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Di mio nonno e della Filosofia

  • Immagine del redattore: Giovanni Cusenza
    Giovanni Cusenza
  • 15 mar 2020
  • Tempo di lettura: 10 min

Aggiornamento: 22 mag 2024

Inizio tante cose nella vita, ma alla fine non le concludo mai. Sono le cose che inizio, più che altro, a concludere me. 

Mi piace scrivere. Mi è sempre piaciuto. Nondimeno, chi mi guardasse da fuori, se non mi conoscesse a fondo, penserebbe che non si tratti di una passione così forte, dal momento che ho sempre cercato soddisfazione in tante cose.

Ho imparato qualcosa di musica, strimpello la chitarra e ogni tanto faccio finta di suonare il piano. Mi sono perfino iscritto a un corso di canto da un po’ di tempo a questa parte.

Amo i film, penso che certe cose non debbano esser scritte, ma viste e udite. È per questa ragione che mi piace cimentarmi nella realizzazione di filmati, o documentarmi su come scrivere un’adeguata sceneggiatura, per poter meglio visualizzare quel che mi restituisce l’immaginazione.

Non sono un amante della lettura. Essere amanti della lettura significa divorare libri senza lasciarsi distrarre da quel che succede attorno. Significa mangiare frasi con una fame assimilabile a quella di un cane a cui hai appena riempito la ciotola del cibo. Ma non è necessario amare la lettura per potersela gustare, per saper assaporare il dolce e l’amaro delle parole. 

Personalmente leggo abbastanza, a cadenza abbondantemente irregolare. Nei periodi in cui leggo, lo faccio come se fossi un amante della lettura, che tuttavia, come ho già detto, non sono affatto. Ho iniziato a leggere tardi, devo dire. Da piccolo mi è capitato di leggere qualche fumetto, quello sì. Sono sempre stato molto curioso, ma ho sempre cercato soddisfazione nella realtà attorno a me per sfogarmi. Ho sviluppato una singolare capacità di distrarmi ed è per questo che la lettura è giunta tardi, perché è sorta in concomitanza a un momento in cui ho sentito di dover vivere più responsabilmente.

Certo, sono cresciuto in ambienti molto stimolanti. Non ricordo tante favole, benché i miei me le leggessero prima di andare a letto. Quando ero piccolo mio nonno era solito raccontarmi l’Odissea e sono stati quei racconti, ancorché non li ricordi più con chiarezza, a far sorgere in me un amore smodato verso la conoscenza. 

Non esiste storia più emozionante di quanto è raccontato nel canto ventiseiesimo dell’Inferno di Dante. L’ho letto per la prima volta all’università, dopo aver scelto liberamente un corso di letteratura italiana. Non ho frequentato un gran liceo, fra le altre cose.

Quando Ulisse s’accorse che la dolcezza del figlio, la devozione al padre, l’amore verso Penelope non potevano vincere l’ardore che aveva a divenir del mondo esperto, dei vizi umani e del valore, si mise per l’alto mare aperto e si conformò alla vera natura dell’uomo. Quei versi mi risuonano dentro molto spesso e la loro eco produce le immagini passate di quando ascoltavo chi fosse Ulisse dalla bocca di mio nonno. Il personaggio omerico era l’uomo, la conoscenza, la ragione che non si ferma, che vuole sempre di più dal mondo e da se stessa. La curiosità di quel bambino si scolpiva sulla forma di quell’insaziabile eroe.

È per questo che tutt’oggi non riesco a saziarmi. Non leggo perché amo leggere, ma perché ho necessità di scoprire cosa quel testo abbia da spiegarmi. È per questo che non posso essere un amante della lettura, perché sono una prostituta della curiosità, e all’occorrenza sono l’amante di diverse cose. Certo, a questo vizio ho posto dei limiti, per quanto possibile. In fin dei conti non sono estremamente dispersivo, perché sono affamato, ma ho dei piatti preferiti. 

Fin da piccolo mi è piaciuto disegnare, ma quella, per esempio, è una passione quasi del tutto archiviata. In compenso, da qualche anno pratico regolare attività fisica e a volte sembra quasi che questa sia divenuta la mia passione principale. Ma sono un povero uomo cresciuto con gli abiti culturali della società in cui vivo, ed essendo più incline agli interessi umanistici non credo avrei il coraggio di ammettere neppure a me stesso, se anche fosse vero, che l’allenamento del corpo possa essere la mia passione più consolidata.

La colpa è stata della filosofia. Mi sono iscritto all’università con un’idea del tutto sbagliata di essa. Credo, col senno di poi, che un indirizzo letterario avrebbe soddisfatto molto più le mie aspettative di allora. Giunto all’università ho trovato un mondo altro da quello nel quale avevo vissuto prima. E non mi riferisco al fatto che andai a vivere in un’altra città per la prima volta, lontano dalla famiglia e in condizioni molto diverse dal solito. Parlo dello studio, o meglio, dei libri che ho letto.

Ho avuto la fortuna di incontrare, nel mio percorso, dei pensatori fantastici. Per la prima volta, coi miei occhi vedevo i pensieri di esseri umani vissuti secoli fa da una nuova luce. Non si trattava più di un’onorevole riesumazione di cadaveri per fingere emotivamente di osannarli, un po’ come si vede fare a tutti quanti oggigiorno. Erano piuttosto come tanti nonni, tutti lì a raccontarti delle questioni meravigliose. Per carità, all’apparenza si tratta, il più delle volte, di roba molto fredda, distaccata. I saggi di filosofia non sono certo romanzi d’avventura e per amarli bisogna amare la curiosità più che i libri stessi.

Ho sempre pensato che quasi tutti abbiano un’idea sbagliata della filosofia, tanto la gente molto distante dagli ambienti di interesse, quanto la gente che fruisce regolarmente di argomenti filosofici. La filosofia viene trattata come una disciplina, spesse volte come una specie particolare di disciplina letteraria o storica, laddove all’infuori della storia della filosofia, non si tratti che di un enorme metodo. Chi studia filosofia non acquisisce delle vere e proprie nozioni, e se accade probabilmente non ha colto il senso di ciò che studia. La spiegazione più semplice di cosa sia la filosofia l’ho letta da Kant, nella prefazione a un suo libro. L’antica filosofia greca, scriveva il filosofo tedesco, si divideva in tre scienze: la logica, l’etica e la fisica. La prima studiava la forma dell’intelletto, il modo in cui ragioniamo, insomma. Le altre due studiavano una i costumi e l’altra la natura. Studiando il mezzo con cui conoscere, e cioè l’intelletto, e le cose da conoscere, i comportamenti umani e della natura in ogni sua forma, non resta fuori nulla. Ecco perché non si impara nessuna nozione vera e propria.

La filosofia era quindi la barca di Ulisse, l’incessante e reiterata ricerca di soddisfazione per la ragione umana, la sua conoscenza dell’umano e della natura. Tutto era dentro la filosofia.

È chiaro che con l’avanzare del tempo e con l’accumulo delle conoscenze in merito al mondo si siano distinte tante diverse discipline, ad oggi. Tutto quello di cui un tempo poteva occuparsi un filosofo non è pensabile per un pensatore contemporaneo. Il problema è stato rendere la filosofia una semplice disciplina qualunque e non, piuttosto, un metodo propedeutico e necessario a iniziare un qualsiasi percorso verso una specifica direzione.

Quando leggevo quella prefazione sul libro di Kant, immaginavo tutte quelle cose che potevano andare al di sotto di logica, etica e fisica giungendo, in modo molto generale, agli studi contemporanei. A quel punto mi era facile pensare alla filosofia non più come la donna degna di molta riverenza, in candide vesti, che raccontava Boezio, ma come una signora anziana di un certo rispetto e frattanto di una singolare capacità di aggregazione. La immaginavo come capace di abbracciare tutti quei nipoti, tutte quelle discipline che, dalle prime domande via via procedendo per domande sempre più specifiche e complesse, giungevano fino alle varie branche del sapere odierno.

E non perché pensassi la filosofia esser superiore, o avere qualche super posizione unicamente perché si trattava di ciò a cui stavo dedicando la mia vita. Pensavo, piuttosto, che attraverso quel punto di vista fosse stata elogiata ogni disciplina, ogni ramo della conoscenza umana. Se si comprendesse questo della filosofia, allora sarebbe automatico vedere qualcosa di incredibilmente interessante pure in ciò di cui non ci occupiamo. Ho assistito spesso a diatribe fra diversi ambienti di studio e altrettante nel medesimo. Spesse volte per fraintendimenti nel dirsi reciprocamente le stesse cose. Altre per il solo fatto di sconoscere l’ambiente esterno e ritenerlo un antagonista, o finanche un oppositore. In parte è legittimo questo atteggiamento di attacco e difesa da parte delle persone, anche all’interno degli ambienti di studio. Io penso che non esista una parte razionale di noi che sia totalmente indipendente da quella emotiva. Anche nel leggere il funzionamento di un organo umano, o l’espressione di una legge giuridica, o persino la coniugazione di un verbo v’è una componente di piacere. Sia pure nel momento di maggior responsabilità. Tutto quello che facciamo è in vista di un piacere più o meno distante da noi. E se non è il fine, è il mezzo, ma non un mezzo separato dal fine, ma inteso come fosse un passo prima del fine stesso, ma della stessa natura, similmente a come diceva Dewey. In qualche maniera, perciò, io penso che l’intera vita umana sia edonistica. Ecco perché anche quando meno ce l’aspettiamo finiamo con l’essere umani, troppo umani.

Così, a partire da quegli studi, ho sviluppato un interesse ancor più grande rispetto a quel che il mondo e l’accumulo culturale umano hanno da offrire. Quando finii la triennale pensai per qualche mese di iscrivermi a una facoltà di fisica, ma dovetti lasciar perdere proprio rendendomi conto che quella materia aveva bisogno di persone tutte disposte a spendersi per lei sola, e io, un ragazzo con così tanti interessi, potevo interessarmi più ad argomenti divulgativi che approfondire adeguatamente ciò che inerisce quella scienza.

Nietzsche scrisse che «una virtù è più di due, perché è più il nodo a cui si aggrappa il destino». Come dargli torto. Ho sempre invidiato quelle persone che fin da piccole hanno sempre saputo cosa avrebbero voluto fare nella vita. Nel mio caso, invece, le cose sono andate molto diversamente. Prima volevo diventare un paleontologo, ed era alquanto strano per le persone che domandavano a un bambino di dieci anni cosa volesse fare da grande quando si sentivano rispondere «il paleontologo». Non «lo scienziato», eh: «il paleontologo». Poi, ci fu un periodo in cui mi innamorai delle vignette sulla politica e iniziai a pensare quanto sarebbe stato bello fare il vignettista. Quando di anni ne feci tredici, ascoltai per la prima volta Jimi Hendrix, per puro caso. È inutile dirvi quale era diventata la mia ambizione a quel punto.

Suonai con grande motivazione fino ai diciotto anni, quando dovetti interrompere per iniziare l’università. Prima di iscrivermi alla facoltà di filosofia, cosa che avevo compreso desiderare fin dalla terza superiore, però, per rimanere in linea con la mia natura, pensai di iniziare un percorso di architettura. Per fortuna riuscii a fermarmi prima che fosse tardi. Non perché non mi sarebbe piaciuto fare l’architetto, sia chiaro. Ma perché con il senno di poi mi rendo conto che la filosofia mi sarebbe calzata meglio, per come sono fatto.

Negli anni a seguire, gli interessi si moltiplicarono. Iniziai a guardare tanti film e così sorse l’interesse verso il montaggio dei video, le sceneggiature, e via dicendo. Quando mi sentivo fuori luogo pensavo a personaggi come Pasolini, che all’occorrenza scrivevano, in altri casi giravano un film. In effetti dovremmo capire che alcune persone possono essere musicisti, altri cineasti, altri ancora attori e via dicendo. Ma ci sono persone che non possono essere altro nella vita che dei semplici artisti, laddove il senso della parola arte rimandi più al suo senso radicale, quello poietico, della modellazione, dell’imitazione della natura, della rappresentazione. La gente come me ha due possibilità: o realizzare una vita poliedrica, in cui ogni spinta creativa viene soddisfatta in maniera differente, tuttavia con la coscienza di non essere mai un professionista in nulla; o di non realizzarla affatto e doversi piangere addosso mentre svolgerà un mestiere che non ha nulla a che vedere con quanto avrebbe sempre desiderato.

Personalità del genere sono quelle che dovrebbero avere ruoli gestionali in un’azienda, o in una comunità, in senso politico, in generale. Sembra quasi che stia dicendo che la gente come me sia superiore agli altri, ma in realtà sto intendendo l’esatto opposto. Penso che chi sia fatto in questa maniera sia altresì condannato dalla sua natura a non potersi sposare con qualcosa. Nondimeno, egli riesce ad amarla ugualmente, pur sapendo di non essere un amante all’altezza e che, quindi, sia meglio che quella cosa, quella disciplina che necessita amore, trovi altro all’infuori di lui.

Un ruolo gestionale rientra perfettamente nelle personalità irrefrenabili, purché non siano anche confusionarie e dispersive. Se due tecnici svolgono due mansioni opposte non serve qualcuno che sappia nel particolare quale sia il loro compito, ma serve qualcuno che sappia per quale motivo entrambi siano essenziali alla riuscita comune. Fra loro, essi saranno inclini a contrapporsi: l’uno tirando le lodi della propria scienza e l’altro opponendo a quelli la propria. È necessario, quindi, che vi sia qualcuno disposto a capire perché entrambi abbiano torto ed entrambi ragione. Il mondo è pieno di gente disposta a spendere belle parole all’occorrenza, ma è povero di persone in grado di percepire il calore della realtà dentro di sé.

Questo pensiero mi riporta al senso di sgomento che provo a vivere, ogni giorno. Mia madre dice che anche questo mio temperamento sia tale per colpa della filosofia e non escludo che possa aver ragione.

Fra le tante cose che ho studiato negli anni mi è capitato di leggere la tesi di dottorato di Foucault, così come l’Elogio della follia che scrisse Erasmo. Infatti, benché non l’abbia fatto presente, ho pure pensato di iscrivermi a una facoltà di medicina per poter diventare uno psichiatra, un giorno. Ma bisogna sempre fare i conti col tempo e, anche in quel caso, ho lasciato perdere tutto.

Quel che so è che quei libri mi hanno fatto innamorare della follia e non nel senso romantico, quasi ottocentesco, degli spiriti liberi alla Nietzsche, ma più nella constatazione che Torquato Tasso fosse un genio e che tale non sia, invece, la prima persona che incontro usualmente per strada e che la società è solita definire normale.

A questo proposito, vorrei dire che gli stessi motori delle mie risate sono quelli della mia voglia di urlare e distruggere tutto quello che mi circonda. E più di questi motori stessi, a farmi arrabbiare sono quelle persone che condividono questo punto di vista ma che riescono a trarne soltanto le risa. 

Folle è di solito considerato chi delira, magari passeggiando solo per strada, ridendo o piangendo senza un motivo apparente, e che inizia a fantasticare su cose che nessuno vede e sente. Erasmo mi ha insegnato che i folli sono gli unici in grado di dire la verità. Ma non nel senso che tutti i restanti abbiano torto, ma nel senso che, a loro, dire la verità è sempre concesso, anche nella peggiore delle situazioni. Tutt’al più la gente si farà una risata, li deriderà, non li ascolterà affatto. Quella stessa verità che alla corte di un re, detta da un filosofo, potrebbe costargli la testa, diceva Erasmo, se detta da un giullare farà divertire immensamente il sovrano.

Ho passato diverse fasi mistiche nella mia vita. Sono stato cattolico, fervente sostenitore della fede e convinto di percepire un tale signor Dio, severo e amorevole, dalla lunga barba bianca, benché non lo vedessi affatto. Poi, mi convinsi che tutto quel che la religione affermava fosse un’assurdità, un modo per governare più facilmente l’umanità, e allora negai fortemente l’esistenza di Dio. Successivamente, passai a pensare che sarebbe stato più adeguato ammettermi agnostico, che il mio ateismo fosse più una conseguenza dell’odio verso i fedeli che verso Dio stesso. Così, iniziai a sostenere con forza la mia ignoranza riguardo alla questione. Infine, lessi Spinoza e mi resi conto che Dio è in realtà quanto di più facile vi sia da comprendere e capii che le religioni non soltanto allontanano gli individui da Dio, ma sono la cosa più deleteria dell’intera vita umana. Fu lì che, nonostante diventai nuovamente credente, o qualcosa di simile, iniziai a non poter più sopportare la gente religiosa.

In quello stesso momento mi accorsi di cosa erano i folli. Erano semplicemente delle persone normali, costrette da una mente delirante; ma contemporaneamente essi erano gli unici esseri umani veramente liberi. Sono liberi nelle loro sensatezze tanto quanto nelle loro insensatezze, al contrario della gente comune. E il più delle volte in cui crediamo che le loro siano insensatezze, o non abbiamo di fronte un folle, oppure non abbiamo ancora capito cosa questi intenda dirci.

Tutto questo, infine, è accaduto per via di mio nonno e della Filosofia.

 
 

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