mignini, «Ars imaginandi». Apparenza e rappresentazione in Spinoza, p. 233.

  • (17) Ivi, p. 375.

  • (18) G. Vico, Princìpi di scienza nuova, a cura di Andrea Battistini, Mondadori, Milano, 2011, p. 209.

  • (19) L. Amoroso, Ratio & aesthetica. La nascita dell’estetica e la filosofia moderna, p. 87.

  • (20) B. Spinoza, Etica e Trattato teologico-politico, p. 487.

  • (21) S. Nadler, Un libro forgiato all’inferno, pp. 42 e 45.

  • (22) B. Spinoza, Etica e Trattato teologico-politico, p. 493.

  • (23) Ivi, p. 495.

  • (24) Ivi, p. 501.

  • (25) Ivi, p. 524.

  • (26) Ivi, p. 511.

  • (27) Ivi, p. 512.

  • (28) Ibid.

  • (29) L. Amoroso, Ratio & aesthetica. La nascita dell’estetica e la filosofia moderna, p. 143.

  • (30) B. Spinoza, Etica e Trattato teologico-politico, p. 513.

  • (31) Ivi, p. 416.

  • (32) Ivi, p. 422.

  • (33) Ivi, p. 423.

  • (34) Ivi, p. 429.

  • (35) Ivi, pp. 536-538.

  • (36) Ivi, p. 545.

  • (37) Ivi, p. 473.

  • (38) Ivi, p. 472.

  • (39) Ivi, pp. 655-656.

  • (40) Ivi, p. 478.

  • (41) Ivi, pp. 480-481.

  • (42) L. Amoroso, Ratio & aesthetica. La nascita dell’estetica e la filosofia moderna, pp. 144, 145.

  • (43) R. Chiaradonna, a cura di, Platonismo e cristianesimo, in Filosofia tardo-antica, Roma, Carocci, 2012, (Frecce, 132), pp. 129-151.

  • (44) Agostino d’Ippona, La vera religione, IV, 7.

  • (45) R. Chiaradonna, a cura di, Platonismo e cristianesimo, pp. 129-151.

  • (46) M. Vegetti, Quindici lezioni su Platone, p. 9.

  • (47) R. Chiaradonna, a cura di, Platonismo e cristianesimo, pp. 129-151.

  • (48) B. Spinoza, Etica e Trattato teologico-politico, p. 431.

  • (49) R. Chiaradonna, a cura di, Platonismo e cristianesimo, pp. 129-151.

  • (50) Severino Boezio, Consolatio philosophiae, III, 11.

  • (51) S. Nadler, Un libro forgiato all’inferno, p. 56.

  • (52) B. Spinoza, Etica e Trattato teologico-politico, p. 433. È da precisare che le Ecclesiaste era ritenuto dagli antichi rabbini opera di Salomone, sebbene oggi la sua redazione sia fatta risalire ai secoli III-I a.C.

  • (53) L. Paolini, Le eresie medievali: religiosità e cultura, in: Atlante storico della cultura medievale in Occidente, Milano, Editoriale Iaca Book, 2007, p.

  • (54) Ivi, p. 23 e 28.

  • (55) Ivi, p.

  • (56) Ivi, p. 43.

  • (57) Ivi, p. 45.

  • (58) L. Paolini, Il dualismo medievale, in Crisi, rotture e cambiamenti, Milano: Jaca Book-Massimo, 1995. Trattato di antropologia del sacro, p. 208.

  • (59) L. Paolini, Le piccole volpi. Chiesa ed eretici nel Medioevo, p. 169.

  • (60) R. Descartes, Discorso sul Metodo, VI 60 AT, trad. it. di Marcella Renzoni, p. 55.

  • (61) S. Nadler, Un libro forgiato all’inferno, p. 56.

  • (62) F. Remotti, Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi, p. 180.

  • (63) Ivi, p. 181.

  • (64) P. P. Pasolini, Scritti corsari (1975), Milano, Garzanti editore, 2016, p. 233.

 
 

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